giovedì 6 ottobre 2016

Bernini e la libertà dell'artista: Montanari si dedichi alla storia dell'arte e lasci stare la politica

La libertà di Bernini. La sovranità dell'artista e le regole del potere
Tomaso Montanari: La libertà di Bernini, Einaudi, pagg. 324, euro 42

Risvolto

Gian Lorenzo Bernini non ha un posto nella genealogia dell'arte moderna: quella che parte dalla rivoluzione di Caravaggio, e attraverso Velázquez, Goya e Manet, conduce agli Impressionisti, e dunque alle avanguardie. L'artista più potente, ricco e realizzato dell'Italia secentesca, "il dittatore artistico di Roma", è sempre stato considerato troppo organico alla propaganda dei papi e dei gesuiti per poter aver parte in questa storia di libertà. Basandosi su oltre vent'anni di ricerca, e ribaltando la lettura corrente di opere, fonti e documenti, questo libro dimostra il contrario: a modo suo, Bernini ha seguito Caravaggio sulla via del conflitto, arrivando a sacrificare una parte del proprio successo pur di difendere la sovranità sulla propria arte. Ed è anche grazie a questa tensione che le opere di Gian Lorenzo ci appaiono ancora così terribilmente vive. Bernini seppe uscire dalle regole, pagandone tutte le conseguenze e facendo leva sul giudizio di un'embrionale opinione pubblica europea per affrancarsi dall'arbitrio dei principi. Le sue mani e la sua testa divennero l'unica misura che accettava, e il suo atelier fu insieme luogo della creazione e teatro della libertà. Ma come dimostrare questa tesi? Nelle sue biografie "ufficiali" affiorano cospicue smagliature, fra loro coerenti, che questo libro individua e allarga, una per una. Costruendo così per le opere di Bernini una nuova chiave di lettura.
«L'obiettivo è quello di restituire al lettore un Bernini diverso. Piú complesso: che non smentisca, cioè, la sua immagine stabilita, ma la veda riempirsi di contenuti articolati, tra loro in tensione e - perché no? - in contraddizione. Un Bernini diviso fra la tentazione di far sparire ogni segno di conflitto (per consegnarsi ai posteri come una specie di santo taumaturgo dell'arte figurativa) e la contrastante pulsione a far invece emergere precise spie del suo malessere, della sua insoddisfazione, della sua vera e propria ribellione: da una parte il Bernini che "diceva che il portarsi ad operare era a lui uno andare a deliziarsi al giardino", dall'altra quello che, citando Michelangelo, sibilava: "nelle mie opere caco sangue". La scelta di presentare una visione di Bernini "tutto intero" nasce anche dalla consapevolezza della necessità di una storia dell'arte "integrale", cioè di una storia dell'arte che utilizzi tutti gli strumenti messi a punto nella storia della disciplina: e che dunque sappia connettere l'analisi stilistica a quella iconografica, alla storia sociale dell'arte, alla storia della critica d'arte e cosí via. Infine, ho cercato di scrivere un libro che, pur essendo frutto di una lunga ricerca scientifica, non sia rivolto alle trenta persone in tutto il mondo che fanno a loro volta ricerca su Bernini, o alle duecento che la fanno sul Seicento artistico italiano. Anche per questo ho deciso di far sfociare la mia ricerca degli ultimi anni in un libro scritto non solo per gli specialisti. Perché la storia dell'arte è troppo importante per lasciarla tutta agli storici dell'arte».        
 Così Bernini si ribellò alle regole del potere 
Un saggio di Montanari sul volto eretico dell’artista
TOMASO MONTANARI 6/10/2016 Repubblica
Nel 1963 il rivoluzionario “Patrons and Painters” di Francis Haskell rifondò il modo di guardare al Seicento romano. Per Haskell, «Bernini fu il genio dell’epoca... non si possono immaginare rapporti più fruttuosi tra un artista e i suoi mecenati»: «Maffeo Barberini dovette rassegnarsi ad attendere il suo momento, accontentandosi di scrivere in latino acuti epigrammi moraleggianti sul gruppo di Apollo e Dafne, e di reggere lo specchio all’artista
perché questi potesse dare al David i propri lineamenti. Nel frattempo egli doveva già prevedere che, una volta venuto il suo momento, avrebbe consentito allo scultore di esprimere il suo talento in maniera ben più spettacolare che non in queste opere certamente piacevoli, ma tutto sommato minori. Quel momento venne nel 1623. Il 6 agosto, dopo un burrascoso conclave, Maffeo Barberini coronò le proprie ambizioni e fu eletto papa, assumendo il nome di Urbano VIII».
Una perfetta storia d’amore, dunque. Tuttavia, Haskell insinuò tra le proprie considerazioni un’esplicita contraddizione: e cioè il dubbio, capitale e fecondo, che l’«espressione più pura del genio di Bernini» si registri proprio quando egli può essere «finalmente libero dai consigli di un committente». Ecco dunque affiorare la questione: la libertà di Bernini, il suo attrito – se non ancora il conflitto – con la società del suo tempo.
È proprio vero che l’epigramma di Maffeo Barberini per
Apollo e Dafne fu un innocuo passatempo erudito? L’episodio dello specchio è solo un aneddoto cortigiano? E, domanda più impegnativa, possiamo guardare a Urbano VIII come al naturale amplificatore di una naturale vocazione di Bernini? Ancora: Bernini avrebbe approvato la gerarchia secondo la quale il Ratto di Proserpina, l’Apollo e Dafne e il David andrebbero considerati “opere minori” rispetto alle grandi macchine sacre che egli allestì in Vaticano nei successivi cinquant’anni?
Sarebbe vano cercare le risposte nella vastissima letteratura berniniana fiorita negli ultimi decenni: in verità, non vi si trovano neanche domande simili a queste. Io stesso non me le sono poste, finora: o, almeno, non esplicitamente. Ma a un certo punto mi sono sorpreso a pensare che l’incontrovertibile verità storica per cui Gian Lorenzo Bernini è stato l’artista più potente, ricco e realizzato dell’Italia secentesca, e in particolare «il dittatore artistico di Roma», non fosse affatto incompatibile con una lettura più articolata e complessa del suo rapporto con i committenti, con la tradizione, con le regole dell’arte e della società del suo tempo. Nel coerente e solido edificio dell’agiografia berniniana – a partire dai dettagliatissimi atti della sua precoce canonizzazione storiografica: le biografie — si apre un discreto numero di fenditure, di evidenti incoerenze, di singolari salti di senso. Bisogna provare a connettere questi indizi, a incastrarli con documenti noti e ignoti e a farli reagire con alcune intuizioni storiografiche poco sviluppate: e, quindi, a rileggere in questa nuova luce sperimentale quelle opere che avvertivano che qualcosa ancora mancava al loro pieno intendimento.
L’idea generale è che Bernini si sia sentito, e sia stato, in conflitto con ciò che si può chiamare, con una certa approssimazione retorica, le regole del potere. Gian Lorenzo è stato un artista capace di sacrificare una parte del proprio successo pur di difendere la sovranità sulla propria arte, in un confronto serrato e spesso anche duro con i più augusti e potenti fra i committenti. Non si tratta di smentire l’immagine che si è consolidata dal Seicento fino alla letteratura scientifica dei nostri giorni: quella dell’artista dei papi e dei gesuiti, del conformista cortigiano in perpetua luna di miele con i suoi mecenati. Si tratta, invece, di vedere cosa c’era dietro questa retorica, accuratamente costruita dallo stesso Bernini attraverso un’immagine storiografica capace di imbrigliare, fino a oggi, la lettura della figura e dell’arte del suo eroe.
Per leggere in modo critico, e in qualche misura per smontare, questa impressionante macchina di propaganda è indispensabile innanzitutto ricostruirne gli obiettivi immediati: e dunque far resuscitare la vasta – ma completamente dimenticata – letteratura antiberniniana cui essa rispose con tanta, troppa, efficacia.
In quei testi contro Bernini è infatti possibile trovare molte delle chiavi che oggi abbiamo perduto. Ed è con un rinnovato mazzo di chiavi che si può tentare di riaprire alcune porte, pur frequentatissime dagli studi berniniani: come quella del rapporto con i committenti o con l’ortodossia del pensiero sull’arte. E altre porte, finora del tutto sconosciute, si apriranno: per esempio quella del ruolo cruciale dell’atelier dell’artista, tema che diventa tanto più centrale quanto più ci si avvicina al Novecento.
Occorre ridiscutere il posto che spetta a Bernini in quella che vorrei ancora chiamare la linea evolutiva della storia dell’arte moderna. È venuto il tempo di contestare lo schema che oppone a un Bernini prigioniero del suo tempo l’icona – moderna: anzi, senza tempo – di un apocalittico Caravaggio: tutto il contrario, perché la strada del conflitto che Bernini percorse era proprio quella aperta da Caravaggio.
L’obiettivo è quello di restituire un Bernini diverso. Un Bernini diviso tra la tentazione di far sparire ogni segno di conflitto (per consegnarsi ai posteri come una specie di santo taumaturgo dell’arte figurativa), e la contrastante pulsione a far invece emergere precise spie del suo malessere, della sua insoddisfazione, della sua vera e propria ribellione: da una parte il Bernini che «diceva che il portarsi ad operare era a lui uno andare a deliziarsi al giardino », dall’altra quello che, citando Michelangelo, sibilava: «Nelle mie opere caco sangue». ©RIPRODUZIONE RISERVATA

Montanari decostruisce Bernini Tomaso Montanari, "La libertà di Bernini", Einaudi. Scandagliando acutamente fonti e documenti, il saggio ci restituisce un Gian Lorenzo campione, segreto, di libertà. Il tour-de-force critico è condotto in particolare sulle biografie storiche, alle quali si deve, soprattutto, la vulgata dell’«artista dei papi» Carmela Vargas Alias Domenica 30.4.2017, 0:10
Il libro di Tomaso Montanari La libertà di Bernini La sovranità dell’artista e le regole del potere (Einaudi «Saggi», pp. XXIV-328, euro 42,00) invita a entrare nel mondo di Gian Lorenzo attraverso le crepe. Invita a non fermarsi alla consolidata immagine storiografica dell’artista dei papi e dei gesuiti, del cortigiano in perenne luna di miele con i suoi committenti, integrato perfettamente nella società del suo tempo, ricco onorato e blandito dai potenti d’Europa. Allargare le crepe di questa immagine storiografica significa innanzitutto affrontarne la genesi, chiedersi quanto essa sia radicata nella storia e quanto frutto di una costruzione consapevolmente orchestrata. Come dire: domandarsi da dove provenga quel ritratto di Bernini così efficace da aver resistito storiograficamente per secoli fino alla consacrazione novecentesca conferitagli da Roberto Longhi, Giuliano Briganti, Francis Haskell. Entrare anche nelle crepe di tale illustre storiografia per confutarne la contrapposizione ermeneutica tra una linea progressista, affidata essenzialmente alla figura di Caravaggio, e una controparte reazionaria incarnata da Bernini.
È così che Montanari si inoltra nella materia prima dalla quale è emerso un Bernini organico alle richieste della committenza, e talvolta in soggezione dei potenti, scandagliando innanzitutto la serie di antiche biografie dell’artista che quell’immagine sostennero. L’autore non è nuovo a questo genere di studi, anzi ne è uno dei protagonisti: profondo conoscitore delle fonti berniniane, questa volta raccoglie e potenzia i risultati della sua riflessione critica più che decennale sull’intreccio tra biografi di Bernini, contesto di elaborazione dei testi, destinatari degli stessi, sistema retorico di riferimento. Le biografie di Bernini – quella scritta da Filippo Baldinucci nel 1682, quella precedente di un anno del francese Pierre Cureau de La Chambre, quella del figlio dell’artista, Domenico Bernini, del 1713 – vengono messe a confronto tra di loro e con testi più antichi: il prezioso diario che registra le conversazioni di Bernini con Paul Fréart de Chantelou durante il soggiorno francese dell’artista nel 1665 e un più raro testo, che l’autore chiama proto-biografia, risalente al 1673, con Bernini ancora in vita, allestito dal figlio primogenito dell’artista, monsignor Pier Filippo Bernini, il quale redige un canovaccio documentario e interpretativo, con l’aiuto del fratello Domenico e del padre stesso, facendolo pervenire al biografo che sarebbe stato poi quello ufficiale, il fiorentino Baldinucci.
Visita all’«Apollo e Dafne»
L’analisi sulle differenze di narrazione circa un episodio preso a esempio, che è quello relativo all’accoglienza pubblica del gruppo dell’Apollo e Dafne della Galleria Borghese di Roma, mette in luce uno dei nessi più problematici tra libertà dell’artista, attese della committenza, possibile modo di soddisfarle. Il giovane Bernini ha infuso nel marmo della fanciulla mitologica la conturbante flagranza della carne viva e palpitante, troppo vera e troppo libera per passare inosservata. Non passa infatti inosservata: le biografie offrono il resoconto di una visita alla scultura, quando ancora si trovava nello studio dell’artista, fatta da tre personaggi: il committente dell’opera, Scipione Borghese, il cardinale Maffeo Barberini, futuro papa Urbano VIII, e il cardinale francese François d’Escoubleau de Sourdis. Il risultato del sopralluogo approda a una forma di moralizzazione dell’opera affidata al distico che ancora oggi si legge nel cartiglio del piedistallo, in cui si indirizza l’interpretazione verso un’edificante e alquanto malinconica riflessione circa l’inanità di inseguire il piacere materiale, sempre connessa al rischio di ritrovarsi a stringere tra le mani solo bacche amare, come quelle dell’albero di alloro che Apollo si ritrova a toccare per aver troppo desiderato il corpo della bella Dafne. Bernini accetta questa copertura d’intenzione soprammessa alla sua opera, che tuttavia lascia intatta nella sostanza formale.
Così comincia una storia destinata a ripetersi negli anni futuri: in altre occasioni le maglie della censura moralistica provano a imbrigliare la libertà espressiva di Bernini ed egli sembra assecondarle mentre di fatto ne riesce vincitore, cioè capace di lasciare inalterati i più profondi moventi artistici delle sue opere. Di questo episodio, i cui protagonisti, e specialmente il cardinale de Sourdis, sono il frutto di un’inedita ricostruzione di Montanari, l’autore fa una specie di conflitto occultato che percorre l’intera produzione di Bernini e che prefigura la sofferta dialettica tra storia reale delle opere e veste ufficiale che le accompagna, dal distico barberiniano alle biografie pubblicate. In proposito, egli si domanda perché in quelle biografie la preoccupazione dominante sia di natura difensiva, tale cioè da dissimulare i contrasti determinati dall’uscita pubblica delle opere; perché l’interesse principale della rappresentazione biografica ufficiale sia quello di fornire una versione pacificata dei conflitti, e perché Bernini stesso ne sia in parte responsabile, considerando il ruolo da lui svolto nella cosiddetta proto-biografia di Pier Filippo, che aveva certamente supervisionato di persona.
Pamphlet contro il «Costantino»
La risposta è un eccellente tour de force storico-critico dentro gli anni di elaborazione del meccanismo narrativo delle biografie: gli anni sessanta-ottanta del Seicento. Quali fossero i papi e quale la loro politica, quale fosse la storiografia dominante e di quali idee portatrice, quale il gusto collezionistico diffuso tra gli aristocratici, quali le convenzioni circa la gerarchia dei generi, ma soprattutto se esistesse una letteratura anti-berniniana rispetto alla quale giocare in difesa. Ed è qui che l’autore pubblica per intero, e discute analiticamente, uno dei testi più significativi, e gustosi, della libellistica denigratoria su Bernini. Si tratta del pamphlet anonimo dal titolo Il Costantino messo alla berlina, il cui oggetto precipuo è la statua equestre di Costantino ai piedi della Scala Regia in Vaticano, di cui si elencano tutti gli errori, essenzialmente di decoro, imputati a Bernini. Di fronte a simili attacchi, che si ritrovano anche negli avvisi pubblici della città, nella letteratura cortigiana e in altre fonti analizzate, si giustifica l’auto-rappresentazione santificata che i biografi di Bernini, ed egli stesso, contrappongono a una realtà tanto più eretica e indipendente. La quale, però, continua a vivere nelle opere: la lettura che l’autore ne offre e i confronti proposti tendono a rivalutare la radice naturalistica dell’arte berniniana, vicina a Caravaggio e a Rubens molto più di quanto possa sembrare.
Allo stesso modo, grande spazio è riservato all’atelier di Bernini, il luogo fisico dove egli scolpisce, disegna caricature irriverenti, allestisce rappresentazioni teatrali e dove riceve principi e mecenati in abiti da lavoro, imponendo la propria dimensione di artista non subordinato ad alcuna etichetta e anzi consapevole che non l’onore della visita dei potenti valga a nobilitare il proprio lavoro manuale, bensì sia vero il contrario. Sono i potenti che, entrando nella sua officina, godono il privilegio di un incontro ravvicinato con il processo creativo-materiale dell’opera d’arte. Non ultimo merito del libro è il coraggio bibliografico: spicca la preferenza per i titoli classici, anche di tipo letterario, che rimettono in circolo autori come Auerbach, per fare un solo esempio, in omaggio a una reale integrazione della storia dell’arte con la critica storico-letteraria, con evidente riscontro anche nel tipo si scrittura del libro, curata, elegante, di cristallina chiarezza. Il modo migliore per rendere omaggio all’affermazione finale della prefazione, in cui Montanari scrive che «la storia dell’arte è troppo importante per lasciarla tutta agli storici dell’arte».

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