venerdì 28 ottobre 2016

Chi è il vero rossobruno? Il contributo della sinistra dirittumanista italiana alla Teoria del Nuovo Hitler e alla confusione

WASP l'america razzista dal Ku Klux Klan a Donald Trump
Così come ogni giusta denuncia di Clinton come pericolo principale deve essere accompagnata dalla messa in ridicolo di Trump, ogni giusta denuncia di Trump deve sempre ricordare che Clinton è il pericolo principale e non poteva avere avversario migliore.
Non è nostro compito prendere posizione quando la contraddizione non è quella fondamentale e quando, in una fase di ritirata strategica, non abbiamo alcuna possibilità di influire su processi che, al contrario, ci trascinano già via [SGA].

Guido Caldiron: Wasp. L’America razzista dal Ku Klux Klan a Donald Trump, Fandango

Risvolto
Vuole chiudere le porte degli Stati Uniti ai musulmani, costruire un muro al confine con il Messico, cacciare dal paese milioni di immigrati che nelle città americane vivono e lavorano talvolta da decenni. 

Se l'american dream scricchiola e gli otto anni di presidenza di Barack Obama mostrano di non essere stati in grado di guarire in profondità le ferite del razzismo, in molti sembrano disposti ad affidare le loro residue speranze a un outsider assoluto della politica, un discusso miliardario del mattone che si è saputo trasformare in una star dei reality televisivi. 
Donald Trump. È lui ad aver dato voce nel corso della più violenta e aggressiva campagna presidenziale dell'intera storia statunitense. Alla paura, al risentimento, alla frustrazione e al rancore di quest'America delusa e in collera. 
Interprete cinico e opportunista di una critica al "sistema" e al politicamente corretto, Trump appare perciò come l'ideale punto di arrivo di una lunga vicenda che ha visto il conflitto razziale e le discriminazioni come il sintomo più evidente e evidente di una crisi tutta attuale e dagli esiti al momento ancora imprevedibili. 
Il libro di Guido Caldiron riperccore la strada che ha condotto gli Stati Uniti alle soglie di un'elezione inaspettata e pericolosa. Trump non è un'eccezione. È il prodotto di una cultura fortemente conservatrice che propone di difendere quel che resta della supremazia wasp contro la minaccia rappresentata dalla rapida crescita demografica delle minoranze.

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Gli «eccitanti» sogni di un qualunquista patologico 
SCAFFALE. Un’anticipazione da «Wasp. L’America razzista dal Ku Klux Klan a Donald Trump» edito da Fandango. Il libro sarà presentato oggi al Csoa Astra di Roma, via Capraia 19, alle ore 18,30 dall’autore e da Marco D’Eramo. Modera l’incontro Giacomo Russo Spena

Guido Caldiron Manifesto 28.10.2016, 19:36 
Donald Trump potrebbe diventare il 45° presidente degli Stati Uniti d’America? Per tentare di dare una risposta a questa domanda si deve necessariamente cercare di andare oltre le definizioni del personaggio che sono state proposte da quando si è aggiudicato con un ampio margine di consensi le primarie del Partito repubblicano per la corsa alla Casa Bianca. 
Questo perché lo stile, la retorica e le proposte del miliardario newyorkese, che si è arricchito costruendo grattacieli su cui svetta il suo nome a lettere dorate prima di trasformarsi in un popolare personaggio televisivo, rimandano certamente a quegli atteggiamenti razzisti, sessisti, xenofobi e ispirati all’opportunismo e, forse, ad una personalità narcisistica che gli sono stati attribuiti, al pari di una indubbia capacità da imbonitore assortita dall’abilità, per chi detiene uno dei patrimoni più consistenti del paese, di presentarsi come un «americano medio», un uomo dai gusti semplici che, al pari di milioni di suoi concittadini ama il wrestling ed è attratto dalle teorie cospirative più bizzarre. 
Ma tutto ciò non basta a spiegare l’entità assunta dal fenomeno di cui è protagonista, il fatto che nello spazio di poco più di un anno sia riuscito a sbaragliare tutti i tenori della destra, compresi quelli di casate a loro modo celebri come i Bush, e a dar vita ad una sfida di proporzioni inaspettate nei confronti di Hillary Clinton.
O meglio, proprio la sua natura di outsider della politica ha consentito a Trump di intercettare quegli umori anti-establishment che hanno caratterizzato dapprima il confronto all’interno di ciascun partito e quindi la campagna per le presidenziali e che saranno ricordati, quale ne sia l’esito finale, come la vera «cifra» di queste elezioni. «Sarò la vostra voce, la voce di chi non ne ha», ha affermato il tycoon nel discorso di accettazione della nomination repubblicana, pronunciato in occasione della kermesse del Grand Old Party di Cleveland.
Più in generale, il miliardario che propone alle inquietudini dei propri concittadini la sua biografia di uomo di successo come una sorta di annuncio di un nuovo possibile «sogno americano», all’insegna del «io ho vinto, potete vincere anche voi», sembra approfittare di una fase della vita politica e sociale statunitense segnata profondamente da alcuni fenomeni che hanno sì investito il paese da lungo tempo, ma che spesso hanno subito di recente una drammatica ed ulteriore accelerazione. 
Si tratta da un lato dei drammatici costi sociali delle trasformazioni conosciute dal capitalismo americano negli anni che hanno visto affermarsi la globalizzazione dei mercati e la progressiva finanziarizzazione dell’economia, cui si devono aggiungere gli esiti della crisi del 2008, che hanno contribuito a fare di quella americana una delle società più diseguali del pianeta; temi su cui ha posto l’accento quello che è stato per molti verso l’altro grande protagonista di questa campagna elettorale, il senatore socialista del Vermont, Bernie Sanders. 
Di fronte alla perdita dei posti di lavoro e alla concorrenza straniera, Trump ha proposto lo slogan ambiguo dell’«American First», insieme denuncia di accordi e trattati internazionali che hanno sottratto risorse e possibilità al paese, ed evocazione di una pericolosa «preferenza nazionale», interna, foriera di discriminazioni e annuncio di una nuova possibile caccia alle streghe.
Il tycoon ha spiegato Robert Reich, studioso e già segretario al Lavoro durante la presidenza Clinton, si rivolge soprattutto al ceto medio e alla working class, «che si stanno trasformando in una classe ansiosa perché hanno elevatissime probabilità di finire in miseria». In questo senso, per Reich, «le proposte di Trump sono pura demagogia, ma probabilmente se non ci fosse lui ci sarebbe qualche altro imbonitore pronto a sfruttare la paura delle persone». D’altro canto, non si può sottovalutare l’inquietudine che sembra caratterizzare almeno una parte della comunità bianca, con le cui aspettative, speranze e sogni si è di fatto identificata per oltre due secoli e mezzo la storia stessa del paese, sfidata nel suo primato demografico e culturale dalla forte crescita delle minoranze, principalmente dei latinos, e attraversata, durante gli otto anni della prima presidenza di un politico afroamericano, dal riemergere di forti, ed evidentemente mai sopite fino in fondo, tensioni razziali. 
Da questo punto di vista, The Donald appare più come il sintomo che non la causa di quel malessere profondo che scuote l’America e che si esprime sempre più spesso attraverso una sorta di stato d’animo rabbioso che rischia di generalizzarsi. Piuttosto, ciò in cui il candidato repubblicano ha dato prova delle sue capacità, è l’aver saputo attizzare costantemente questa rabbia, indicando, spesso in facili capri espiatori, come gli immigrati messicani o i musulmani, e perché no i rifugiati dalla Siria, i responsabili del malessere percepito da molti e alimentando il sospetto, i pregiudizi, l’odio, fino a produrre una ulteriore e pericolosa radicalizzazione del dibattito pubblico. Allo stesso modo, ha parlato all’animo più squisitamente razzista del paese, assicurandosi il seguito degli adepti del «white nationalism», compresi gli eredi del Ku Klux Klan, evocando «invasioni di massa di clandestini» lungo i confini meridionali, ma ricorrendo anche al linguaggio cifrato di «legge e ordine» per stigmatizzare, in maniera meno esplicita, i neri. Inserendosi così, a suo modo, in quel fenomeno che ha fatto da sempre del razzismo, e dell’uso dei temi razziali per regolare conflitti ed equilibri all’interno del paese, una delle caratteristiche della storia americana. 
Trump ha inoltre agitato vecchi fantasmi dell’immaginario nativista e wasp e il suo annuncio di «voler rendere di nuovo grande l’America» è suonato a molti osservatori come un messaggio in codice per chi vorrebbe che il paese «tornasse ad essere bianco». Un atteggiamento più che ambiguo, adottato nel pieno di uno dei momenti più difficili vissuti dal paese negli ultimi anni, segnato dalla strage continuata di giovani neri per mano delle forze dell’ordine e dal permanere di discriminazioni meno visibili ma non per questo meno terrificanti, come quanto è emerso di recente a Flint, un città povera e a maggioranza nera del Michigan, dove dal 2014 la locale amministrazione repubblicana ha reso possibile che l’acqua potabile fosse gravemente contaminata dal piombo e provocasse forme di avvelenamento e di disturbi gravi in particolare per migliaia di bambini.
Un contesto nel quale l’intellettuale afroamericano Ta -Nehisi Coates denuncia come molti americani bianchi credano ancora che si possa «correttamente organizzare una società» in base al colore della pelle degli individui e come «l’America bianca è un’associazione schierata a protezione del suo potere esclusivo per il controllo dei nostri corpi».

Donald, l’ira funesta
Elezioni Usa. «Perché vince Trump»: nel saggio di Andrew Spannaus per Mimesis la irresistibile ascesa di un uomo paradosso
LOS ANGELES 6.8.2016, 17:35
 Sembra impossibile da ricordare in questa rovente estate post-convention, ma solo pochi mesi fa, all’inizio della stagione elettorale americana, i giochi sembravamo già fatti. Al termine di due mandati Obama, un Gop votato all’immobilismo e a otto anni di testardo sabotaggio dell’odiato presidente, si affacciava alle primarie con ben diciassette improbabili pretendenti. I democratici erano uniti dietro una candidata potente e ricca, supportata da una invidiabile rete di finanziamenti e avvolta da un aria di predestinazione. Sembrava insomma solo questione di mesi prima dell’implosione di un partito repubblicano fratturato e l’annunciato trionfo di Hillary Clinton. Il resto come si dice è storia – o almeno i lavori in corso di una storia ancora senza epilogo ma che ha probabilmente già cambiato per sempre i connotati della democrazia americana a e di riflesso quella mondiale. Alla meteorica ascesa di Donald Trump e le concentriche scosse telluriche che ha provocato intorno al panorama politico mediatico e sociologico americano, Andrew Spannaus dedica il suo tempestivo pamphlet Perché vince Trump (Mimesis, pp. 106 , euro 10).
Demagogia e verità
La annunciata catastrofe repubblicana effettivamente c’è stata, ma in termini che nessuno avrebbe potuto prevedere. Il partito di Lincoln, di Nixon e Reagan, il polo storico del conservatorismo americano, è stato oggetto di un vero e proprio hostile takeover populista. Le primarie del 2016 hanno offerto il singolare spettacolo di un ultracorpo che si è aggiudicato la nomination di un partito che ha tentato di tutto per espellerlo. Gli evangelici teocon, i neocoservatori di corrente Bush-Cheney, gli ideologi facenti capo alla National Review di William F Buckley, i libertarian di Ron e Rand Paul e l’establishment vicino a Wall Street, tutti hanno inizialmente tentato di sbarrare la strada al magnate e reality star di New York.
Ma come scrive accuratamente Spannaus: «Trump se n’è infischiato del sostegno dell’establishment (…). Si è rivolto alla base, alla classe media americana che si sente esclusa dal mondo della politica». Quella stessa base che per decenni era stata strumentalizzata da una classe politica che ha esacerbato le divisioni e la fiele per trasformarla in voti. Il livore prevalentemente dei maschi bianchi è stato fomentato in successive crociate ideologiche – le cosiddette culture wars – contro gli immigrati, l’aborto, il matrimonio gay, i radical chic e gli scrocconi del welfare – salvo poi dimenticarsi dei fedeli alla linea e tornare a curare gli interessi tradizionali dei poteri forti di Washington e Wall Street.
Trump ha fatto anche lui leva sul groviglio di rancori e risentimenti di una popolazione bianca in procinto di diventare minoranza (demografica, politica, culturale) sfruttandone la paranoia con appelli «in codice» agli impulsi nostalgici ed egemonici (la sua candidatura ha dato spazio a forze a lungo sommerse – gruppi razzisti e suprematisti hanno visto moltiplicare il traffico sui loro siti). Ma in modo più trasversale, Trump ha dato soprattutto voce alle giustificate recriminazioni di una classe blue collar e «middle class» esautorata dalla globalizzazione capitalista, penalizzata dall’economia e dal divario sociale sempre più abissale.
Cecità di sinistra
È la stessa dinamica di rudimentale rivalsa di classe che caratterizza fenomeni speculari in atto in Europa e che, all’indomani della Brexit, ha spedito il miliardario «ribelle» in Scozia a inneggiare alla «liberazione» dell’Inghilterra.
D’altronde l’emancipazione degli di stati sovrani dalle forze del globalismo è un tematica che serpeggia da tempo nella nuova destra, la cosiddetta Alt Right, su entrambe le sponde dell’Atlantico; Trump se n’è fatto interprete popolare. «Si può discutere dei pro e dei contro di aspetti particolari della trasformazione avvenuta, dalla nascita di nuovi mercati e tecnologie alla crescita dei servizi di alto livello – scrive giustamente Spannaus – ma non si può negare che in tutto questo la classe lavoratrice come esisteva nel periodo del dopoguerra ha infine pagato buona parte del conto» . E ancora: «Per anni gli effetti negativi del processo di de-industrializzazione della economia americana sono stati camuffati dalla grande crescita della finanza. La bolla dei mutui subprime non va vista come un evento in sé, ma appunto come parte di questo processo più lungo di finanziarizzazione».
L’ascesa di Trump è in parte legata alla colossale truffa dei derivati perpetrata dall’oligarchia finanziaria ai danni di poveri e lavoratori, abbandonati a un mondo di sottolavoro, potere d’acquisto in declino, stagnazione dei redditi e crescita della diseguaglianza. La demagogia dell’antiglobalismo «di destra» che esprime contiene, insomma, una dose di verità. (Obama è per il Ttp, la politica dell’inclusione del partito democratico è anche quella della globalizzazione e dell’interventismo militare, ecc.) E il suo successo rappresenta così anche l’incapacità della sinistra istituzionale di articolare una critica politica efficace alla dittatura finanziaria. Come la risposta nazional populista alla crisi della sovranità in Europa, il trumpismo rappresenta la reazione contro un blando riformismo «di sistema» che dal punto di vista dei ceti ex-manifatturieri incarna unicamente gli interessi delle élite urbane. E con l’uscita di scena di Bernie Sanders Trump è rimasto il solo ad articolare una critica «radicale», pur se strumentale, al sistema. Nelle parole di un ex metalmeccanico intervistato in Ohio: «Lo so che le acciaierie qui non riapriranno e che i nostri posti di lavoro sono spariti per sempre. Ma Trump almeno lo dice».
L’universo trumpista racchiude, come si è visto nella coreografia della convention, una rappresentazione manichea, facilmente digeribile del neolibersimo globale: la Cina e il Messico che rubano lavoro agli Americani; le élite politiche chiuse nei loro palazzi di vetro che si beffano del lumpen comune di cui deridono la fede e la tradizione, mentre accolgono con falso buonismo le orde scure di tutto il mondo. L’atto di enunciare questa narrazione «politicamente scorretta» ha avuto una prorompente forza catartica in una consistente fetta di elettorato.
Il risveglio dei giganti
C’è molto in questa osservazione: aiuta a spiegare come Trump abbia preso in contropiede l’establishment politico di entrambi i partiti. E la sua ascesa contiene anche l’eterno paradosso americano di un proletariato che vota regolarmente contro i propri interessi: l’assistenza sanitaria pubblica, ad esempio, o in genere «programmi di governo», nel nome di una mitologia emotiva di «libertà» ed eccezionalismo.
Misto alla misoginia e al razzismo, «l’americanismo» trumpista esprime l’ira funesta contro il sistema «tarato». E può spiegare in parte come ampi settori delle classi esautorate abbiano deciso paradossalmente di affidare la propria rivalsa contro le nuove oligarchie ad un oligarca. Un miliardario, sì, ma apparentemente disposto a stracciare il galateo dell’ordine costituito.
Allora, vincerà Trump? La realtà è che questa, incredibilmente, è oggi una possibilità concreta. Trump ha risvegliato un «gigante dormiente» e per contrastarlo Hillary ha cento giorni per ricostituire gli elementi base della Obama coalition –per portare alle urne, neri, ispanici, donne, giovani – e a questo punto Americani antifascisti – in numeri sufficienti da arginare la marea. Nelle parole di Ian Masters, la domanda che circola insistente qui in questa estate torrida è: esiste oggi in America una maggioranza di persone ragionevoli, razionali, istruite e decenti che possa tenere Trump lontano dalla Casa Bianca?. La risposta dirà molto sul futuro delle democrazie occidentali.

La trappola del «change maker»
Elezioni Usa. Il libro di Andrew Spannaus Perché vince Trump aiuta a inquadrare meglio il personaggio. Anche a capire perché nessuno si spaventa dei suoi toni razzisti
Guido Moltedo Manifesto 6.8.2016, 0:03
«Primo compito di qualsiasi campagna elettorale è incorniciare la domanda a cui si vuole che rispondano gli elettori. Per Donald Trump questa elezione ha da essere un referendum sul cambiamento: siete soddisfatti di come vanno le cose in America? Per Hillary Clinton l’elezione deve essere un referendum su Trump: «siete disposti a consegnare i codici nucleari a un tipo autoritario dal grilletto facile?».
Questa estrema semplificazione della corsa per la Casa Bianca, proposta da Doyle McManus sul Los Angeles Times, è la chiave perfetta, nella sua essenzialità, per leggere quanto sta accadendo negli Stati Uniti dopo le due convention di Cleveland e di Filadelfia e quanto, prevedibilmente, accadrà nei novantacinque giorni che ci separano dal fatidico 8 novembre delle presidenziali americane.
Perché è probabile che vada così, che tutto si riduca ai due «referendum»? Perché, a ben vedere, è andata così fin dall’inizio, dacché Donald Trump ha vinto le prime elezioni primarie repubblicane, e le ha vinte proprio ponendo al centro dello scontro il tema dello status quo e del suo cambiamento, e facendone il filo conduttore della sua sfida. Proponendo se stesso come agente di questo cambiamento. Il change maker.
Di qui la trappola, forse inevitabile, in cui sono finiti incastrati i suoi avversari repubblicani, che hanno accettato il suo campo di gioco, e hanno così ridotto le primarie a un interminabile referendum su Donald Trump. E hanno trovato un’eco, che ne ha moltiplicato gli effetti, in un sistema mediatico affamato proprio di personaggi come lui, perfetto antagonista macho di una candidata come Hillary Clinton, l’inevitabile, l’indiscutibile nominée democratica e, poi, l’inevitabile, indiscutibile Madam President. Una storia, non fosse stato per Trump, scontata in partenza, che avrebbe reso noiosa anche questa competizione presidenziale.
L’ultima poi, quella tra Obama e Romney, era stata particolarmente grigia. Questa volta no, grazie alla sorpresa di Bernie Sanders, e soprattutto, appunto, alla straordinaria prestazione di un outsider catapultato nella politica dagli affari e dall’entertainment, con la massima gioia dei media, appunto, anche di quelli che, sul miliardario indecentemente disinibito, hanno riempito pagine e pagine e ore e ore di tv colme di indignazione apparentemente incredula.
Quanto hanno guadagnato da Trump, i media? Ma quanto ha avuto lui, in cambio, quanti milioni di dollari ha risparmiato in una propaganda elettorale gratuita che ne ha ingigantito la sfida? E ora, la loro creatura, questa strabiliante media creation, potrebbe davvero diventare il quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti.
Un doppio referendum, dunque, ognuno dei quali, a ben vedere, interagisce con l’altro. Ed è lungo questa traccia – anche se mai esplicitata ma evidente – che si muove il saggio di Andrew W. Spannaus (Perché vince Trump), un libro, peraltro, che è un’ottima guida per familiarizzare con la politica statunitense, di cui si pensa di sapere molto e invece si sa poco, e con molti dei meccanismi e con la dinamica delle elezioni americane, non solo di quella in corso. Spannaus aiuta a capire chi è Trump, sebbene perfino il suo libro, nell’inevitabile sforzo chiarificatore di affermare che l’autore non è dalla sua parte, solo perché lo prende sul serio, non riesce ad andare fino in fondo e senza impaccio nella descrizione di un agente del «sovversivismo delle classi dirigenti» del nostro tempo qual è Donald Trump.
Ci sono dilemmi, su questo personaggio, che non possono essere sciolti, perché in realtà non vanno sciolti. «Let Trump be Trump», «Trump faccia Trump», ripeteva il suo stratega delle primarie, il losco Corey Lewandowski, poi licenziato perché troppo «trumpista» per essere sostituito dal più moderato Paul Manafort, chiamato a impostare una campagna more conventional, più convenzionale. Qualcuno si è forse accorto di un mutamento nello stile di Trump?

Anche dopo le tante raccomandazioni, pure da parte dei familiari, a intraprendere una strada più «presidential» nello scontro finale con Hillary, Trump resta Trump, un po’ perché prigioniero di se stesso, un po’ perché davvero non sa fare altro, e molto perché funziona bene così con chi deve funzionare. Pertanto, anche dopo la fase feroce delle primarie, lui continua stupire. Stupisce, di lui, come la somma di tutti i suoi evidenti segni «fascisti» – xenofobia, misoginia, razzismo, omofobia – non sia contraddetta dalla somma di clamorose irriverenze anche scurrili nei confronti di istituzioni ed effigie patriottiche (e quindi, in un certo senso, «fasciste») come l’apparato militare, i reduci di guerra, perfino i caduti in guerra, la Nato. Perché non sono semplici contraddizioni (o, comunque – e fa lo stesso – non sono considerate tali dal grosso dell’elettorato di riferimento di Trump).
Anche leggendo il saggio di Spannaus, si coglie come siano tutte parti incredibilmente «coerenti» del suo personaggio. Non perché – lo spiega bene Spannaus – non siano tratti visibili e anche deprecabili anche per i suoi tifosi, ma perché sono considerati secondari rispetto al suo messaggio, che incrocia un senso comune diffuso, l’assillo che agita da tempo gli americani, molti americani, non solo bianchi, che sentono precipitare il loro standard di vita e che non vedono neppure in lontana prospettiva un ritorno alla prosperity. Torna, anche questa volta, l’ormai famoso «it’s the economy stupid», che, nel 1992, fu al centro della campagna elettorale di Bill Clinton, fino a diventarne il suo slogan, le cinque parole messe in circolo dal suo stratega, il simpaticissimo pelato James Carville. Certo, allora Bill incarnava l’ottimismo, l’idea di una nuova espansione e di una crescita felice, mentre oggi l’economia americana, che pure registra segni importanti di ripresa, non sembra avere un futuro roseo, il che è considerato da molti elettori specchio ed esito del fallimento della politica, a cui solo un uomo che ha fatto fortuna negli affari – questa la narrativa di Trump – può porvi rimedio.
Ecco perché il referendum sul cambiamento tiene banco e, se anche si può obiettare facilmente che non può essere certo un miliardario spregiudicato il change maker invocato, è addirittura illogico per molti elettori – come continuano a confermare molti sondaggi – che a riparare le cose sia un esponente dell’establishment: la «secretary of the status quo», come Hillary è stata definita da Mike Pence, il numero due del ticket presidenziale repubblicano.

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