L’ossessione dei teocon per l’Armageddon. E per Trump
Storia dei fondamentalismi cristiani nel paese in cui è più facile diventare presidente per un omosessuale che per un ateo Dai miti della fondazione alla destra teocon, sedotti dal populismo di "The Donald" di Luca Celada l manifesto 22.10.16
LOS ANGELES Nel dibattito di Las Vegas, Donald Trump ha detto di andar fiero del sostegno della Nra, la lobby delle armi ed ha promesso di nominare alla corte suprema giudici che abolirebbero il diritto all’aborto. Quest’ultima in particolare è stata una rassicurazione diretta alla base teocon che negli ultimi tre decenni è diventata una componente fondamentale della destra ideologica americana.
Sin dalla fondazione da parte di fanatiche sette puritane espulse da Inghilterra e Olanda, la fede integralista è stata un pilastro nazionale al pari dell’impresa mercantile delle concessioni commerciali delle colonie. Dopo la rivoluzione “illuminista” del 1776 il fondamentalismo cristiano, rimarrà una caratteristica profonda dell’esperimento americano, con la libertà di religione codificata nella costituzione e una forte piega avventista e millenarista. Una vocazione severa e apocalittica, sempre in tensione con gli elementi razionalisti importati della rivoluzione francese. Una dicotomia che rimane al centro del discorso politico americano che vede tuttora la corte costituzionale esprimersi regolarmente su preghiera nelle scuole, simboli religiosi e le contraddizioni di una società ufficialmente laica e senza religione di stato ma che i sondaggi confermano sempre come la più intrisa di religione rispetto ad ogni altro paese occidentale. Ancora oggi si dice, con cognizione di causa, che sarebbe più facile diventare presidente per un omosessuale che per un ateo.
Le correnti fondamentaliste, affiorate in varie denominazioni (battisti, presbiteriani ecc.) all’inizio del ventesimo secolo come reazione al percepito eccessivo riformismo religioso, promuovono l’interpretazione letterale della Bibbia intesa come testo infallibile e una concezione teocratica dello stato.. È l’ossessione escatologica che le porta a vedere nella costituzione dello stato di Israele il prologo necessario alla profetizzata battaglia finale di Armageddon, località menzionata nel Libro dell’Apocalisse oggi localizzata in Tel Megiddo a una quindicina di chilometri da Nazareth. Il cosiddetto «sionismo cristiano» dipende in sostanza da un epilogo catastrofico in medio oriente, non sorprende dunque l’appassionato sostegno dei fondamentalisti evangelici al governo Netanyahu.
Ma è negli anni 80 che le sette evangeliche emergono come forza politica e zoccolo duro della destra repubblicana. Effetto della «Reagan revolution» che sancisce un alleanza operativa con formazioni come la Moral Majority di Jerry Falwell e la Christian Coalition di Pat Robertson, due tele-evangelisti che usano le prediche contro il «decadimento morale» per galvanizzare la base elettorale nelle crociate contro cultura gay, aborto, contraccezione, insegnamento della teoria dell’evoluzione.
Sono le culture wars strumentalizzate dal reaganismo e in seguito sempre più «scientificamente» dai neocon di era Bush, grazie a strateghi come Karl Rove che ne fanno il perno della strategia elettorale. Il maggiore successo teocon, oltre ai mandati Reagan e Bush, è stata la deriva reazionaria della corte suprema a cui accedono Clarence Thomas e Antonin Scalia entrambi legati agli ambienti evangelici e affidabili baluardi di conservatorismo integralista durante gli ultimi vent’anni. Si devono alla cultura evangelica l’inviolabilità del porto d’armi, pur nell’escalation di stragi e violenza, come anche l’abilitazione di «schegge impazzite» responsabili di omicidi di medici abortisti e attentati a consultori.
Ironicamente son proprio decenni di strumentalizzazione da parte dell’establishment repubblicano, le cui promesse elettorali agli evangelici vanno regolarmente disattese (il matrimonio gay è un esempio lampante), che portano alla crescente disillusione dei teocon, molti dei quali confluiscono prima nel Tea Party ed in seguito nel movimento populista di Trump. Il sostengo a Trump invero è anomalo. Culturalmente gli integralisti delle province hanno poco da spartire col miliardario libertino e pluridivorziato newyorchese. E nelle primarie la base aveva infatti adottato paladini come Mike Huckaby, Ted Cruz e Ben Carson.
Il sostegno degli evangelici a Trump dipende in parte dall’opposizione a priori a Hillary Clinton e tutto ciò che rappresenta. Ma esiste un affinità profonda fra le frange apocalittiche e la fosca distopia articolata da Trump. La sua visione intrisa di paura, di un paese in balia di bande di stranieri criminali, è una versione «laica» delle geremiadi lanciate dai pulpiti evangelici. L’affresco di una nazione eletta che ha voltato le spalle al sacro timore di dio e che per questo incorrerà nell’ira del creatore – o, eventualmente, di un condottiero da reality tv.
Nel Nevada che sta con Donald “Vincerà lui o sarà la rivoluzione”
Salari bassi e clandestini alimentano la rabbia dei bianchi di Liliana Faccioli Pintozzi La Stampa 22.10.16
È alto e snello; può avere tra i 35 e i 50 anni. Impossibile dirlo, con gli occhiali da sole a proteggere lo sguardo. La barba è sale e pepe, la maglietta non lascia spazio a dubbi: «Hillary For Prison 2016». Bill è nel parcheggio del «Master at Arms», lì dove per meno di 350 dollari ti porti via una pistola, e oggi gli Ar-15 sono in offerta: «Donald Trump è l’uomo giusto per il lavoro» dice con un gran sorriso soddisfatto, e non è solo la difesa del Secondo emendamento: «Il governo fa un passetto alla volta, un giorno ti toglie la pistola, il giorno dopo tutti i tuoi diritti»; non è solo la rabbia del redneck lasciato indietro dalla crisi, «non vediamo un aumento da 12 anni»; non è solo la rivolta contro il politicamente corretto, «mia moglie parla peggio di Trump quando esce da sola con le amiche». È tutto questo, tutto insieme: è la certezza che il paese stia «andando a rotoli».
Benvenuti a Pahrump Contea di Nye, al confine tra Nevada e California; panorami da selvaggio West, e il Mom’s Family Diner – tavoli di legno e sedie con l’imbottitura rossa – a fare da saloon. Se Bill rappresenta lo zoccolo duro degli elettori di Trump, con lui ci saranno quelli che voteranno tappandosi il naso come Milk, veterano 71enne, che sotto i baffi ride «è ridicolo, nessuno dei due dovrebbe correre per la Presidenza», ma poi lo sosterrà perché «pensa ai militari e riporterà il lavoro qui»; o come Tom, carpentiere 52 anni, «voterei chiunque, basta che non sia lei a vincere». Parlano volentieri, tra una tazza di caffè e un sandwich al formaggio; roccaforte repubblicana, per ogni democratico ci sono almeno due conservatori. Venticinquemila abitanti, più del 90% è bianco: lavoratori edili, agricoltori e pensionati. Dormitorio per Las Vegas, città dei casinò e delle conferenze, dei sindacati e delle minoranze.
Le due facce del Nevada, «swing state» per eccellenza, fotografia degli Stati Uniti. Uno stato dove le minoranze - 27,8% latinos, 9,1% afroamericani, 8,3% asiatici – diventeranno presto maggioranza; e dove più del 70% della popolazione vive in agglomerati urbani. Caratteristiche che lo rendono rappresentativo delle aree degli Usa che decideranno le elezioni. Uno stato dove la questione principale rimane quella economica: «La situazione sta migliorando, il mercato immobiliare è in ripresa, ma i salari sono molto bassi e spesso la gente deve fare due lavori; e poi c’è il dossier immigrazione, qui c’è una grande comunità di irregolari e le loro famiglie guardano con attenzione alla questione della cittadinanza e del controllo delle frontiere» riassume la professoressa Tiffany Howard, della Las Vegas University.
Se sull’economia può convincere, Trump qui sembra essersi alienato troppi voti con le sue posizioni su immigrati e minoranze per potercela fare. Forse. «Io sono in un sindacato, i capi hanno dato l’endorsement a Hillary, ma noi voteremo tutti per Donald, anche gli ispanici» racconta ancora Bill che bolla i sondaggi come «carta straccia». È sicuro di vincere, e in caso contrario si prepara al peggio. «Faremo la rivoluzione. Siamo 350 milioni, abbiamo 300 milioni di armi, e il nostro esercito non si rivolterà contro di noi. Non voglio che accada, saremmo schiacciati dai cinesi o russi, ma che dobbiamo fare…». Bill parla mentre un rilevamento della Nbc fotografa il malessere dei repubblicani: il 45% di loro dice che potrebbe non accettare il risultato elettorale. Come ha minacciato Trump. E Intanto, oggi, qui si comincia a votare.
THOMAS L. FRIEDMAN Rep
LO CONFESSO, cominciavo ad avere dei dubbi sulle reali convinzioni della vera Hillary Clinton, quella a porte chiuse, quella che nessuno riesce mai a vedere. Ma ora che, grazie a Wikileaks, ho avuto l’occasione di studiare attentamente i suoi discorsi alla Goldman Sachs e ad altre banche, sono più che mai convinto che potrà essere la presidente di cui ha bisogno oggi l’America.
Dico sul serio, quei discorsi sono fantastici! Ne emerge una persona dotata di una visione generale, di un approccio pragmatico nel fare le cose e di un salutare istinto a cercare un equilibrio fra la necessità di rafforzare le nostre reti di sicurezza sociale e al tempo stesso liberare le energie imprenditoriali dell’America per creare la crescita necessaria a sostenere programmi sociali.
E allora grazie, Vladimir Putin, per averci svelato come conta davvero di governare questo Paese Hillary Clinton. Mi piacerebbe soltanto che questa Hillary fosse più presente nella campagna elettorale, per costruirsi un mandato appropriato a fare quello in cui crede realmente.
WikiHillary? Sono con lei.
Perché? Cominciamo da quello che ha detto, secondo Wiki-Leaks, all’evento organizzato dal Banco Itaú in Brasile nel maggio del 2013: «Penso che abbiamo un piano concertato per incrementare gli scambi commerciali […] e dobbiamo contrastare il protezionismo e altri tipi di ostacoli che intralciano l’accesso al mercato e agli scambi».
Ha detto anche: «Il mio sogno è un mercato comune di tutto l’emisfero occidentale, con commerci aperti e confini aperti, in un futuro di energia il più verde e sostenibile possibile, che alimenti crescita e opportunità per tutti gli abitanti dell’emisfero».
Questa è musica per le mie orecchie. Un emisfero dove le nazioni commerciano fra loro e un numero maggiore di persone ha la possibilità di collaborare e interagire per lavoro, studio, turismo e commercio è una regione che probabilmente diventerà più prospera e meno conflittuale, soprattutto se una quota maggiore di questa crescita sarà basata sull’energia pulita.
Basta comparare il nostro emisfero, o l’Unione Europea, o le nazioni commerciali dell’Asia con — per esempio — il Medio Oriente — dove il flusso di scambi commerciali, turismo, conoscenza e manodopera fra le nazioni per molto tempo è stato limitato, per renderci conto dei pregi della visione di Hillary.
Bernie Sanders e Donald Trump hanno trasformato in parolacce termini come “commerci” e “globalizzazione”, ma è ridicolo: la globalizzazione e gli scambi commerciali hanno contribuito a far uscire dalla povertà più gente negli ultimi cinquant’anni che in tutta la storia.
È necessario correggere delle cose per garantire che quella minoranza della popolazione americana che è danneggiata da una maggiore libertà di scambi e movimenti riceva una compensazione e sia più tutelata? Altroché se è necessario. È quello che si chiama risolvere un problema, non gettare a mare un sistema intero che a conti fatti contribuisce, come una lunga esperienza storica dimostra, a portare crescita economica, competitività e società più aperte.
In un discorso del 18 aprile 2013 al gruppo Morgan Stanley, WikiHillary elogiava il piano di riduzione del disavanzo Simpson-Bowles, che prevedeva, fra le altre cose, di riformare il codice fiscale per incrementare gli investimenti e l’imprenditorialità e di aumentare determinate tasse e tagliare un po’ di spese e diritti acquisiti per renderli più sostenibili.
Questo grande compromesso avrebbe potuto prendere molte forme, diceva Hillary a porte chiuse, ma sottolineava: «La Simpson-Bowles […] propone l’approccio giusto: dobbiamo limitare la spesa, dobbiamo avere entrate adeguate e dobbiamo incentivare la crescita. È una formula in tre parti».
Ha ragione: non usciremo mai da questo binario economico, e non proteggeremo le generazioni future, se i settori imprenditoriali e sociali, i Democratici e i Repubblicani, non accetteranno tutti di concedere qualcosa in cambio di qualcos’altro. Ed era esattamente da qui che veniva WikiHillary.
In un discorso per la Goldman Sachs dell’ottobre 2013 la Clinton sembrava alludere alla necessità di rivedere la regolamentazione imposta alle banche dalla legge Dodd-Frank per la riforma finanziaria e la tutela del consumatore, approvata nel 2010. La sua idea non era buttare a mare tutte le regole, ma fare in modo che non imponessero fardelli inutili alle banche, tali da limitare i prestiti a piccole imprese e start-up.
Come dice la Clinton stessa: «Bisogna ragionare meglio sul processo e le transazioni e regolamentazioni, per evitare di uccidere o azzoppare le cose che funzionano e concentrarci invece sul modo più efficace di fare progressi sfruttando le intelligenze e il potere finanziario che esistono qui». Giustissimo, anche in questo caso.
Troviamo anche WikiHillary, o i suoi collaboratori, che riflettono su una carbon tax e discutono se sia il caso di pronunciarsi a favore, come ha fatto Sanders. Alla fine Hillary decide di no, probabilmente per evitare di essere additata dai Repubblicani, nella campagna per le elezioni generali, come quella che vuole mettere una nuova tassa. Ma sono sicuro che la sua politica climatica includerà l’assegnazione di un prezzo alle emissioni.
Quando leggo WikiHillary sento parlare una politica di centrosinistra intelligente e pragmatica, disposta a lavorare insieme alla comunità imprenditoriale e ai Repubblicani per mantenere l’America orientata verso un’espansione degli scambi commerciali, dell’attività imprenditoriale e dell’integrazione globale, raddoppiando al contempo gli sforzi per proteggere i lavoratori dai contraccolpi negativi di queste politiche.
Mi dispiace soltanto che la Hillary candidata abbia pensato che non fosse conveniente parlare come WikiHillary per costruire un mandato appropriato per la Hillary presidente. Avrebbe guadagnato rispetto se avesse avuto il coraggio di dire la verità ai suoi elettori: e avrebbe dimostrato capacità di leadership, non perso voti.
Ciononostante, grazie a Wiki-Leaks mi sento rassicurato, perché vedo che ha il giusto equilibrio sulle questioni che mi stanno più a cuore. Perciò di nuovo grazie, signor Putin, per averci rivelato questa Hillary. Potrebbe essere un presidente niente male per questi tempi.
( Traduzione di Fabio Galimberti) © 2016 New York Times News Service
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SE LA VECCHIA GUARDIA FERMASSE I POPULISTI LUCIO CARACCIOLO Rep
ESE poi vincesse la vecchia guardia? Se leader sperimentati e poteri stabiliti prevalessero sulla protesta populista? Se le elezioni previste di qui all’autunno 2017 portassero Hillary Clinton alla Casa Bianca e Alain Juppé all’Eliseo, con Angela Merkel reinstallata alla cancelleria e Matteo Renzi, sopravvissuto al referendum, ancora a Palazzo Chigi?
SEGUE A PAGINA 32 FRIEDMAN, LOMBARDI E RAMPINI ALLE PAGINE 2, 3 E 33
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IPOTESI tutt’altro che azzardata, nel primo caso addirittura molto probabile. A quel punto, gli aruspici che dipingono l’apocalissi incombente, con ciò che resta delle democrazie liberali in mano a demagoghi irresponsabili o a ultranazionalisti xenofobi, tornerebbero rapidamente sui propri passi per informarci che l’emergenza è passata. Tutto sarà come prima, meglio di prima.
Si sarebbero sbagliati due volte. Adesso, perché gli scenari sono dannatamente oscuri, ma non per questo la condanna è scritta e attende solo di essere eseguita. Domani, perché il trionfo elettorale del citato quartetto non garantirebbe affatto la guarigione dai mali profondi che affliggono la vita associata di noi occidentali. Sarebbe — forse sarà — il segno che arrivati sull’orlo del baratro e gettato uno sguardo alle ignote profondità che vi si celano, nella maggioranza avrà prevalso l’istinto di conservazione. Condizione tutt’altro che sufficiente — nella migliore delle ipotesi — all’inversione di rotta che urge se siamo davvero interessati a salvare almeno parte del benessere e delle libertà ereditate dalle generazioni che ci hanno immediatamente preceduto. Per questo occorre qualcosa di più profondo. In quattro parole: ridare senso alla politica.
La tabe che sta più o meno intensamente affliggendo le democrazie occidentali, denominata “populismo” (termine abbastanza vago da consentire di riferirvi fenomeni i più disparati), non può essere esorcizzata da un voto, revocabile per definizione, tantomeno dalla retorica della buona volontà. Può essere combattuta e forse sconfitta solo recuperando ai cittadini la possibilità di scegliere fra ricette alternative. Precisamente ciò che gli establishment hanno negato, almeno dalla fine della guerra fredda in avanti, in nome del cosiddetto Washington consensus: totale liberalizzazione (meglio: anarchia) dei flussi finanziari, privatizzazioni a gogò, riduzione dei salari reali, compressione della spesa pubblica e dei relativi servizi. Tutto ciò in nome di una “globalizzazione” (altro passepartout) che prometteva di diffondere benessere all’intera umanità, senza vedere come la formidabile crescita della Cina e di altre società depresse si accompagnasse alla deprivazione materiale e morale dei ceti medi occidentali (ma anche di imponenti masse terzomondiali). Con in più, nell’Eurozona, il culto dell’austerità. Indubbiamente utile, almeno nel breve, al nucleo tedesco della nostra area monetaria, quanto devastante per tutti gli altri.
In Nordamerica e in Europa tale consenso precludeva di fatto quel processo di trial and error — la selezione sperimentale delle alternative — che negli ultimi tre secoli ha fatto la differenza fra Occidente e mondo. Si poteva e si può cambiare governo, non si poteva e a quanto pare ancora non si può cambiare politiche. I leader populisti rischiano di prevalere nei sistemi democratici inceppati da questa prigionia intellettuale, che nega il principio primo delle società aperte: la verità non appartiene a nessuno, perché ciascuno di noi ne porta una pur minima quota né alcuno può pretendere di incarnarla tutta. Perché se valesse il contrario, se solo a uno o a pochi fosse accessibile il buono e il giusto, il voto quale libera scelta fra proposte diverse — la corretta e le perverse — sarebbe atto criminale.
Il “consenso di Washington” è ormai criticato da molti e demonizzato da (quasi) tutti i populisti. Ai quali si è aggiunta la non autorevole voce della neopremier conservatrice britannica, Theresa May, impegnata nell’improbabile ricucitura del vallo che separa Londra dall’Inghilterra profonda: la vera causa della Brexit. Il
consensus resta tuttavia prassi corrente nell’approccio del Fondo monetario e della Banca mondiale ai Paesi in crisi — per informazioni rivolgersi a greci o portoghesi.
La liberazione dal populismo presuppone il riconoscimento che è figlio dell’elitismo. Dell’illusione tecnocratica coltivata dalle oligarchie che stentano a convivere con la democrazia. Sistema politico che ha il brutto difetto di porre almeno in teoria su un piede di parità chi presume di conoscere la ricetta del bene comune e chi si ostina a sfidarne la presunta sapienza. Finché non ci libereremo da tale postulato, potremo certo tirare un sospiro di sollievo se cialtroni o peggio dittatori in sedicesimo non prevarranno nelle prossime elezioni. Ma altrettanto sicuramente dovremo rassegnarci a convivere a lungo con il populismo e con i suoi deplorevoli derivati.
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di Mario Platero Il Sole 21.10.16
C’è una partita non americana in queste elezioni per la Casa Bianca del 2016: è la partita per la credibilità del populismo internazionale come alternativa politica innovatrice. Non c'è alcun dubbio che Trump sia diventato il volto, il simbolo anche a livello internazionale di quel populismo che protesta su tutto e contro tutto. Una sua sconfitta, soprattutto una sconfitta bruciante, da ieri non impossibile, potrebbe avere un effetto traino negativo su un movimento che da minoritario, di frangia, sta cercando un po’ dappertutto e certamente in Italia di fare il salto maggioritario.
Sappiamo che i populismi, sia quello americano alla Trump che quelli europei sono il sintomo molto reale di malcontento, di insofferenza nei confronti di una classe politica litigiosa e inefficace, di preoccupazione per un’economia stagnante, di paura per l’arrivo di ondate crescenti di immigrati. Ma la vocazione populista radicale, la “rottura” con un modo informato di fare politica, rispettoso degli accordi internazionali, del libero mercato e del libero commercio per ora ha un seguito solo in una parte della popolazione.
Il fatto che in America, il Paese leader dell’Occidente, si potesse avere un rigurgito populista con l’impatto che ha avuto Trump vincendo la nomination del partito repubblicano ha rappresentato una svolta storica. L’esempio Trump, la sua faciloneria, i suoi messaggi molto concreti per la costruzione di un “muro”, per la deportazione di milioni di immigrati illegali, per lo stralcio di accordi commerciali, di accordi politici o per la difesa, come la Nato, hanno raccolto molti assensi. Ma quando si è trattato di portare la causa populista al grande pubblico, fuori dalla frange minoritarie ma rumorosissime dell’attivismo estremista, Trump ha cominciato ad avere problemi di comunicazione, credibilità e preparazione che non aveva mai avuto nel novero ristretto delle primarie. E mercoledì sera, nel terzo dibattito presidenziale, in quello che doveva essere il suo ultimo appello per ribaltare le carte sul tavolo elettorale Trump è rimasto vittima del suo stesso populismo, del suo innato istinto a spingersi sempre un pochino più in là: ha rifiutato di accettare a priori la validità dei risultati elettorali contando sul fatto che il malcontento potesse estendersi fino a scuotere nelle sue fondamenta la democrazia americana.
Alcuni mesi fa, in tempi ancora non sospetti avevamo scritto su queste pagine che Trump avrebbe perso perché la sua promulgazione di valori lontani da quelli dei padri fondatori non sarebbe stata raccolta dalla grande America: per quanto scontenti insomma, gli americani non avrebbero attraversato quel ponte su cui li portava Trump per sperimentare un viaggio verso la novità ma anche verso l’ignoto.
Non è un caso che questa democrazia regga senza cambiamenti da 240 anni. Gli americani si trovano spesso su fronti opposti, combattono duramente, soprattutto negli ultimi anni, su questioni ideologiche come le tasse, il ruolo dello stato, l’aborto. Ma sono straordinariamente uniti attorno ai loro documenti sacri: la Dichiarazione di Indipendenza o la Costituzione. Trump, nella sua straordinaria sicurezza di onnipotenza, parlava del suo “movimento” come di un fenomeno che avrebbe rifondato l’America. E non solo i democratici, ma anche i repubblicani hanno intuito la portata del pericolo Trump. E insieme chiamato il bluff. Da noi questo ancora non succede: le spaccature fra partiti mainstream e all’interno di partiti mainstream prevalgono sull’unità contro le promesse facili della protesta creando confusione.
Ma da ieri, e anche un pochino già dopo il primo dibattito e dopo il filmato scandalo sulle sue prodezze sessuali con le donne, anche gli elettori della Grande America delle periferie e delle sterminate pianure hanno capito nella loro pienezza la vacuità, la superficialità del populismo antiamericano di Trump. E in maggioranza gli voteranno contro. Si tratterà di capire con quale maggioranza, perché una vittoria a valanga darebbe un messaggio di leadership americana anche alle maggioranze incerte nostrane: il dilettantismo può essere divertente, affascinante, come diceva una vecchia trasmissione radiofonica, ma porta
allo sbaraglio.
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