martedì 11 ottobre 2016

Evoluzione umana, scienza, colonialismo

Gli africani siamo noi
Guido Barbujani: Gli africani siamo noi. Alle origini dell’uomo, Laterza, pp. 140, euro 15

Risvolto
«Gli africani siamo noi non è uno di quei titoli che si tirano fuori per impressionare gli ingenui con un paradosso, ma è davvero la sintesi, la più onesta possibile, delle nostre frammentarie conoscenze sulle origini dell’uomo e sulla nostra vicenda evolutiva.»
Non bisognerebbe affrontare le sfide del Ventunesimo secolo con l’armamentario concettuale e ideologico del Settecento, ma succede. La convivenza fra persone di provenienze diverse, portatrici di diverse esperienze, stili di vita e convinzioni, pone problemi complessi. Per una curiosa reazione, molti invocano soluzioni illusoriamente semplici – fili spinati, muri, quote di immigrati, fogli di via – rispolverando vecchissime teorie sull’insanabile differenza razziale fra popoli del nord e del sud.
Questo testo cerca, al contrario, di stimolare qualche ragionamento. Prima di tutto, sulle responsabilità di molti scienziati nel fornire giustificazioni di comodo per lo schiavismo e il colonialismo; e poi su quanto le teorie della razza, che pure hanno generato sofferenze e conflitti enormi e reali, si siano rivelate irrealistiche, incoerenti e incapaci di farci comprendere la natura delle nostre differenze.

Gli africani siamo noi racconta anche un po’ delle cose che abbiamo capito da quando la biologia ha abbandonato il paradigma razziale: parla di come nel nostro genoma restino tracce di lontane migrazioni preistoriche; e anche di come forme umane diverse, forse specie umane diverse, si siano succedute e abbiano coesistito, finché sessantamila anni fa i nostri antenati, partendo dall’Africa, si sono diffusi su tutto il pianeta.

Ma che razza di uomo. Siamo tutti figli dell'AfricaMaurizio Cecchetti Avvenire 9 ottobre 2016

Gli africani siamo noi Razza, razzismo e pregiudizio
Repubblica

“Noi Sapiens, intelligenti (ma neanche troppo) e per caso”
A BergamoScienza un darwinista reinterpreta Darwin di Marco Cambiaghi La Stampa TuttoScienze 12.10.16
«Il modello tradizionale di evoluzione non solo è totalmente errato, ma è anche piuttosto triste». Questa affermazione, molto forte, racchiude il pensiero rivoluzionario di Henry Gee, paleontologo e senior editor di «Nature», una delle più influenti riviste scientifiche internazionali.
Gee aggiunge una postilla importante: non dobbiamo credere che la storia che ci hanno raccontato finora sia quella giusta. La storia, da che mondo è mondo, la scrivono i vincitori e quella dell’evoluzione umana non fa eccezione. Chi si è estinto non è qui a raccontare la propria versione dei fatti. Nel saggio «La specie imprevista. Fraintendimenti sull’evoluzione umana», edito da Il Mulino, Gee lancia una proposta radicale: dobbiamo ridurre le pretese di una disciplina affidata a un numero esiguo di fatti, diffidando da facili ricostruzioni e da «anelli mancanti».
Il concetto non è però di facile comprensione. Siamo abituati a pensare all’evoluzione come a un processo lineare, dallo scimmione ingobbito all’uomo davanti al pc. Un’immagine in cui siamo noi - i vincitori - a rappresentare il culmine dell’evoluzione, il miglior risultato possibile. Gee con la sua teoria spazza via questa idea antropocentrica, così come fecero Galileo e Copernico con il Sistema solare, per rivedere i nostri rapporti con le altre specie. I tempi sono fortunatamente cambiati rispetto al XVII secolo e Gee non deve temere l’Inquisizione, tant’è che domenica scorsa, a BergamoScienza, ha spiegato le sue ragioni non di fronte a un tribunale ma davanti a un pubblico molto interessato: «Dobbiamo smetterla di pensare che siamo speciali. O meglio, lo siamo quanto lo è un insetto che vola o un lombrico che vive sottoterra… o un geranio».
Il concetto di Gee è che l’evoluzione in sé non implica alcuna forma di progresso o miglioramento. L’uomo è quindi una specie imprevista (accidentale, nel titolo in lingua originale), a significare che siamo non solo uno dei possibili risultati del processo evolutivo, ma anche un risultato non essenziale. Il momento in cui il senior editor di «Nature» è arrivato a questa conclusione ha una data precisa, il 3 marzo 2004, quando in redazione gli arriva la notizia di una scoperta inattesa e sensazionale: in una caverna dell’isola di Flores, in Indonesia, è stato ritrovato lo scheletro di un individuo che non apparteneva a un umano moderno, ma a un omino di circa un metro e con un cranio non più grande di quello di uno scimpanzé, eppure con una somiglianza con quelli umani disarmante. Il fossile non venne datato oltre i 18 mila anni, un attimo fa, evoluzionisticamente parlando.
Un nostro parente stretto, chiamato Homo floresiensis, era quindi vissuto contemporaneamente a noi umani moderni, finché qualche evento (o qualcuno) lo eliminò, forse proprio l’Homo sapiens. Che un’altra specie abbia convissuto assieme a noi non è tuttavia un’eccezione: non più di 50 mila anni fa sulla Terra vivevano contemporaneamente quattro specie di ominini: Homo sapiens, Neanderthal, Homo erectus e il Denisoviano. Poi ci siamo ritrovati da soli. Perché? Gee ha una risposta: perché siamo una «specie accidentale» e attacca quindi l’abuso che si fa del termine «evoluzione»: «Darwin nell’Origine delle Specie non usò la parola “evoluzione” fino all’edizione del 1872 e, quando lo fece, non la utilizzò nel senso a cui ci riferiamo noi oggi. Per intendere il mutamento graduale di una specie - continua - si usava la parola “trasformazione”, mentre con evoluzione ci si riveriva all’evolversi di un organismo, dal seme alla pianta, dall’uovo all’adulto. Oggi, invece, i due processi hanno finito per confondersi e confonderci».
Inoltre - dimostra brillantemente Gee - l’evoluzione non ha memoria e non fa piani: siamo noi, con la nostra cultura, a voler vedere un’idea di progresso in ogni cosa. «Guardando indietro, non si può negare che il progresso appaia naturale e inevitabile, ma si tratta di una prospettiva limitata, perché non prende in considerazione la possibilità di percorsi alternativi. L’Homo floresiensis poteva esserlo!». La storia dell’evoluzione non è quindi una retta, ma assomiglia a un intricato cespuglio, del quale noi siamo il risultato di uno dei tanti rami. «Tuttavia - ammonisce ancora Gee - di questo e degli altri rami noi non conosciamo quasi nulla, se non alcuni frammenti, insufficienti per capire chi erano i nostri avi, che li si chiamino padri, nonni o altro ancora. Al più, quello che possiamo dire con maggior certezza è che siamo tutti “cugini”».
Il risultato, di fatto, è che non possiamo sapere chi c’era veramente prima di noi. Con i pochi fossili che si ritrovano non è possibile ricostruire il cespuglio che abbiamo alle spalle. A ben pensarci l’idea è poco rassicurante, così come 400 anni fa lo era pensare di non essere al centro dell’Universo. E tuttavia Gee ci dice che non dobbiamo avere paura: «La conoscenza è formata da cose che sappiamo di sapere, come 1+1=2 - era vero ieri e lo sarà domani - ma anche da cose che sappiamo di non sapere e, ancora, da cose che non sappiamo di non sapere: queste ultime due categorie sono il motore della scienza, quello che ci deve spingere a conoscere sempre di più per poterci fare nuove domande». 

Nessun commento: