venerdì 14 ottobre 2016

Gli smisurati impegni militari della NATO e degli Stati Uniti alla conquista del pianeta terra





Il segretario della Nato, Stoltenberg: "Mosca non avrà un'altra Yalta. Con Mosca la risposta è difesa e dialogo" 

Luca Romano Giornale- Ven, 14/10/2016

“Anche gli italiani schierati al confine con la Russia”
Il segretario Nato “Soldati italiani al confine russo”  Il segretario generale Nato: con Mosca la risposta è difesa e dialogo Gli Stati dell’Alleanza devono investire in sicurezza il 2 per cento del Pil Parla Stoltenberg: Mosca non avrà un’altra Yalta 
Marco Zatterin Busiarda 14 10 2016
Nel 2018 un contingente di soldati italiani sarà inviato al confine europeo con la Russia. «Sarete parte di uno dei quattro battaglioni dell’Alleanza schierati nei Paesi baltici», precisa Jens Stoltenberg, da due anni segretario della Nato. Pochi uomini, presenza «simbolica» in una forza «simbolica» da quattromila unità.
Tuttavia, serve a dimostrare che «ci siamo e siamo uniti», che «abbiamo una difesa forte che garantisce la deterrenza», mentre «vogliamo tenere aperto il dialogo» col Cremlino. Non solo. «Sempre nel 2018 - aggiunge il norvegese - l’Italia sarà nazione guida nel Vjtf», la Task Force di azione ultrarapida, la «punta di lancia» in grado di intervenire in cinque giorni in caso di emergenza. Schierata, e non è un caso, sulla frontiera Est. Davanti a Putin che, ammette l’ex premier di Oslo, «ha dimostrato la volontà di usare la forza militare contro i vicini». 
Visita romana ricca di incontri per Stoltenberg. Passaggio al Defence College, colloqui col Papa, col presidente Mattarella e coi ministri del governo Renzi. Bagno serale fra le stellette a Palazzo Brancaccio. Dove, per nulla distratto dai ricchi stucchi della residenza un tempo patrizia, il norvegese ha fatto il punto con «La Stampa» sulle tante minacce che ci circondano. Tranquillo e convinto, almeno nei limiti del possibile.
C’è una escalation tesa fra Russia e Alleanza. I rapporti fra Washington e Mosca sono ai minimi. È una nuova Guerra fredda?
«Non siamo nella Guerra fredda, ma non c’è nemmeno il partenariato a cui lavoriamo da anni. Attraversiamo un territorio nuovo, è un sistema di relazioni con Mosca mai visto sinora».
Come lo affrontate?
«La Nato deve essere in grado di adattarsi e rispondere alle sfide. Il messaggio è “Difesa e dialogo”. Non “Difesa o dialogo”. Sinché la Nato si dimostra ferma e prevedibile nelle sue azioni sarà possibile impegnarsi in contatti concreti con la Russia, che è il nostro vicino più importante. Non possiamo in alcun modo isolarla, non dobbiamo nemmeno provarci. Ma dobbiamo ribadire con chiarezza che la nostra missione è proteggere tutti gli alleati. Che serve una forte Alleanza non per provocare una guerra, ma per prevenirla. La chiave è la deterrenza, un concetto che si è dimostrato valido per quasi settant’anni».
Si sente pronunciare sempre più spesso la parola «guerra».
«La responsabilità della Nato è prevenirla. Conservare la pace. Per questo anche il linguaggio è importante e io non farò nulla per aumentare le tensioni. Anche perché non vedo minacce imminenti per gli alleati. Ce n’è una terroristica, ma non militare».
La Russia testa i suoi missili. È successo con gli Iskander a Kaliningrad poche ore fa. Solo «business as usual»?
«Fa parte del loro modo di comportarsi. Hanno investito pesantemente nella Difesa. Hanno triplicato la spesa in termini reali dal Duemila, mentre gli alleati europei della Nato la tagliavano. Hanno modernizzato l’esercito. Hanno dimostrato di essere disposti a usare la forza. Questo è il motivo per cui la Nato ha reagito. Si è adattata a un contesto nuovo e più insidioso».
Con le nuove forze e basi alla frontiera orientale?
«Abbiamo triplicato la dimensione della forza di risposta rapida, con otto quartieri generali nell’Europa centro-orientale. Ci sono i quattro battaglioni nelle repubbliche baltiche. Sono difensivi e proporzionati. Però dicono che la Nato c’è e che la risposta, certo limitata rispetto alle divisioni russe, è multinazionale».
Cosa vuole Putin?
«Non voglio speculare troppo sulle sue ragioni. Vedo però cosa fa la Russia. Da anni cerca di ricostruire un sistema basato sulle sfere di influenza in cui le grandi potenze controllano i vicini, per limitarne sovranità e indipendenza. È il vecchio sistema, il sistema di Yalta in cui le potenze si spartivano l’Europa. Non lo vogliamo. Nessuno può violare la sovranità dei singoli Paesi». 
Mosca dice che, crescendo, minacciate la loro sovranità?
«Sbagliato. È una scelta libera e democratica di Stati sovrani quella di unirsi alla Nato».
Però si rischia grosso, no?
«Dobbiamo essere forti, calmi, uniti e determinati. È così che si prevengono i conflitti. La Nato deve rafforzare la Difesa e fare il possibile per avere una relazione di maggiore cooperazione con la Russia». 
C’è un problema anche in Siria. Putin bombarda i convogli umanitari e minaccia le forze francesi e americane.
«La risposta è evitare di aumentare le tensioni. Essere fermi, ma affermare che non vogliamo alcuno scontro».
E la Turchia?
«È un valido alleato. Importante per la Nato e l’Europa».
Anche se Putin e Erdogan sono sempre più vicini.
«Incoraggio il dialogo politico sempre e l’ho fatto anche dopo l’incidente dell’aereo abbattuto. Non è nell’interesse di nessuno che fra i due Paesi ci siano delle tensioni». 
La Nato auspica che gli alleati spendano il 2% del Pil per la Difesa. È il momento di alzare la voce?
«Non piace a nessuno aumentare le spese militari. Quando ero ministro delle Finanze negli Anni Novanta le ho tagliate. Ma era un altro tempo. Ora non si può. Bisogna aumentare la spesa. Non perché ci piace, ma perché una Difesa forte previene i conflitti».
Lo chiede anche all’Italia?
«Apprezzo pienamente l’ottimo contributo dell’Italia all’Alleanza. È in Afghanistan come in Kosovo. Ospita molte installazioni, a partire dal comando di Napoli. Presto arriverà la sorveglianza del territorio con aerei e droni, a Sigonella. Nel 2018 sarete nella “punta di lancia” e nei battaglioni baltici»
E i soldi?
«Nel 2016 per la prima volta da tempo ha aumentato la spesa per la Difesa. Tutti devono tendere al 2%. L’obiettivo resta».
Veniamo al Mediterraneo. Che programmi avete?
«Ho discusso con l’Alto rappresentante Federica Mogherini e prepariamo un sostegno maggiore all’operazione Sophia per il controllo delle acque internazionali. Siamo pronti ad aiutare la formazione della guardia costiera e del personale della Difesa libica, se richiesti. La nostra operazione marittima “Sea Guardian” unirà i proprio sforzi a quelli di Sophia. Stiamo discutendo le modalità. Nato e Ue lavorano bene insieme».
BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

L’Europa cuore del confronto fra Usa e putin 
Stefano Stefanini Busiarda 14 10 2016
Fra Stati Uniti e Russia è di nuovo Guerra fredda. Pur negandola, il Segretario generale della Nato ha le idee chiare sul ruolo che vi gioca l’Alleanza: sicurezza militare e dialogo politico. Si deve parlare con la Russia, ma solo se prima blindiamo le nostre difese e la nostra solidarietà. Anche con la presenza di soldati italiani ai confini della Russia.
Volenti o nolenti gli europei sono al centro del confronto russo-americano. Mosca non fa sconti all’Europa. L’Ue tiene duro sulle sanzioni. La Russia prosegue sulla sua strada in Siria, incurante delle conseguenze umanitarie. François Hollande, non certo un falco, ha rinunciato ad incontrare Vladimir Putin. Altri si barcameneranno, ma sarebbe patetico cacciare la testa nella sabbia: la pista per giri di valzer fra Mosca e Washington sta diventando sempre più stretta.
Questa guerra fredda assomiglia solo lontanamente al confronto globale della seconda metà del secolo scorso. Non è in gioco il dominio planetario. Non è uno scontro fra ideologie. 
Lascia più o meno indifferenti tre quarti dell’umanità. Sembra dettata più da accidenti, azzardi e incomprensioni che da inevitabilità della storia. Per far marcia indietro non ci sono muri da abbattere. 
Potrebbe durare poco. E’ ugualmente pericolosa, anche perché sono venute meno le regole di comportamento che avevano efficacemente disciplinato la vecchia Guerra fredda, specie in campo nucleare. Agli arsenali si sono aggiunte minacce di difficile controllo e gestione, come lo spazio e l’aggressione informatica. Washington ne accusa Mosca che nega: chi è in grado di provarla?
Anche mettendo da parte l’attacco informatico, la Russia ha improvvisamente giocato la carta dell’escalation, collocando gli Iskander a Kaliningrad, alzando la retorica nazionale e, soprattutto, facendo naufragare i tentativi di tregua e negoziato in Siria. Cos’ha spinto Mosca, in poche settimane, a rompere su praticamente tutti i fronti con Washington? Sergei Lavrov si è affannato a lanciare messaggi concilianti e ragionevoli. Non ha tutti i torti quando ammonisce gli americani dal guardarsi da amici poco raccomandabili fra i ribelli in Siria, ma come può giustificare la cambiale in bianco rilasciata a Assad? (Infatti se ne è astenuto). La diplomazia russa non spiega dove vuole arrivare il loro Presidente né in Siria né altrove. Forse non lo sa. 
Neanche Jan Stoltenberg lo sa, ma dà una risposta perfettamente ragionevole. Vladimir Putin vuole arrivare a un nuovo grande patto con l’Occidente. Se è così, non può che aspettare la nuova amministrazione americana e vorrà presentarsi in una posizione di forza. In Ucraina non può più tirare la corda, la tira in Siria. Da buon norvegese, il Segretario generale della Nato sa che per tenere a bada la Russia, con cui il suo Paese condivide un lungo confine e un immenso Artico, occorre un misto di confronto, di dialogo e di pragmatica cooperazione. La sua prima preoccupazione è che l’Alleanza abbia la coesione, volontà politica e capacità militari necessarie. 
Quando i leader della Nato si sono riuniti a Varsavia, all’inizio di luglio, la Russia era il problema, ma non l’unico tant’è che, anche per spinta italiana, il vertice ha bilanciato il fronte Est, in Europa orientale, con quello Sud, nel Mediterraneo. Sono passati solo tre mesi, ma questo equilibrio fra le due diverse minacce alla sicurezza in Europa si è alterato. Quella da Sud resta in tutta la sua virulenza e imprevedibilità. Ma Putin ha giocato al raddoppio e l’Alleanza atlantica resta il perno della difesa dell’Occidente e del mantenimento della pace nel nostro continente. E’ tornata in prima fila.
A Varsavia, il compito della Nato nei confronti della Russia era relativamente semplice: rassicurare gli alleati sulla tenuta dell’art. 5 e mettere in atto classiche misure di deterrenza. Dal momento in cui il tenue filo di cooperazione russo-americana in Medio Oriente si è spezzato, la sfida russa è diventata a tutto campo. L’Alleanza atlantica non può non tenerne conto, anche se non direttamente impegnata sul teatro siriano e iracheno (ma vi confina la Turchia e vi operano molti Paesi Nato, fra cui anche l’Italia).
Lo sbocco di questa Guerra fredda sarà nelle mani di Washington e di Mosca. La presenza della Nato all’uscita dal tunnel è cruciale per gli europei. L’Alleanza non ne garantisce solo la sicurezza militare, ma anche il coinvolgimento politico nella futura «Yalta», se e quando vi sarà (non certo in Crimea…). Se l’Italia vorrà essere presente al tavolo domani, farà bene a tenersi stretta la Nato oggi. Anche andando con gli altri alleati ai confini della Russia.
BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI


Ecco il risiko globale se a guidare gli Stati Uniti sarà Hillary o Trump 
La candidata democratica guarda alla Cina Il magnate vuole invece un asse con il Cremlino 

Francesco Semprini Busiarda 14 10 2016
I grandi accordi commerciali sono la causa del declino americano? L’Europa è un alleato indiscutibile? Mosca è un interlocutore o un temibile rivale degli Stati Uniti? Sono questi gli interrogativi in materia di politica estera a cui Hillary Clinton e Donald Trump tentano da mesi di rispondere, talvolta però senza convincere gli elettori. «Il mondo è cambiato molto durante l’era Obama, il presidente ha dato precedenza alla crisi economica che stava piegando il Paese e questo ha un po’ indebolito la leadership americana nel mondo - spiega Noel Lateef, presidente di Foreign Policy Association -. Inoltre si sono innescate spinte deglobalizzanti che hanno aperto spazi a forze populiste e protezionistiche come quelle che si battono contro i grandi accordi commerciali. Un esempio è il Nafta, la zona di libero scambio creata tra Usa, Canada e Messico, e considerata da Trump causa del malessere economico e occupazionale dell’America». 
Posizioni quelle anti «free-trade» che però non sono condivise dai diretti interessati. «Proprio qui da noi alla Fpa il presidente del Messico qualche giorno fa, citando Abramo Lincoln, ha detto: “Quando le cose vanno bene al tuo vicino vanno bene anche a te”». E questi sono i valori di cui si fa garante invece Hillary Clinton secondo cui erigere un muro al confine col Messico per fermare l’arrivo di clandestini, uno dei cavalli di battaglia del candidato repubblicano, è addirittura una violazione dei diritti fondamentali, oltre che una mossa controproducente. Un esempio che dimostra l’abissale distanza tra i due candidati, da qualunque angolatura li si veda. 
Trump viene dal settore privato, Hillary dal pubblico, lui mette in discussione l’alleanza europea, lei vuole rilanciarla, trovando nella Nato l’interlocutore militare e nell’ Ue quello politico. Il tycoon dice che Putin è un partner strategico per gli Usa, Clinton invece denuncia le ingerenze del Cremlino nella campagna elettorale come un pericolo per la sicurezza nazionale. L’unico punto in comune in fatto di politica estera è la ferma convinzione di non dover inviare truppe di terra in Siria, ma mentre Trump è convinto che il presidente Assad, assieme a Iran, Hezbollah e Russia, sia nel giusto perché combattono e uccidono terroristi dell’Isis, Hillary punta sui ribelli moderati e dice che occorre fermare il Raiss di Damasco. 
In Iraq l’ex First Lady vuole invece armare i Peshmerga, i guerrieri curdi del Nord, progetto che affonda le sue radici nella dottrina di George Bush mutuato dopo la prima guerra del Golfo. In oriente Hillary punta a un dialogo con la Cina, quella che Trump ritiene la rovina degli Usa per le produzioni lì delocalizzate, mentre ha già annunciato che inviterebbe il leader nordcoreano Kim Jong-Un alla Casa Bianca. 
Sempre nel Vecchio Continente infine, Trump ha il debole per gli inglesi della Brexit, mentre Hillary punta a una partnership rosa con la Merkel. Continuità, nel solco dell’operato di Obama (ma con lievi variazioni) rispetto a cambiamento quindi: ma per l’America del dopo Obama quali saranno le priorità sul piano internazionale? «Il prossimo presidente degli Stati Uniti deve risolvere alcuni grandi problemi, come la questione dei cambiamenti climatici, i conflitti, ma anche una ripresa economica più inclusiva - spiega Aldo Civico, antropologo e consulente della campagna di Obama e Hillary Clinton -. Ma soprattutto deve mettere in relazione fra loro tutti questi fattori, con un approccio di sistema e soprattutto creando partnership e lavoro comune». 
E saranno proprio le Nazioni Unite del neosegretario generale Antonio Guterres (ieri è stata ufficializzata la sua nomina) uno dei primi test sul futuro della politica estera americana. Quando il nuovo presidente Usa dinanzi ai 193 Paesi membri, deciderà se proseguire sulla linea della cooperazione e del multilateralismo o se l’America tornerà a decidere da sola, unilateralmente, senza render conto a nessuno.
BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

Yemen, così la guerra coinvolge gli Usa 

Il tentativo di colpo di Stato dei ribelli sciiti si è trasformato in conflitto permanente Dietro le violenze c’è lo scontro tra Teheran e Riad. A giovarne è Al-Qaeda 

Giordano Stabile Busiarda 14 10 2016
I tre missili Tomahawk lanciati dal cacciatorpediniere americano Nitze che ieri hanno distrutto postazioni radar dei ribelli sciiti Houthi aprono una nuova fase del conflitto in Yemen. Per la prima volta Washington ha colpito direttamente gli Houthi, dopo aver appoggiato per un anno e mezzo la coalizione guidata dall’Arabia Saudita, senza farsi coinvolgere in prima persona. Gli Stati Uniti hanno reagito con il raid dopo che la loro nave militare era stata sfiorata da missili lanciati dai ribelli. I radar servivano a puntare i bersagli in mare. Da una prima lettura sembra che nello scambio di colpi nessuna delle due parti abbia voluto «far male» davvero. 
Lo Yemen è il terzo fronte della guerra per procura fra Arabia Saudita e Iran, dopo Siria e Iraq. Ma si innesta in un contesto molto particolare. Gli Houthi sono gli eredi della corrente sciita zaydita, oltre un terzo della popolazione yemenita. Hanno governato Sana’a per mille anni, dal X secolo al 1962. Hanno lottato contro le potenze sunnite, l’Impero ottomano, l’Egitto, e mantenuto la loro indipendenza. Dopo la riunificazione fra Yemen del Nord e del Sud, nel 1990, sono stati relegati ai margini, nelle regioni più povere e montagnose. La riscossa è cominciata con la leadership di Hussein Badreddin al-Houthi che ha fondato la confraternita Ansar Allah, l’ha trasformata in un movimento politico, poi guerrigliero, ispirato agli Hezbollah libanesi. Al-Houthi è rimasto ucciso nel 2004 e da allora il gruppo si fa chiamare con il suo nome. Per sei anni il primo presidente dello Yemen unito, Ali Abdullah Saleh, ha cercato di soffocare la ribellione.
Poi è arrivata la Primavera araba. Saleh è stato esiliato. Il nuovo presidente Abd Rabbuh Mansour Hadi non ha mantenuto nessuna delle promesse. I ribelli sono scesi dalle montagne, hanno occupato Sana’a e cacciato Hadi nel febbraio 2015. Un mese dopo l’Arabia saudita formava una coalizione di dieci Paesi sunniti e lanciava l’operazione «Tempesta decisiva» per stroncare la ribellione. Gli insorti, guidati ora da Abdul Malik al-Houthi, controllano un terzo del Paese e hanno creato un Comitato rivoluzionario che funge da governo provvisorio. Alcune forze sunnite, come la Guardia presidenziale dell’ex presidente Saleh, appoggiano la rivolta. L’intervento saudita ha trasformato uno scontro interno in un massacro. Sul terreno la coalizione ha perso 500 soldati e decine di tank, è stata costretta a ritirarsi al di qua del confine. Le città saudite di Najran e Jazan sono state attaccate dai guerriglieri. Un’umiliazione per Riad.
La coalizione ha lanciato una campagna di raid aerei sullo Yemen che non ha risparmiato scuole, ospedali, monumenti storici. Le vittime civili sono stimate fra tremila e seimila. Diecimila bambini, secondo l’Unicef, hanno perso la vita sotto i bombardamenti o per malattie legate alla guerra. Sabato scorso un raid ha preso di mira un funerale a Sana’a e ucciso 140 persone. L’Arabia saudita ha imposto un blocco terrestre, aereo e navale che sta strangolando il Paese. Le navi della coalizione, più francesi e americane, pattugliano il Mar Rosso, dove gli Houthi controllano ancora due porti, per impedire l’arrivo di armi ai ribelli, in particolare dall’Iran. È in questo contesto che dieci giorni fa gli Houthi hanno colpito con uno Scud una nave da guerra emiratina e ieri c’è stato lo scambio missilistico con gli Usa. E intanto Teheran ha inviato le sue fregate Alvand e Bushehr nel Golfo di Aden. BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

L’Iran invia navi da guerra nel golfo di Aden dopo il raid americano contro gli houthi 

Il Pentagono: abbiamo agito per difendere i nostri militari 

Francesco Semprini Busiarda 14 10 2016
Si complica la situazione alle pendici del Mar Rosso dove è in corso la guerra tra le formazioni sciite dello Yemen e l’alleanza di Paesi arabi sunniti guidata dall’Arabia saudita. Unità navali degli Stati Uniti hanno preso di mira postazioni radar controllate dagli Houthi, in risposta al presunto duplice lancio di missili da parte delle stesse formazioni combattenti. 
Ciò ha scatenato le ire dell’Iran che ha annunciato l’invio di navi da guerra nel golfo di Aden e a Bab al Mandab. A inizio settimana, infatti, è avvenuta l’azione balistica offensiva degli yemeniti sul cacciatorpediniere Uss Mason in transito, senza colpirlo. Ecco allora giunta ieri mattina la risposta americana che secondo i portavoce del Pentagono è stata «limitata» nel quadro della legittima autodifesa, al fine di «proteggere il nostro personale, le nostre navi e la libertà di navigazione in quel importante passaggio marittimo». 
L’obiettivo sono stati i radar in dotazione nelle stesse postazioni da cui sarebbe avvenuto il lancio da terra verso il mare. Il ministero della Difesa Usa esclude però che i Tomahawk lanciati dal cacciatorpediniere Uss Nitze, hanno causato vittime civili dal momento che i radar si trovano in posizioni isolate. Gli obiettivi sono stati colpiti e neutralizzati, ovvero tre radar in tre diverse posizioni lungo la costa sud-occidentale yemenita, da Bab al-Mandab fino a Capo Issa, attorno al porto di Hudayda, tutte aree sotto il controllo degli Houthi. Da Teheran è giunta immediata la risposta attraverso l’agenzia Tasnim la quale ha annunciato oggi che due navi da guerra iraniane, Alvand e Bushehr, sono state dispiegate nell’area di Bab al-Mandab nel quadro di regolari attività di pattugliamento e di contrasto alla pirateria lungo la costa yemenita e il Corno d’Africa. 
Per ora dalla Repubblica islamica non sono giunte dichiarazioni ufficiali sulla vicenda, ma l’invio di unità è senza dubbio una prova muscolare evidente specie perché il tratto di acque che va dal basso Mar Rosso allo stretto di Hormutz, è stato spesso teatro di confronti forti tra americani e iraniani. La risposta americana tuttavia appare limitata a inviare un messaggio di avvertimento a chi ha sparato i missili mercoledì mattina. 
E non sembra indicare l’intenzione di Washington di esser coinvolta direttamente nel conflitto yemenita. «È quello che vogliono, trascinare gli Usa in un conflitto che non gli appartiene - spiega a La Stampa una fonte vicina agli Houthi - loro non hanno alcuni interesse ad attaccare l’America, piuttosto invece ce l’ha la coalizione a guida saudita in risposta ai successi messi a segno nel loro territorio da parte delle formazioni yemenite». Gli Usa hanno finora sostenuto a livello logistico la Coalizione anti-Houthi guidata dall’Arabia Saudita ma si sono sempre concentrati su obiettivi qaidisti in Yemen. In seguito però ai bombardamento della Colazione a Sana’a che hanno causato 150 vittime civili, Washington ha dichiarato di voler rivedere il quadro del loro impegno a fianco della Coalizione. BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

Serve coesione per dialogare con il Cremlino 
Sergio Mattarella Busiarda 14 10 2016
In un mondo sempre più globalizzato e interconnesso, quanto accade dentro e al di sopra degli Stati si riverbera su tutti. 
A partire dal terrorismo fino alla grande sfida di migrazioni di massa epocali. Il Vertice di Varsavia del luglio scorso ha confermato che la Nato del ventunesimo secolo è aperta e pronta a sviluppare nuove sinergie: dall’approfondimento delle relazioni con gli Stati partner a quello con altre organizzazioni sovrannazionali e internazionali. L’Italia crede fermamente nelle potenzialità di questa cooperazione e nel loro ulteriore sviluppo, soprattutto in una fase in cui l’Unione Europea sta attraversando un assestamento inevitabile a seguito degli esiti del referendum britannico. Londra rimane - nella nostra visione - un partner centrale nell’ambito dell’Occidente, un alleato imprescindibile. Ci auguriamo davvero che il popolo britannico intenda proseguire sulla strada della collaborazione.
E’ su queste basi che l’Italia vive la sua appartenenza alla famiglia atlantica, alla quale non ha mai fatto mancare il proprio contributo in termini di visione, prima ancora che in uomini e mezzi. E’ infatti in questi valori che ancora oggi, a distanza di quasi settanta anni, ci riconosciamo. Quei valori che ci portano oggi a considerare positivamente le richieste di rassicurazione da parte dei nostri Alleati dell’Est europeo ma anche a garantire una continuità alla nostra partecipazione alle missioni in Afghanistan e in Kosovo.
Sul piano strategico è vivo il dibattito sulla minaccia proveniente da Est. Non è mancato chi ha assimilato le frizioni dell’ultimo periodo a un ritorno alla «guerra fredda». Ma nessuno può riportare indietro la storia. Né, tantomeno, appare sensato riproporre il ripristino di una barriera che rievoca fatalmente quella cortina di ferro che umiliò le aspirazioni di libertà di interi popoli e per smantellare la quale fu necessaria la determinazione del mondo atlantico e il lungo percorso messo in campo con la Conferenza di Helsinki. 
E’ indispensabile che si ponga fine all’irragionevole momento di tensione, la cui pericolosità vivono, quotidianamente, i nostri militari. Le esibizioni di forza, il continuo saggiare le forze, sono solo l’avvio di escalation per smontare le quali occorrono poi anni di ripristino di reciproca fiducia. Va affermata con priorità, naturalmente, la regola del ristabilimento della legalità internazionale. La via del dialogo rimane centrale. La convocazione del Consiglio Nato-Russia ha rappresentato un passo nella giusta direzione e ci auguriamo che tale filo non venga spezzato, auspicando che la Russia voglia seriamente collaborare in questa direzione. Ma - desidero ribadirlo - presupposto del dialogo sono la compattezza e la solidità dell’Alleanza e per questo l’Italia ha risposto nei fatti all’appello degli Alleati nordici e non ha mai fatto mancare loro la propria concreta vicinanza. 
Identica coerenza e responsabilità occorre avere, naturalmente, nell’affrontare le tensioni presenti nello scacchiere cui guarda il Mediterraneo, per le numerose situazioni di instabilità che si stendono su di un arco che va dall’Iraq e dalla Siria e, passando dalla Libia, giunge sino al Sahel. Abbiamo accolto con rinnovato ottimismo la decisione presa a Varsavia di reindirizzare l’operazione «Active Endeavour» presente nel Mediterraneo, verso un’operazione denominata «Sea Guardian». Confidiamo che questa entri in azione senza ritardi, in sinergia con l’operazione «Sophia» e coordinamento con le iniziative che assumerà la Guardia Costiera e di Frontiera «Frontex», della Unione Europea. L’Italia sopporta praticamente da sola il peso della rotta mediterranea.
Estratti del discorsodel Presidente della Repubblicaal Nato Defense College
BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI


Yemen  Per gli Usa il rischio di un’altra Siria Missili americani contro gli Houthi
l conflitto si allarga: rappresaglia dopo i tiri dei ribelli sciiti sulle navi di Washington, accusata di complicità nei raid aerei sauditi

ALBERTO STABILE Rep
BEIRUT. Per la prima volta dall’inizio della guerra nello Yemen tra l’Arabia Saudita e la tribù degli Houthi, una minoranza di religione sciita, gli Stati Uniti, che hanno avallato l’intervento dell’alleato saudita senza, tuttavia, ricoprire un ruolo primario, sono entrati a piè pari nel conflitto bombardando con missili Tomahawk alcune postazioni radar controllate dalla tribù ribelle. È stata questa la risposta militare autorizzata personalmente da Obama al lancio di tre ordigni da parte dei miliziani contro il cacciatorpediniere americano “Mason” e una nave anfibia che incrociavano in acque internazionali non lontano dalle coste yemenite. Un’accusa, questa, che gli Houthi hanno risolutamente negato.
Nell’annunciare l’atto di ritorsione compiuto dalla Marina americana, il Pentagono ha voluto sottolineare il carattere “limitato” e “autodifensivo” dell’attacco alle postazioni radar, teso soltanto, a giudizio del portavoce della Difesa, a proteggere la vita dei marinai americani e la libertà di navigazione della Marina Usa. Sta di fatto che la spirale di violenza, azione e reazione, innescata dalla campagna militare saudita contro gli Houthi, adesso coinvolge anche l’America.
È stato il raid aereo contro i civili che sabato scorso a Sana’a partecipavano al funerale di un capo tribù - il padre del ministro dell’Interno Houthi, Jalal al Roweishan a rappresentare l’antefatto di questa improvviso innalzamento della tensione nell’area. Una lunga fila di persone che andavano a presentare le condoglianze ai parenti del defunto nell’Alkubra, l’edificio comunitario riservato a matrimoni e funerali. Poi il ruggito di un caccia. Due potenti esplosioni a distanza di sette minuti l’una dall’altra hanno demolito e incendiato il centro: i morti oltre 140 quaranta, i feriti più di 600, appartenenti a tutto lo spettro politico, e soprattutto, pare, all’area dei favorevoli a una soluzione negoziata del conflitto.
Non è la prima volta che la popolazione yemenita, le sue istituzioni civili e le stese strutture sanitarie finiscono nel mirino della coalizione di nove paesi arabi organizzata e guidata dall’Arabia Saudita per muovere guerra agli Houthi, accusati di rappresentare una sorta di longa manus del regime iraniano e, dunque, un’ulteriore insidia approntata da Teheran per insidiare il primato saudita nella regione. Secondo le organizzazioni umanitarie delle Nazioni Unite, l’operazione “Tempesta risolutiva”, come gli strateghi di Riad hanno chiamato la guerra, ha comportato, da quando è iniziata, nel marzo del 2015, la distruzione di 90 strutture sanitarie, fra cui 30 ospedali, alcuni dei quali gestiti da Medici Senza Frontiere. Il che vuol dire che una popolazione di 200.000 persone è rimasta tagliata fuori da qualsiasi intervento medico o cura d’emergenza.
Stavolta, però, i missili lanciati contro la folla ai funerali di Sana’a potrebbero provocare una svolta nel conflitto, se non sul piano militare, almeno su quello morale. All’inizio, davanti alle prime notizie del massacro, i sauditi, come in altre occasioni, hanno provato a negare. Poi hanno espresso il loro rammarico, annunciando l’apertura di un’inchiesta. Ma per gli Houthi, in questo momento, non sembra esserci altra soluzione che la vendetta. Mercoledì, nel giorno dell’Ashura, la festa più sacra del calendario sciita, migliaia di Houthi hanno affollato piazza al Sittin, il cuore di Sana’a, per ascoltare le parole di Abdel Malek al Houthi, il capo del partito Ansarullah, il braccio politico della comunità promettere vendetta contro l’alleanza “saudita- americana”.
Una grande foto di Hassan Nasrallah, il leader degli Hezbollah libanesi, spiccava sul palco accanto alla foto di Abdel Malek Al Houthi. Ecco, una traccia di quella che i sauditi vedono come la principale minaccia, la mezzaluna nera, la coalizione dei movimenti sciiti appoggiati dall’Iran che, dall’Iraq al Libano, danno corpo all’espansionismo iraniano in Medio Oriente.
È vero che gli Stati Uniti non partecipano direttamente alla coalizione lanciata da Riad contro gli Houthi, composta da nove Paesi arabi sunniti, ma forniscono intelligence, rifornimenti in volo, sorveglianza sui confini. Inoltre Obama ha avallato l’operazione e garantisce al regno petrolifero un ombrello militare impenetrabile, con forniture di armamenti per decine di miliardi di dollari, destinato a placare i timori suscitati nei sauditi dall’accordo sul nucleare stretto da Washington con l’Iran.
Ma di fronte all’inutile carneficina saudita gli americani mostrano di aver esaurito la riserva di pazienza. «L’appoggio dato alla coalizione non è un assegno in bianco», dice il Dipartimento di Stato. A cui, dopo il massacro di Sana’a, s’è aggiunto il Consiglio per la Sicurezza Nazionale minacciando una «revisione» dell’appoggio (militare) dato all’Arabia Saudita con un possibile riposizionamento rispetto ai «principi, ai valori e agli interessi » degli Stati Uniti.
L’imbarazzo americano nasce dal rischio, di essere risucchiati in un conflitto che, fatte le debite proporzioni, somiglia molto, quanto a disprezzo della vita umana e uso spregiudicato della violenza contro i civili, alla guerra in Siria, ma a parti invertire. Se ad Aleppo gli americani (e i sauditi) sono schierati dalla parte dei ribelli e della popolazione che subisce i terribili effetti dei bombardamenti russi e siriani, a Sana’a, sono gli aerei sauditi, che, grazie alla cooperazione degli Stati Uniti, mietono vittime tra i civili. Il rischio è in sostanza di perdere ogni credibilità quando Washington accusa la Russia di farsi complice dei crimini contro l’umanità compiuti verso la popolazione di Aleppo Est.

Pechino tra Bangkok e Washington
Equilibri asiatici. Cina, Clinton e WikiLeaks: per Hillary Xi Jinping è migliore di Hu Jintao
di Simone Pieranni il manifesto 14.10.16
Proprio nelle settimane scorse la Thailandia aveva fatto un grande favore alla Cina: il giovane Joshua Wong, simbolo delle proteste che nel 2014 misero in grave imbarazzo Pechino a Hong Kong, è stato rimandato nell’ex colonia britannica appena messo piede all’aeroporto di Bangkok. La giunta militare thailandese ha specificato che la decisione dipendeva dalla volontà di non volere in alcun modo creare problemi ad altre nazioni, ovvero a Pechino. Il gesto è stato subito visto come una importante mossa di Bangkok in direzione Cina, dato che la Thailandia è l’unico paese a non avere alcuna disputa territoriale con Pechino e pare non veda in modo troppo negativo un riavvicinamento al gigante asiatico, in chiara contrapposizione a una storica vicinanza agli Stati uniti (specie durante la guerra del Vietnam).
Insieme al comportamento di Duterte, presidente delle Filippine, questa scelta di Bangkok è stata letta come un’azione rilevante nell’area, dove si stanno giocando partite importanti.
E Thailandia e Cina, come viene ricordato dopo la morte del re Bhumibol, hanno relazioni stabili da anni. Il re thailandese ha incontrato praticamente tutti i leader cinesi succedutisi negli ultimi anni. Il «link» tra i due paesi, in particolare, è rappresentato dalla figlia del re, la principessa Sirindhorn, che ha studiato a Pechino e parla in modo perfetto il mandarino. È lei ad aver annunciato tempo fa la sua traduzione del libretto rosso di Mao ed è lei che in un discorso all’Asia Society ha ricordato che la famiglia reale thailandese segue antiche tradizioni cinesi, come il ricordo degli antenati nel giorno del capodanno cinese.
Ma tra Cina e Thailandia pesano anche gli investimenti economici fatti da Pechino, come ad esempio quelli in relazione alla costruzione di una ferrovia che dovrebbe unire i due paesi ed esercitazioni militari congiunte.
Manovre che già nel 2015 avevano allarmato gli Stati uniti, poco convinti di questo avvicinamento della Thailandia alla Cina.
E proprio dagli States, o meglio da WikiLeaks, sono arrivate importanti novità sul rapporto che potrebbe esserci nell’immediato futuro tra Clinton e l’attuale leadership cinese, nel caso la candidata democratica superi Donald Trump nel confronto presidenziale. Hillary non ha mai fatto mistero di apprezzare poco l’ex presidente Hu Jintao. Già nel suo libro di memorie aveva specificato che la personalità di Hu era da considerarsi inferiore tanto a Jiang Zemin, quanto a Deng Xiaoping. Il rilascio da parte di WikiLeaks delle mail del responsabile della campagna elettorale di Hillary Clinton ha finito dunque per fornire un ottimo spunto di analisi. In questo caso Hillary si esprime sulla Cina nel corso di alcune conferenze. Xi Jinping viene lodato in quanto capace di puntellare il proprio potere nel giro di pochissimo tempo.
E secondo la candidata democratica Xi Jinping ha avuto un merito in più rispetto al suo predecessore: ha saputo conquistare fin da subito il vertice dell’esercito di liberazione. In questo modo, secondo Hillary, il Pla e il paese hanno una stessa guida, evitando così una dicotomia rischiosa per quanto riguarda gli interessi degli Stati uniti.
Analogamente l’attuale rivale di Trump alla carica di presidente degli Usa riconosce l’assertività cinese – e le sue ragioni – nel mar cinese meridionale. Se loro chiamano quel mare «cinese», spiega Clinton, noi possiamo chiamare il pacifico «mare americano». Una provocazione che nasconde in realtà una visione molto lucida delle problematiche dell’area. Clinton ribadisce che al riguardo gli Usa non possono permettersi una Cina capace di soffocare il commercio internazionale nell’area, pur intravedendone le motivazioni. Clinton dunque probabilmente potrà instaurare con Xi un rapporto più empatico rispetto a Obama, ma non muterà certo la strategia di «pivot americano» in Asia.

Nessun commento: