venerdì 28 ottobre 2016

Han Meilin a Venezia

La retrospettiva «Il mondo di Han Mailin» all’università Ca’ Foscari fino al 28 febbraio, è curata dall’ambasciatore Umberto Vattani e da Zhao Li
di ALESSANDRO ZANGRANDO Corriere 28 10 2916

Han Meilin, conquista Venezia con la sua esuberanza creativa 

Quadri, sculture, argille, inchiostri: artista molto popolare in Cina A 80 anni vuole spiegare la cultura del suo Paese all’occidente 

Egle Santolini  Busiarda 28 10 2016
La mostra «Il mondo di Han Meilin», inaugurata ieri a Ca’ Foscari e visitabile fino al 28 febbraio, in realtà ne contiene una decina. Tale e tanta e talmente variegata è la produzione dell’artista cinese ottantenne che ce n’è per tutti i gusti. Conviene cominciare dai grandi acquerelli dedicati agli animali? Dalle sculture d’argilla? Dai bronzi? Dai delicati inchiostri a getto d’acqua? Magari dai dieci panda di rame che, dai cortili di Ca’ Giustiniani e di Ca’ Foscari, hanno già cominciato ad affascinare i bambini? Perfino dalle squisite teiere, o dalle sedie di legno intarsiato?
Le ragioni di questa abbondanza sono essenzialmente due. Innanzitutto la smodata produttività di Meilin: «Lavoro come un bue - si compiace - e non vedo il motivo di smettere. Soprattutto dopo che l’Unesco mi ha nominato artista per la pace, un’enorme responsabilità che onorerò al meglio possibile». La seconda ragione sta invece nella funzione di porta verso l’arte cinese, o se preferite di ponte fra Est e Ovest, che la retrospettiva ha assunto e che è stata più volte evocata, innanzitutto dal curatore (con il cinese Zhao Li) e gran tessitore dell’operazione, l’ambasciatore Umberto Vattani. Se un occidentale mediamente ignaro volesse capire quali sono i criteri con cui da millenni si fa arte nel Celeste Impero, qui troverebbe insomma un punto di partenza: e ieri bisognava vedere come Han Meilin spiegasse «la nostra idea di prospettiva, diversa dalla vostra», o come «un ideogramma inventato dai nostri antenati parta dall’osservazione della natura, magari dal modo di muoversi di un animale, e finisca per dare origine a un quadro astratto». 
Non sono mancati gesti fra la performance e il gioco di prestigio, per esempio con una striscia di carta che evoca l’infinito, più qualche variazione sul simbolo dello yin e dello yang. Definito un po’ pomposamente «il Picasso cinese», Han Meilin ha conosciuto i campi di rieducazione ai tempi della rivoluzione culturale, ma nella nuova era liberista di Pechino è diventato una star. 
In patria gli hanno dedicato addirittura tre musei. Escono dal suo studio (e dal suo tavolo di lavoro lungo 20 metri) le poltrone dell’Air China e le mascotte delle Olimpiadi di Pechino, le cosiddette bambole Fuwa, dotate di un certo humour poetico e in effetti un bel po’ più convincenti di altre analoghe invenzioni di marketing escogitate ogni quattro anni (e anche più, se contiamo i Mondiali di calcio e le Expo). Se lo intervisti, come prima cosa ti mostra le foto della sua opera più clamorosa, un colosso alto 58 metri e pesante 1320 tonnellate dedicato a Guan Yu dio della guerra e delle arti marziali e torreggiante sul parco omonimo di Jingzhou. 
Gli piace tenere un tono brillante: per esempio quando assicura che il suo polso è perfetto, la pressione pure, che ha «solo tre denti in meno» e che i capelli sono tutti suoi e del colore originale. L’anno scorso, per una lectio magistralis a Ca’ Foscari, conquistò gli studenti distribuendo schizzi al pennarello; probabilmente la faccenda si ripeterà stamattina quando gli verrà riconosciuta l’honorary fellowship dell’Università veneziana, e di sicuro ha un senso che il primo lancio occidentale in grande stile di un’artista cinese molto apprezzato da governo e connazionali parta dalla città di Marco Polo, dove lo studio delle lingue orientali non è una necessità degli ultimi anni ma una tradizione radicatissima, e dove, a occhio, l’80 per cento di chi sale in gondola arriva dalla Repubblica Popolare. Il mondo cambia, cambiano gli interlocutori economici, cambia il pubblico.
Gli chiediamo quali siano, fra le 200 opere esposte, quelle che a suo parere servirebbero meglio a spiegare i canoni orientali a un profano. Dice che non vuole rispondere alla domanda, e che insomma ci lascia liberi di scegliere. Mette però un accento particolare sul rapporto fra la propria arte e l’osservazione della natura: «L’artista deve essere come un bambino - suggerisce - che di suo non avrebbe paura o ribrezzo né di un serpente né di un topo». 
Certo i suoi cavalli e i suoi bovini, ispirati alle incisioni rupestri, in pannelli anche di notevoli dimensioni, lasciano il segno. Come i coloratissimi galli cedroni, quasi dei multipli, espressione di slancio e vivacità. Dalla laguna la mostra andrà lontano. Ma un nuovo appuntamento con Han Meilin è fissato per l’anno prossimo, in occasione della Biennale 2017, per un progetto legato al suo terzo museo cinese: quello di Yinchuan, situato in mezzo al parco archeologico dei monti He Lan. Perché tutto ha avuto inizio con i disegni e gli ideogrammi che, tanto tempo fa, qualcuno tracciò.
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