martedì 11 ottobre 2016

Il burattinaio del capitalismo straccione italiano: ricordo di Enrico Cuccia



Mediobanca, dietro le quinte del “salotto buono” 
Affinità e repulsioni nell’istituto che ha compiuto settant’anni e col suo regista Enrico Cuccia ha governato il capitalismo italiano SuNuova Antologiail racconto di un testimone 

Stefano Lepri Busiarda 13 10 2016
Enrico Cuccia era stato il grande regista del capitalismo italiano, per lunghi anni dal dopoguerra in poi, attraverso Mediobanca. Eppure al suo funerale, a Meina sul Lago Maggiore il 24 giugno del 2000, i capitalisti più importanti del momento non c’erano. Qualcosa era cambiato.
Erano presenti invece Antonio Fazio, allora governatore della Banca d’Italia, e Cesare Geronzi, allora presidente della Banca di Roma. Sì, «per mettere il cappello sulla sedia», commenta pungente Fulvio Coltorti, stretto collaboratore di Cuccia come capo dell’Ufficio studi, in un colloquio con Giorgio Giovannetti che appare sulla rivista Nuova Antologia per i 70 anni di Mediobanca.
Uno che alla cerimonia c’era, Cesare Romiti, aveva già dato una sua versione: fu Vincenzo Maranghi, amministratore delegato di Mediobanca e erede di Cuccia, «a stilare la lista di coloro che potevano partecipare ai funerali, e di quelli a cui invece era interdetto». No, non era invitato nessuno, tutti erano «abusivi», ribatte Coltorti, ora docente alla Cattolica di Milano.
I rapporti umani
La faccenda ha la sua importanza, dato che il «capitalismo di relazione», come è stato chiamato, era fatto anche di relazioni tra persone. Una rara uscita di Cuccia dalla sua riservatezza che Coltorti non riesce a condividere, forse la sua unica caduta di stile, fu appunto una lettera a favore di Romiti condannato per falso in bilancio nel 1997.
La prima e per molto tempo unica banca d’affari italiana fu affidata all’allora nemmeno quarantenne Cuccia nel 1946. Ma il periodo d’oro di Mediobanca (anzi «della Mediobanca» come si diceva nell’uso del tempo) va dagli Anni Sessanta, quando le imprese private non più trascinate dal boom si sentirono assediate dalla crescente presenza pubblica nell’economia, fino alla fine degli Ottanta.
Scegliere le persone era importante, in un capitalismo come quello italiano, povero di capitali e di manager. Racconta Coltorti: «Molto del lavoro di Cuccia riguardò proprio la ricerca di “talenti” dotati di visioni sufficientemente ampie e di competenze adatte». Mediobanca acquistava piccole quote azionarie per spingere gli azionisti all’accordo e stabilizzare gli assetti proprietari.
Nell’insieme dette buoni consigli, perché in quel periodo riebbe sempre indietro i soldi prestati («le perdite furono pari allo 0,001%»). Consigli finanziari però, talvolta gestionali, mai industriali in senso stretto: mancavano dentro Mediobanca gli ingegneri. Secondo Coltorti fu meglio così, guardando agli investimenti sbagliati finanziati dall’Imi che di ingegneri ne aveva.
Inevitabile che in quel «salotto buono della finanza italiana», così formatosi rinsaldando le proprietà esistenti, contassero parecchio i rapporti umani, affinità e repulsioni, simpatie e inimicizie. Ci sono scelte di persone al centro anche di alcuni errori importanti che a Mediobanca tradizionalmente vengono addebitati.
Era stato Cuccia a scegliere Eugenio Cefis per rimettere in piedi la Montedison in difficoltà nel 1971. Poi Cefis gli sfuggì, per allargare il suo potere mise le mani su giornali, mentre la cura sull’azienda «non fu risolutiva» e il bilancio tornò in rosso nel 1975. Dimessosi Cefis nel 1977 «senza consultarsi con Cuccia», Mediobanca ricorse a Mario Schimberni.
Ma dopo aver messo a posto i conti e consolidato l’azionariato, anche Schimberni sfuggì alla tutela, scalando la Fondiaria in opposizione a Mediobanca: nelle parole di Coltorti «questo fatto fu molto sofferto perché configurò per Cuccia la perdita di una grande impresa dopo averne realizzato il risanamento».
I protetti si svincolavano, mentre il potere democristiano tentava di penetrare in quello che considerava il fortilizio della «finanza laica» (Cuccia andava a messa tutte le mattine, ma certe appartenenze non si stabilivano sulla base delle convinzioni interiori). Così Mediobanca dovette soffrire, dal 1973 al 1985, un presidente imposto dall’esterno, Fausto Calabria.
«I voti si pesano»
Diversa, e intellettualmente ragionata, era la critica proveniente dalla sinistra Dc, con Nino Andreatta: Mediobanca era divenuta, con il suo sostegno alle strutture proprietarie esistenti, un ostacolo al buon funzionamento del mercato, perché sbarrava la strada a imprenditori nuovi. Coltorti respinge, sostenendo che l’esigenza primaria era difendere i privati dalla politica.
Il motto «le azioni si pesano e non si contano» (ossia i gruppi di controllo valgono più degli azionisti qualsiasi) non venne peraltro mai rinnegato. Cosicché alcuni pongono il termine ultimo del potere di Mediobanca alla legge Draghi del 1998, che impose l’offerta pubblica di acquisto (Opa) a salvaguardia dei piccoli azionisti.
Ma già prima il grande smacco per l’istituto milanese era stato di essere escluso dal business delle privatizzazioni, nel convegno del giugno 1992 sullo yacht Britannia. Fu quello «un poderoso aiuto di Stato» alle banche d’affari straniere, protesta Coltorti, organizzato da Mario Draghi allora direttore generale del Tesoro. 
E da quel momento le più fantasiose dietrologie complottistiche all’italiana cominciarono a prendere di mira Goldman Sachs e simili, non più Mediobanca. 
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