martedì 11 ottobre 2016

Il Crociato Battista difende i diritti umani da Assad e Putin mentre USA e Israele ammazzano chi vogliono in tutto il mondo


L’omertà sui misfatti dei nostri alleati
di Pierluigi Battista Corriere 10.10.16
Sono stati bravi i responsabili del museo Maxxi di Roma a presentare in questi giorni una mostra, «Nome in codice: Caesar», che documenta i crimini contro l’umanità compiuti nelle carceri siriane del nostro alleato Assad, sostenuto dal nostro alleato Putin. Però, una volta viste quelle immagini orrende, scordatevele: lo impongono gli imperativi del realismo politico che consigliano l’omertà sulle nefandezze dei nostri alleati contro il nemico principale, l’Isis. Non pensate troppo alla guerra di sterminio che l’alleato Assad ha scatenato contro il suo popolo, uccidendo circa 200 mila siriani, civili, donne, bambini, non affiliati allo Stato islamico. Fate come i Caschi blu dell’Onu quando c’era la mattanza a Srebrenica o quando un mare di sangue macchiava il Ruanda: giratevi dall’altra parte per non guardare, altrimenti si attenta alla saldezza della lotta comune contro il nemico principale. Non sottolineate troppo, per dire, che il piccolo Aylan era in fuga con la sua famiglia curda sia dai tagliagole Isis che dagli aguzzini del nostro alleato Assad. Non fate caso ai soliti portatori di cattive notizie che vogliono ricordare le terrificanti prigioni sotterranee di Assad sotto i monumenti di Palmira. Ora finalmente liberata: Palmira, per fortuna. Ma non i siriani torturati, per sfortuna.

Il realismo politico, unito alla paura (il nemico principale arriva sin qui, la tirannia di Assad si ferma lì e riguarda i siriani, non noi), comporta infatti uno sgradevole ma inevitabile effetto collaterale: la cancellazione di ogni interesse per la salvaguardia dei diritti umani fondamentali ovunque nel mondo. Fino a poco tempo fa si parlava dell’universalità di quei diritti, oggi invece è meglio lasciar perdere, e possiamo eccepire sulla democraticità dell’Egitto solo se a essere colpito è un nostro connazionale torturato a morte, sulla cui sorte non sapremo mai la verità. Del resto, non è che quando sei in guerra puoi metterti a sottilizzare sui tuoi alleati, non è che nella lotta contro Hitler si potesse fare attenzione ai Gulag di Stalin. Solo che a noi piace mettere in pace la coscienza e declamare col nodo in gola «mai più Auschwitz», «mai più Srebrenica», «mai più Ruanda». Ha scritto Lorenzo Cremonesi sul Corriere che ad Aleppo «vengono metodicamente attaccati» dal nostro alleato «ospedali, cliniche di fortuna, scuole, strutture comunitarie, abitazioni civili, condotte idriche, depositi di cibo». «Mai più Aleppo»? Non sia mai.


I sauditi nel pantano dello Yemen
Riad bombarda e fa stragi ma non vince. Perché? di Giordano Stabile La Stampa 10.10.16
Un Vietnam saudita. La guerra ai ribelli sciiti Houthi in Yemen si sta trasformando in un pantano che mina la credibilità di Riad e rischia di mettere in discussione la storica alleanza con l’America. Il bombardamento del funerale a Sana’a di sabato, con i suoi 140 morti e oltre 500 feriti, è di dimensioni tali da fare impallidire quelli russi ad Aleppo. Per Washington l’imbarazzo è doppio. Da una parte risulta sempre più difficile dare il suo sostegno a una operazione che non dà risultati tangibili sul piano militare e ha un costo esorbitante in vittime civili. Dall’altra risulta difficile chiedere all’Onu di imporre una no-fly-zone in Siria, in pratica distruggere l’aviazione di Assad, a «protezione della popolazione» e poi non fare nulla per gli yemeniti. La guerra in Yemen si è riaperta nel febbraio 2015 quando gli Houthi hanno cacciato il presidente Abd Rabbuh Mansour Hadi da Sana’a e preso il controllo di circa metà del Paese. Nel marzo l’Arabia saudita ha messo in piedi una coalizione di potenze sunnite (senza però riuscire a coinvolgere l’Egitto sul terreno) per sgominare la ribellione sciita. A un anno e mezzo di distanza l’unico successo di rilievo è la riconquista di Aden, storicamente fuori dall’area di influenza Houthi. Nel frattempo Al-Qaeda ha approfittato del caos e si è ritagliata ampie fette di territorio nell’Est, a Nord i guerriglieri sciiti sono passati al contrattacco, sono entrati nel territorio del Regno e minacciano il capoluogo di provincia Najran. Gli Houthi hanno il sostegno di parte dell’esercito rimasto fedele all’ex presidente Ali Abdullah Saleh, disarcionato dalla Primavera araba nel 2012, hanno messo le mani su un massiccio arsenale, comprese centinaia di missili balistici a medio raggio che colpiscono le basi saudite. Un missile ha anche centrato una nave emiratina, quattro giorni fa, mentre pattugliava il Mar Rosso per impedire l’arrivo di armi dall’Iran in uno dei due porti che i ribelli ancora controllano. Gli eserciti delle petromonarchie hanno i migliori armamenti al mondo ma truppe nella sostanza mercenarie con ufficiali dai natali principeschi. Di fronte si trovano un’armata di guerriglieri indurita da decenni di conflitti sulle montagne, che sopravvive con pochissimo, conosce alla perfezione il territorio e lo sfrutta al meglio per infliggere perdite insostenibili. Un Vietnam.

Obama, armi ai ribelli per fermare Putin in Siria
Il presidente americano sfida la Russia e dà una mano a Hillary Missili anticarro ai curdi. Il Cremlino rafforza la base di Tartus
di Giordano Stabile La Stampa 11.10.16
Si fa presto a dire «No fly zone» come ha detto ieri notte Hillary Clinton nel dibattito. La Siria di oggi non è l’Iraq del 1991 o la Libia del 2011. Saddam Hussein aveva armamenti sovietici di seconda mano. Bashar al-Assad ha il top della produzione russa, in campo missilistico in grado di competere con l’America. La costa di Lattakia e Tartus, e la fascia di territorio che va da Aleppo a Damasco, sono di fatto una provincia militare della Russia. Le difese aeree sono in qualità pari a quelle che proteggono Mosca o San Pietroburgo. La quantità non è la stessa e quindi è ancora possibile penetrarle ma il prezzo da pagare sarebbe probabilmente alto. Soprattutto se Putin convincerà Erdogan a restare per lo meno neutrale nel suo braccio di ferro con Obama.
«No fly zone» significa «tenere a terra» i cacciabombardieri siriani, cioè prendere il controllo dello spazio aereo. L’aviazione di Damasco ha ancora circa 300 aerei, compresi 80 Mig-29, 50 Su-22 da attacco al suolo, e circa 150 vecchi Mig-21. I russi hanno una cinquantina di Su-35, Su-34, Su-24, più una ventina di Su-33 sulla portaerei Admiral Kuznetsov. Ma il vero problema sono le difese anti-aeree: un battaglione russo di S400 (8 lanciatori ciascuno con 4 missili), quattro battaglioni siriani di S300 (pare gestiti dai «consiglieri» russi), una batteria di S300V4 anti-missili da crociera piazzata a Tartus per difendere la base aeronavale dai Tomahawk statunitensi. La base sarà ampliata e ieri l’accordo con Damasco per la presenza delle forze russe, che risale al 1971, è stato esteso «a tempo indeterminato».
Il punto debole dello schieramento russo è la quantità. Nel 2013 il generale russo Anatoliy Kornukov aveva avvertito che servivano «una decina di battaglioni di S300» per coprire il territorio siriano. In base alle informazioni ufficiali ce ne sarebbero 5 più una batteria. Sufficienti a fare scudo solo sulla Siria occidentale. Ma non se fossero attaccati da una soverchiante forza aerea occidentale. Se, per esempio la Turchia, con i suoi 400 fra caccia e aerei d’attacco, partecipasse all’operazione. La visita di ieri di Vladimir Putin ad Ankara, incentrata davanti al pubblico sugli accordi nel campo energetico e la firma per la realizzazione del Turkish Stream, è servita anche a tastare il polso dell’ex acerrimo nemico Recep Tayyip Erdogan, ora tornato su posizioni concilianti. Mentre lo schieramento dei missili nucleari Iskander a Kalinigrad serve a mettere sotto pressione la Nato in Europa centrale.
Stinger agli anti-Assad
La no-fly-zone era già stata evocata nell’autunno del 2011 e poi nell’estate del 2013, quando il regime era in condizioni molto peggiori. Le forze rivoluzionarie sono radicalmente mutate da allora, e ora sono dominate da gruppi salafiti e di ispirazioni jihadista come Jabat al-Fatah al-Sham (ex Al-Qaeda), Jaysh al-Islam, Ahrar al-Sham. Dopo l’intervento russo nel settembre 2015 Barack Obama ha acconsentito all’invio di missili anti-tank Tow ma non di missili anti-aerei Manpads, per timore che finissero nella mani di Al-Qaeda o dell’Isis. Ne sono arrivati di fabbricazione cinese ma ora per la prima volta ci sono, secondo l’analista del Middle East Institute Charles Lister, «forniture regolari» attraverso i valichi di frontiera con la Turchia nella provincia di Idlib.
I Manpads però non possono colpire oltre i 5 mila metri di quota e finora hanno abbattuto due Su-22 che volano bassi per individuare gli obiettivi al suolo. Dalla rottura della tregua, il 19 settembre, i ribelli avrebbero ottenuto «tremila tonnellate» di armamenti. Difficile però che possano cambiare le sorti della battaglia ad Aleppo, dove 6 mila combattenti, metà jihadisti, sono circondati. Serviranno per l’incombente battaglia di Idlib, che l’esercito vuole riconquistare subito dopo. Assad è saldo in sella come non mai negli ultimi cinque anni. La Turchia si sta allineando alla Russia, l’Iraq è un alleato chiave nell’asse Teheran-Baghdad-Damasco.
Una Tartus egiziana
E poi c’è l’Egitto di Abdel Fateh Al-Sisi. Il raiss egiziano è in sintonia con Putin sulla Libia, con il sostegno al generale Khalifa Haftar, e sempre di più sulla Siria. Ieri l’Arabia saudita ha minacciato la sospensione delle forniture di petrolio al Cairo (mezzo miliardo al mese) per il sì egiziano alla risoluzione russa all’Onu. Si rischia un altro valzer di alleanze e, secondo la Tass, ci sarebbero discussioni avanzate per riportare gli aerei russi nell’ex base sovietica di Sidi Barrani. Una Tartus egiziana.

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