venerdì 14 ottobre 2016

Il Matteo Quotidiano



Arturo Parisi,  fondatore dell’ulivo e ex ministro

“Il No? Un’alleanza tra chi odia il premier e chi vuole solo ritornare al passato”

intervista di Giovanna Casadio Repubblica 14.10.16
ROMA. «Vedo una grande spinta a tornare indietro. C’è un’alleanza tra quelli che non vogliono altro che la fine di Renzi e quelli che pensano sia meglio tornare al passato». Arturo Parisi, ex minsitro della Difesa, il professore che, con Romano Prodi, fondò l’Ulivo, avverte del rischio.
Professor Parisi, il Pd compie nove anni e siamo al momento del commiato da parte della sinistra dem?
«Nove anni dalle primarie che elessero Veltroni. Quasi diciassette da quando come Democratici, all’insegna dell’Asinello scalciante, proponemmo, proprio su Repubblica, di scioglierci tutti in un nuovo partito, il Pd. Sembra un secolo. E dovremmo tornare ancora una volta alla prima casella?
Ma secondo lei c’è il rischio scissione?
«Strada ne abbiamo fatta. Tuttavia, anche se sempre meno, ci sono ancora alcuni come Bersani e i suoi che indugiano alla partenza chiedendo di aspettarli»..
Alla gente , dice Renzi, interessa assai più la pastorizia che il caso Pd e le leggi elettorali: insomma è una sfida autoreferenziale?
«Autoreferenziale se i politici si parlano solo tra di loro. La vera sfida sta nello spiegare ai cittadini come le regole influiscono sulle decisioni. Comunque non si tratta di spiegare ai pastori, che anche se fanno un’attività arcaica, sono informatissimi. Renzi può starne sicuro » Lei voterà Sì al referendum, l’ha già detto. Ma come giudica questo scontro all’Ok Corral? Se il Sì perde sarà l’apocalisse, l’instabilità per il Paese?
«Non catastrofe, ma apocalisse nell’antico senso di disvelamento. Esattamente come accadde per il divorzio o per la scelta repubblicana il referendum strapperà il velo che copre la nostra realtà più profonda e ci dirà in che misura l’Italia è già cambiata più che quanto intende cambiare. Ci dirà quanta parte del Paese è ancora disposta ad assistere impotente alla eterna concordia discorde del ceto politico, a questa stabile instabilità che ogni dieci mesi ci promette con un nuovo governo un nuovo futuro. È il momento che tutti quelli che sono dalla parte del cambiamento partecipino e facciano sentire la loro voce».
Il referendum costituzionale è diventato un giudizio su Renzi e il governo? Sono stati commessi errori in questa campagna referendaria?
«Ci sono stati errori e continuano a esserci. Una eccessiva confusione appunto tra il chi e il che cosa. Ma la denuncia della personalizzazione a questo punto rischia di diventare stucchevole. È il momento di correggere definitivamente toni e comportamenti per concentrarci sull’oggetto e solo su quello, alleggerendoci dall’ossessione su chi comanda oggi e pensando al domani, anzi al dopodomani . Quella che ci attende è una scelta storica, che deciderà del nostro futuro, dentro ogni partito certo, ma soprattutto di quello del Paese».
Come giudica il fronte eterogeneo che da D’Alema a Fini si organizza per il No?
«Un’alleanza tra quelli che non vogliono altro che la fine di Renzi e quelli che pensano sia meglio tornare al passato».
Contro il progetto renziano, nel timore di una deriva a destra e del partito della nazione, l’ex segretario dem Bersani si appella proprio all’Ulivo.
«La verità è che dietro lo stesso nome Ulivo ci son state purtroppo dall’inizio idee diverse. Se il mio Ulivo è in gran parte ormai un passato, dietro il suo Ulivo si intravede ancora oggi il trapassato. È per questo che, esattamente in questi giorni, diciotto anni, fa il nostro Ulivo fu sciolto a seguito della convergente iniziativa politica di Cossiga e D’Alema».
Si aspettava che la riforma costituzionale potesse dividere tanto?
«Non mi meraviglia. I toni e il rispetto reciproco vanno salvaguardati sempre, ma ogni decisione, soprattutto di questo rilievo, fa rima con divisione». 
Il ritorno degli ex (grandi e piccoli) Il fronte del NO, l’Alleanza

Il ritorno della Prima Repubblica nella battaglia del 4 dicembre
L’asse tra D’Alema, gli ex dc e gli eredi del Msi. Ma Casini sta con il leader dem

di Aldo Cazzullo Corriere 14.10.16
Nella battaglia per il referendum avanza un plotone di uomini nuovi che si candida ad aprire una nuova stagione. Che assomiglia sempre più alla vecchia.
Avanza un plotone di uomini nuovi, e si candida ad aprire per il Paese una nuova stagione. Che assomigli il più possibile alla vecchia, quando erano tutti più felici e contenti.
Ci sono ovviamente i democristiani, che nella Prima Repubblica del proporzionale — e del debito pubblico — hanno prosperato. Attivissimo un uomo che del rigore di bilancio ha fatto una ragione di vita: Paolo Cirino Pomicino. Ma anche il suo antico rivale De Mita — «Ciriaco, io frequento gli stessi amici che frequenti tu; solo che tu li vedi a pranzo, e io li vedo dopo a cena» —, sempre disponibile a un pensoso «ragionamendo» il cui succo è: indietro tutta. Gli andreottiani sono rappresentati da un altro volto fresco: Lamberto Dini. Con agilità da toreri, i neodemocristiani di Lorenzo Cesa, dopo aver approvato la riforma in ogni votazione parlamentare, al referendum la bocceranno. Al fianco di Renzi sono rimasti solo Casini e i suoi cari. E il fronte del No ricompatta anche la diaspora socialista, dall’antico staff di De Michelis — Brunetta e Parisi — a un altro cognome mai sentito: Bobo Craxi, per una volta d’accordo con la sorella Stefania.
Poi ci sono i postcomunisti, anche loro venuti da lontano. Nella Prima Repubblica Massimo D’Alema era capogruppo alla Camera del Pci-Pds, nelle cui fila militavano giuristi come Cesare Salvi e Guido Calvi, oggi richiamati in servizio. Tra i costituzionalisti si delinea la frattura generazionale: se i «giovani» Ceccanti e Clementi sono per il Sì, gli ex presidenti della Corte costituzionale — in Italia categoria ormai più numerosa dei metalmeccanici — sono quasi tutti per il No. Come Rodotà e Tocci, Ingroia e la «Magna carta», ambizioso nome di un’associazione che deve accontentarsi di essere presieduta da Quagliariello.
L’ex Movimento sociale è rappresentato da Altero Matteoli, da Maurizio Gasparri coi suoi tweet e da un altro homo novus : Gianfranco Fini. Uno che nell’estate 1999 fece saltare le ferie ai suoi colonnelli per raccogliere le firme sull’abolizione della quota proporzionale, e ora si ritrova al fianco di chi reclama il ritorno al proporzionale purissimo. Del resto «la democrazia non è vincere», come ha detto Gustavo Zagrebelsky: è rappresentare. Mediare. Costruire consenso. Non a caso ancora nel 1992, alle ultime elezioni della Prima Repubblica, il quadripartito raccolse un sontuoso 49% e la maggioranza assoluta dei parlamentari; ancora non sapeva che gli restavano pochi mesi di vita, scanditi dalle bombe di Palermo e dagli arresti di Milano.
Dall’altra parte, chi vagheggiava l’avvento della Terza Repubblica è rimasto isolato. L’errore tattico di Renzi non è stato solo personalizzare il referendum; è stato farlo. Ansioso di essere legittimato, ha finito per delegittimarsi. Convinto ancora di vivere nel Paese del 41%, ha creduto di rafforzare il Sì offrendo la propria testa agli elettori; ha ottenuto l’effetto contrario, oltretutto su una battaglia che non era la sua.
Portare in fondo le riforme era il pedaggio pagato a Napolitano per ottenere la defenestrazione di Letta: Renzi prometteva di riportare al tavolo Berlusconi, e in una prima fase c’era pure riuscito. Poi, al momento di eleggere il nuovo inquilino del Quirinale, ha preferito ricompattare il suo partito sul nome di Mattarella, rompendo con Forza Italia. Ma ora, per la prima volta, è stato Bersani a fregare Renzi, e non il contrario come d’abitudine. La sinistra Pd prima ha ottenuto di peggiorare la riforma in cambio del suo Sì — il premier pensava a un Senato di sindaci, e ha dovuto puntare sui consiglieri regionali, vale a dire la classe «dirigente» più screditata d’Italia —; e ora, fiutato il vento di vittoria, voterà No.
Resta da capire se Berlusconi schiererà davvero il suo impero mediatico — che è lì, intatto — nella campagna contro Renzi. A giudicare dalle confidenze di Fedele Confalonieri a Francesco Verderami del Corriere , non si direbbe. Al fondatore di Forza Italia il proporzionale non dispiace, e questo è il suo unico punto di contatto con Grillo; dal quale per il resto è terrorizzato. La penultima speranza di Renzi è che Berlusconi non si impegni a fondo contro di lui. L’ultima è che D’Alema organizzi presto un’altra bella riunione di reduci della Prima Repubblica. 

L’enigma del Senato che verrà
di Antonio Polito Corriere 14.10. 16
Tra meno di due mesi dovremo votare sul nuovo Senato, ma ancora non sappiamo come saranno scelti i nuovi senatori. In realtà non sappiamo ancora con certezza nemmeno come saranno eletti i futuri deputati, visto che tutti assicurano che l’Italicum sarà cambiato, o da una sentenza della Consulta o da una nuova legge del Parlamento, o da entrambe. Ma per Montecitorio almeno una legge c’è. Invece non c’è una legge elettorale per il nuovo Senato.
Ecco un punto sul quale bisognerebbe dare qualche indicazione chiara agli elettori, soprattutto da parte di coloro che giustamente insistono perché la riforma sia giudicata «nel merito». Il testo della nuova Costituzione non scioglie infatti l’enigma. In un comma dice con chiarezza che sono i consigli regionali a eleggere i 95 senatori (altri 5 possono essere nominati dal capo dello Stato). Ma in un altro comma si è aggiunto in extremis, al termine di una lunga trattativa con la minoranza pd, una frase secondo la quale i consigli regionali dovranno sì eleggere i senatori tra i loro membri, ma «in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri». Che vuol dire? In che modo gli elettori potranno esprimere la loro preferenza? E alla fine decide sempre il consiglio regionale?
In tutti i sondaggi di opinione questo punto dell’elezione indiretta risulta il meno gradito della riforma, e di solito coagula una netta maggioranza di contrari, mentre molti altri punti sono approvati.
È comprensibile che l’elettore si fidi più del suo voto che di quello dei consiglieri regionali, un personale politico che non ha dato prove eccezionali in questi anni. In più, siccome la riforma riduce i poteri delle Regioni a vantaggio dello Stato, esprimendo così un giudizio negativo forse meritato sulla legislazione regionale, si domanda perché mai il Senato debba poi essere fatto di consiglieri regionali; i quali tra l’altro acquisiranno le stesse guarentigie dei deputati nei casi di richiesta di arresto, perquisizione o uso delle intercettazioni.
Sarebbe dunque interesse di chi sostiene il Sì chiarire come saranno scelti i senatori. Nell’ultima direzione del Pd il premier Renzi ha detto che ora accetterebbe il vecchio disegno di legge Chiti-Fornaro della minoranza pd (ammesso che sia ancora compatibile con la nuova Costituzione) ma che il Parlamento non può occuparsene fino al giorno dopo l’eventuale vittoria del Sì al referendum, perché prima di allora il nuovo Senato non esiste. Corretto. Però dal motore primo della riforma, il governo, sarebbe lecito attendersi almeno una chiara ed esplicita indicazione, prima del voto, del metodo che propone per selezionare i nuovi senatori.
Anche perché la vittoria del Sì non chiuderebbe i giochi. Innanzitutto come abbiamo visto ci vuole una legge elettorale nazionale, e ci vuole entro la fine della legislatura. Ma poi, una volta varata, bisognerà che si adeguino ad essa le venti leggi elettorali regionali. E nemmeno tutto questo lavoro risolverà ogni dubbio che resta sui nuovi senatori. Per esempio: la riforma dice che saranno eletti «con metodo proporzionale». Ma in dieci Regioni (o Province autonome) saranno soltanto due: come si fa ad applicare il metodo proporzionale in questi casi? O si sovrastima la maggioranza (due a zero), o si sovrastima l’opposizione (uno a uno) o viene escluso il terzo incomodo (che ormai c’è in molte Regioni, causa tripolarismo).
Questi senatori sono «rappresentativi delle istituzioni territoriali», come dice la riforma, o dei partiti che li hanno eletti «con metodo proporzionale»? I senatori della Campania voteranno cioè insieme, o ognuno con il suo partito? Nel secondo caso il sistema proporzionale rischia di non dar vita a una maggioranza, aprendo un serio problema in tutte le non poche materie nelle quali il Senato continuerà a fare le leggi insieme alla Camera.
Resta infine la questione dei soldi. Che ha assunto rilievo costituzionale perché la riforma stabilisce che i nuovi senatori non riceveranno un’indennità. Dovranno però viaggiare, soggiornare a Roma, prendere pasti, nei giorni in cui lasceranno il loro lavoro di consigliere regionale o sindaco per dedicarsi a quello di senatore. Chi pagherà le note spese? Segnaliamo il problema perché sugli scontrini dei consiglieri regionali, per così dire, abbiamo già dato.

Dopo referendum lo stop del Quirinale a chi pensa alle urne

Le tentazioni incrociate: renziani pronti alle elezioni pure se vince il No, gli oppositori per un altro governo

di Goffredo De Marchis Repubblica 14.10.16
ROMA. Il Paese è diviso e spaccato a metà, più o meno. Così dicono i sondaggi sul referendum costituzionale. Per questo Sergio Mattarella ricorda a tutti gli italiani, soprattutto a quelli, i politici, impegnati nella campagna elettorale, che c’è anche un 5 dicembre: se vince il No non verrà il diluvio universale (versione renziana del voto) e se vince il Sì non nascerà una dittatura 2.0 (la versione degli oppositori del premier). Le parole del presidente della Repubblica pronunciare l’altro ieri a Bari sono calibrate su questo messaggio di fondo. «Serve rispetto reciproco - ha detto il capo dello Stato prima e dopo la consultazione. Alla fine conterà l’interesse comune e la Costituzione stessa, così come sarà sancita dalla volontà popolare».
Ma al Quirinale arriva l’eco delle ipotesi in campo sul dopo voto. I renziani pensano alle elezioni anche in caso di vittoria del No, precedute da un governo di pochi mesi per la riforma della legge elettorale. Gli oppositori della nuova Carta immaginano già una crisi di governo che escluda Renzi da Palazzo Chigi. A entrambi i fronti il capo dello Stato dice, in sostanza, che nessuno potrà determinare un esito che è ancora tutto da scrivere. Una posizione di perfetto equilibrio alla vigilia del rush finale di una campagna che, come osserva Roberto Speranza, è tanto aspra «anche perchè è la più lunga della storia italiana. Partita a maggio durante le amministrative finirà a dicembre. Un record». Un modo per richiamare tutti alla serenità dei toni e degli argomenti. Ma guardare al 5 dicembre, il lunedì successivo al voto, significa anche ricordare che certo ci sarà una Costituzione, ma anche un presidente della Repubblica e toccherà al Quirinale tirare i fili del post-referendum. Da giorni, i sostenitori del No battono sul tasto delle elezioni anticipate. In caso di vittoria, Renzi punterà a capitalizzare l’onda del consenso, userà l’argomento del lavoro finito, del percorso riformatore condotto in porto che giustifica un governo non eletto, per correre alle urne nella primavera del 2017. Lo ha detto Pier Luigi Bersani, lo ha ripetuto Massimo D’Alema, la minoranza del Pd è sicura che il premier userà anche un altro argomento. Come fa a reggere un anno e mezzo di legislatura un Senato che fa le leggi e dà la fiducia con una Carta, in vigore, che gli ha tolto questi poteri, fatte salve le norme transitorie?
Questo possibile scenario, al netto delle dichiarazioni da campagna elettorale, è ben chiaro al Quirinale. Non è solo una voce che arriva dal fronte contrario al premier-segretario. Tanti renziani, in questi giorni, hanno parlato di questa ipotesi nei loro colloqui privati. In caso di vittoria del Sì si potrebbe aprire un confronto tra Palazzo Chigi e il Colle per verificare la tenuta della legislatura. Sapendo che Mattarella, come tutti capi dello Stato, punta alla conclusione naturale dei 5 anni di legislatura.

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