domenica 9 ottobre 2016

In nome del "merito" e dei "cervelli in fuga" il governo sta per lanciare la battaglia finale per privatizzare l'Università italiana

 Atenei, il piano contro gli abusi
Non sono io ma riviste come “Nature” a mettere in relazione ingiustizie e fuga dei cervelli Ora contrasteremo questi fenomeni in maniera decisa coinvolgendo il Miur, i rettori, i docenti e gli studenti
di Raffaele Cantone Repubblica 7.10.16
CARO direttore, un mio recente intervento all’Università di Firenze ha prodotto reazioni contrastanti e in qualche caso sproporzionate, sia rispetto alle mie affermazioni, sia rispetto ai problemi che affliggono le università italiane. In quella occasione, al termine di un intenso dibattito sul fenomeno in generale e sugli strumenti per contrastarlo, avevo richiamato situazioni di corruzione o di cattiva amministrazione segnalate all’Anac.
E AVEVO svolto qualche considerazione sulle conseguenze che queste situazioni producono. L’opinione pubblica infatti non percepisce più la corruzione soltanto nel senso giuridico di reato contro la pubblica amministrazione, ma come un danno che viene fatto alla collettività, azzerando la competitività e il merito.
Semplificando, due sono state le principali reazioni. Da un lato si è provato a sdrammatizzare, arrivando sostanzialmente a negare la rilevanza del fenomeno («ma che corruzione; i problemi sono altri, a cominciare dalla scarsità di risorse») e a chiedere, persino, che io ritrattassi. Dall’altro si è giunti alla conclusione che tutta l’università italiana è corrotta, che il male è endemico e incurabile.
La tesi della sdrammatizzazione non è tipica del solo mondo accademico: l’esperienza dell’Autorità che presiedo evidenzia come la prima reazione della burocrazia è quella di negare il problema («noi siamo immuni rispetto alla corruzione»). Se, però, li si guida nell’analisi della vulnerabilità al rischio corruttivo, il discorso cambia e diventa percorribile (e condivisa) la ricerca di misure efficaci di contenimento. Un lavoro che stiamo facendo, analizzando i piani di prevenzione della corruzione e stilando il nuovo piano triennale, con risultati giudicati positivi, nella sanità e in altri settori “caldi” della pubblica amministrazione.
Nello specifico universitario, però, non mi pare affatto realistico circoscrivere, come eccezionali, i fenomeni del “nepotismo” o della presenza di situazioni di conflitto di interessi, tanto più rilevanti in quanto rischi “connaturati” ad ambienti retti dalle regole dell’autonomia e della valutazione affidata a  componenti della comunità scientifica.
I fenomeni non riguardano certo l’intero mondo universitario, ma sono purtroppo radicati e valgono, sia pure in percentuali minoritarie, a condizionare negativamente il concreto funzionamento degli atenei e la loro immagine esterna.
Inoltre, la connessione tra corruzione e “fuga dei cervelli” - che tanto ha scatenato la protesta di alcuni docenti - non è (purtroppo) una mia idea estemporanea, ma il frutto di studi internazionali riportati su una rivista di valore indiscusso ( Nature) che non dovrebbe certo essere ignota ai ricercatori del nostro Paese. Quegli studi dimostrano come ambienti in cui la selezione (delle persone e dei progetti di ricerca) non premia effettivamente (e in modo riconosciuto) il merito scientifico, decadono, si chiudono in una dimensione provinciale e vengono abbandonati dai migliori talenti. Nessuno mette in discussione la capacità dei nostri atenei di produrre “cervelli” di eccellente qualità ma questo (purtroppo) non significa che essi siano poi premiati, nella carriera universitaria e nell’accesso ai finanziamenti.
Non condivido affatto nemmeno la reazione opposta che non va affatto nella direzione che le politiche anticorruzione vogliono produrre. Dipingere l’intero sistema come inguaribilmente corrotto oltre ad essere un falso, spinge a credere che non ci sia più nulla da fare e fornisce argomenti a chi, anche per un diffuso atteggiamento demagogico e antiscientifico, mira nella sostanza a ridimensionare il ruolo delle nostre università.
So bene, invece, sia per avere figli che studiano all’Università sia per essere titolare di un incarico (gratuito) di docenza che la scarsità delle risorse è forse uno dei maggiori problemi, imponendo ai tanti ricercatori onesti enormi sacrifici non adeguatamente retribuiti e spingendo altri a trovare sistemazioni migliori.
Ma mi chiedo – e questo era il senso del mio intervento fiorentino – non è forse il modo migliore per ripristinare immagine, credibilità e prestigio dell’Università e di conseguenza chiedere con forza a Governo e Parlamento di investire di più, quello di poter dimostrare che i migliori faranno carriera, che nepotismo e baronato sono relegati al passato e che i fondi saranno spesi virtuosamente? Non è nascondendo la spazzatura sotto i tappeti che si farà il bene della nostra università!
Nella logica propositiva che caratterizza il ruolo dell’Anac, vogliamo provare a fare la nostra parte. Non chiediamo nuove leggi; vogliamo, invece, contribuire a far applicare quelle che ci sono, senza aggiramenti – come è avvenuto in qualche caso con riferimento ai sacrosanti divieti introdotti dalla legge Gelmini per evitare favoritismi fra parenti – per perseguire la massima trasparenza nelle scelte più rilevanti che le comunità scientifiche sono chiamate a svolgere nell’interesse del paese.
L’occasione potrà essere il nuovo Piano nazionale anticorruzione 2017 che dedicherà un capitolo a questo tema, provando a suggerire alle università misure concrete di contrasto: misure che poi ciascuna di esse dovrà adattare alla propria situazione organizzativa. Il tutto non con una logica autoreferenziale, ma coinvolgendo attivamente Ministero, rettori, atenei, professori, ricercatori e studenti.

Università Un cambio di paradigma per reclutare i docenti
di Dario Braga Il Sole 8.10.16
Edvard e May-Britt Moser sono marito e moglie, lavorano insieme, e insieme hanno avuto il Nobel per la medicina nel 2014. Il comitato dei Nobel non ha evidentemente un “codice etico” che impedisce di assegnare il più alto riconoscimento scientifico a marito e moglie. E non è certo la prima volta. Fu così per Gerty and Carl Cori (1947) e per Frédéric Joliot e la moglie Irène Curie (1935), per altro figlia di Marie Curie che il Nobel lo aveva avuto insieme al marito Pierre nel 1903. E poi ci sono padri e figli, come i Bragg (1915), e i Bohr (Niels nel 1922, e Aage nel 1975), e i Siegbahn (Manne nel 1924 e Kai nel 1981) e potrei proseguire. Insomma, padri e figli, mogli e mariti. Raffaele Cantone, nella sua recente intervista, molto citata, ha richiamato alcuni problemi della nostra accademia (scambi di cattedre, cognomi ricorrenti, segnalazioni sui concorsi) che non sarò certo io a negare.
Il comitato per il Nobel però dimostra che essere figlio di scienziati non è garanzia di eccellenza, ma nemmeno garanzia del contrario. Così come essere marito e moglie non è garanzia di favoritismo, o “presunzione di favoritismo”. Anzi, in altri Paesi il reclutamento di coppie di studiosi o di scienziati è prassi consolidata. Rappresenta persino una convenienza, non foss’altro perché aumenta la probabilità che una coppia di valore rimanga più a lungo di uno/a scienziato/a con famiglia altrove.
Da noi? Da noi le università hanno codici etici (ex legge Gelmini) così stringenti da far sì che persino due borsisti – se marito e moglie – non possano ambire ad avere posti di ricercatore a tempo determinato nello stesso dipartimento, per non parlare di promozioni di carriera. A quei giovani che incontrassero il partner di vita all’università, magari perché legati da quella passione bruciante che spinge a lavorare “round the clock” per ottenere un risultato di ricerca, oggi andrebbe seriamente detto «non pensateci nemmeno a sposarvi, la vostra avventura insieme sarebbe interrotta». Si sa… l’italiano è incline al favoritismo e norme così rigide si giustificano con la necessità di contrastare comportamenti scorretti.
Eppure, nonostante le regole concorsuali e i codici, Cantone ci informa che le denunce non diminuiscono.
E se provassimo a cambiare approccio? Se, per una volta, la smettessimo di affidare alle norme e ai codici il compito di sorreggere l’etica? Un’azienda assume un buon gestionale, una banca un buon economista, una squadra di calcio un buon calciatore, non perché sia eticamente corretto ma perché è funzionale al raggiungimento degli obiettivi. Smettiamo di pensare che assumendo per concorso pubblico per titoli ed esami si garantisca qualità ed equità. Non è così. L’unica vera garanzia che si dà – se la procedura concorsuale è stata condotta correttamente – è la blindatura burocratica alla decisione presa, buona o cattiva che sia. È un cambio di paradigma: dalla correttezza formale alla responsabilità sostanziale. Le norme e le prassi devono spingere a rendere conveniente promuovere e assumere i migliori facendo sì che chi opera la scelta lo faccia alla luce del sole mettendoci la faccia. Il corollario però è che bisogna anche essere in grado di attrarre i migliori. “Là fuori”, in Europa, c’è un mercato fluido dove si spostano i ricercatori, dove i curricula si nutrono di scambi ed esperienza. Quando uno/a si ferma è perché ha trovato le condizioni per poter realizzare il proprio progetto di ricerca, che, a volte, è anche un progetto di vita. I nostri ricercatori entrano facilmente in quel circuito ma il nostro paese ne è largamente escluso.In questa logica va vista anche la “fuga dei cervelli”. Fenomeno che affrontiamo più o meno con lo stesso spirito con il quale si guarda ai migranti che approdano nel nostro paese. “Brain drain” non si traduce con “fuga”, si traduce con prosciugamento, depauperamento, salasso. Molti dei nostri ricercatori più motivati trovano altrove quello che, semplicemente, qui nessuno è in grado di offrirgli: il riconoscimento del proprio valore e la concreta possibilità di mettere alla prova le proprie idee in una vasta competizione internazionale. Fino a quando il nostro paese riserverà alla ricerca risorse residuali e fino a quando tratterà le carriere dei ricercatori come un impiego intercambiabile in cui uno vale l’altro, i nostri ricercatori, accuratamente preparati da noi, continueranno ad essere attratti altrove.
L’autore è Presidente dell’Istituto Studi Superiori dell’Università di Bologna

Gli studenti e la protesta come un rito
di Sabino Cassese Corriere 8.10.16
La protesta degli studenti: un rito che si ripete da un cinquantennio. Una volta si scendeva nelle strade per Trieste italiana. Ora la protesta è motivata dalle più diverse ragioni, grandi e piccole, vicine e lontane: istruzione gratuita (ma bisogna cercare i mezzi per farvi fronte, dove non lo è già, come nell’università); istruzione di qualità (anche questa una giusta richiesta, ma non si può avere dall’oggi al domani; c’è bisogno di un ventennio per realizzarla); diritto allo studio (richiesta ragionevole, anche perché garantita dalla Costituzione); rifiuto della scuola azienda e del preside manager (ma questi non vanno condannati, perché sono i mezzi per assicurare l’autonomia degli istituti scolastici pubblici e abbandonare il centralismo); critica della privatizzazione dei luoghi del sapere (ma non è meglio assicurare il fine pubblico e realizzarlo con strumenti privatistici, invece che in modi burocratici?); no alle diseguaglianze di fatto (lo disse tra i primi Karl Marx, e, nonostante tanti sforzi, sappiamo che è ancora un obiettivo lontano, che costerà lacrime e sangue); no a Renzi (in Italia c’è libertà di opinione e la Costituzione garantisce che le forze politiche, con metodo democratico, competano). Insomma, c’è tanta energia nelle richieste studentesche, ma anche tanta confusione tra speranze smisurate e speranze ragionevoli (la distinzione è di uno dei nostri maggiori storici della filosofia, Paolo Rossi).
L a protesta studentesca è inoltre prigioniera di due miti, quello per cui pubblico è buono, privato cattivo; e quello per cui bisogna scendere per strada, bloccare il traffico, danneggiare proprietà private e pubbliche, per farsi ascoltare. Tanti sprechi e soperchierie pubblici, tante inefficienze, tanti guasti prodotti dal burocratismo e dall’ignavia di gestori pubblici non hanno ancora convinto i nostri studenti che non si può opporre privato a pubblico, che è sbagliato ritenere il primo regno del male, il secondo regno del bene. Gli abusi della libertà di riunione, di quella di manifestare nei luoghi pubblici, i danni conseguenti, i disagi provocati a cittadini incolpevoli, non hanno ancora insegnato che la competizione «con metodo democratico» comporta anche il rispetto dei diritti degli altri e il senso del limite.
È un peccato che questo senso del limite non sia entrato nello stile della protesta studentesca, perché questa troverebbe maggior ascolto. Essa ha radici comprensibili. È indicatore di un disagio di chi studia (e lavora) nella scuola, perché l’autonomia scolastica è rimasta una promessa, i mezzi sono pochi e le strutture obsolete, non esiste un sistema di istruzione ricorrente degli adulti, i governi che si sono succeduti non hanno avuto una politica scolastica. Rivela una preoccupazione, quella sul futuro. La generazione cresciuta negli anni del miracolo viveva molto peggio, ma aveva dinanzi a sé un futuro migliore. Quella di oggi vive meglio, dispone di più mezzi, ma sa di avere dinanzi un futuro incerto, perché la attende un’epoca di insicurezza.
È questo il messaggio della protesta, e su questo sarebbe utile oggi riflettere, per cercare rimedi ragionevoli, senza coltivare smisurate speranze.

De Masi: «Bravissimi a protestare, io toglierei il numero chiuso»
Il sociologo sulle agitazioni studentesche. L'Italia deve tornare a investire sull'istruzione, costruiamo tante aule. Bastano i prefabbricati, con un computer e un proiettore. Le società più avanzate sono quelle che hanno finanziato la formazione. Il nostro Paese invece è fermo al 13% di laureati. Gli 80 euro? Bisognava spenderli tutti sulle università di Antonio Sciotto il manifesto 8.10.16
«Bravissimi. Ottimo, ottimo. Hanno ragione da vendere». Il sociologo Domenico De Masi, esperto di lavoro e organizzazioni, promuove le proteste dei giovani italiani per il diritto allo studio. E individua pochi ingredienti, semplici, per rilanciare non solo l’istruzione, ma l’intero Paese: «Dobbiamo togliere il numero chiuso all’università, e costruire più aule: bastano anche prefabbricate, quelle che si danno in genere ai terremotati. L’importante è avere un portatile e un proiettore. Prima di qualsiasi altra riforma, si deve abbattere l’ignoranza. L’Italia oggi è bloccata perché almeno dagli anni Ottanta non investiamo più su scuola e ricerca».
Cosa è accaduto, cosa ci ha impedito di crescere?
Il sociologo Domenico De Masi
Il sociologo Domenico De Masi
Negli anni Ottanta alcune aree del mondo hanno compreso che il loro futuro sarebbe dipeso da conoscenza e innovazione e quindi hanno cominciato a puntare tutto sulla formazione: oggi, a 40 anni di distanza, ci ritroviamo non soltanto Stati, ma spesso anche singole città o regioni che presentano salari alti, bassa criminalità, una elevata percentuale di votanti alle elezioni e qualità della vita, forti dosi di attività culturali. Dall’altro lato, proprio accanto a queste realtà, magari a un’ora di macchina, c’è chi non ha investito in formazione: e ai nostri giorni registra così alti tassi di criminalità e bassa presenza alle urne, stipendi inadeguati e attività culturali povere, numerosi divorzi. C’è uno studio molto interessante di Enrico Moretti, economista a Berkeley, che analizza proprio il rapporto tra diversi distretti degli Usa: Boston, San Diego o Santa Barbara sono molto più avanzate di città non troppo distanti geograficamente. E analogamente, su un’altra scala, mentre Seul, Bangalore e San Francisco triplicavano le infrastrutture istruttive, università, laboratori di ricerca, noi in Italia le abbiamo praticamente distrutte.
Dove legge la maggiore evidenza di questo gap?
Soprattutto nella percentuale di laureati: in Italia è al 13%, come in diversi paesi africani, mentre nelle aree più avanzate del mondo siamo al 50%. Su 100 giovani in età universitaria, in Corea del Sud studiano in 96, negli Usa 94, e in Italia solo 36. Di questi 36, solo 22 arriveranno alla laurea triennale e 16 alla quinquennale.
Come si può fare per elevare quella percentuale?
Per un verso farei come in Germania, che da due anni ha eliminato le tasse universitarie. La stessa Hillary Clinton si è posta questo obiettivo nel suo programma. In italia al contrario le tasse aumentano, ma alla fine il problema non è neanche questo: la vera assurdità è aver introdotto il numero chiuso, una follia di cui voi giornalisti non vi state interessando. Ai test di ingresso di due settimane fa si sono presentati 300 mila giovani per 98 mila posti. Questo vuol dire che oltre 200 mila ragazzi italiani non potranno studiare. A Napoli, nelle facoltà scientifiche si sono presentati 3 mila concorrenti per mille posti. Il Policlinico ha creato un corso di laurea in inglese, ma solo con 31 posti a fronte di 300 candidati. I 270 ragazzi che non entreranno sono disposti insomma a studiare in inglese pur di potersi laureare in medicina, ma dovranno iscriversi a una facoltà per cui non provano interesse, o andranno a ingrossare i numeri dei cosiddetti Neet, i giovani che non studiano né lavorano.
Come mai l’Italia è arrivata a dover limitare gli ingressi?
Il rettore di Napoli ha spiegato che in questo modo, seppure a pochi, si possono offrire servizi migliori. Più in generale rispondono che mancano le aule, i professori. Ma le aule potremmo farle in una settimana con dei prefabbricati, come quelli che si danno ai terremotati. Basta dotarle di un computer portatile e di un proiettore. Non servirebbero nemmeno le sedie: i ragazzi potrebbero portarsi un cuscino da casa. Voglio dire che c’è un grande bisogno di istruzione che viene di fatto ignorato. E i professori? Gli assistenti arrivano a 50 anni e oltre, mentre io ai miei tempi diventai ordinario a 26 anni. Ci sono schiere di docenti che sarebbero pronti a lavorare. Certo, se venissero regolarizzati e pagati decentemente.
È un problema di scelte politiche, di dove metti le risorse.
Ma questi 80 euro dati a tappeto, non era meglio se invece li avessimo concentrati sull’università? Avremmo innanzitutto abbattuto la disoccupazione giovanile, che ora è al 40%: negli Usa è al 7%, ma ci credo, perché i ragazzi stanno all’università e lo studente quindi non viene calcolato tra i disoccupati. E poi prepareresti un’Italia migliore per i prossimi venti anni. Puoi fare tutte le riforme del mondo, ma quando le vai ad applicare in un corpo sociale in cui soltanto il 13% è di laureati, è tutto inutile. Se i nostri ministri della Giustizia e della Salute non sono laureati, se sugli ultimi cinque sindaci di Roma lo sono solo Marino e Raggi, che messaggio dai ai ragazzi? Che l’università non serve a un tubo.
I giovani non trovano lavoro, quindi, perché in pochi riescono a laurearsi? L’ultimo rapporto Migrantes parla di 107 mila italiani emigrati nel 2015: un trend in salita, con una buona fetta di loro che è under 34, viene dal Nord e ha un alto livello di istruzione.
Qui c’è un equivoco che in America, a Seoul o a Bangalore hanno già superato: la laurea non serve per trovare lavoro. O meglio, serve anche per trovare lavoro, ma innanzitutto forma il cittadino, gli permette di capire il telegiornale. Io dico sempre: meglio un disoccupato laureato che un disoccupato non laureato. Dobbiamo innanzitutto abbassare l’età scolastica media: fare in modo che si finisca l’università a 21-22-23 anni; in Giappone c’è l’obbligo a 21 anni. Da noi tra alta evasione scolastica e un sistema che non funziona su diversi livelli, i tempi si allungano e gli esiti si complicano. Ovviamente poi dobbiamo riuscire a elevare la percentuale dei laureati: se hai un Paese fermo al 13%, puoi costruire il migliore ospedale del mondo, ma poi ti ritrovi cittadini incapaci non solo di gestire ma anche di usufruire dei servizi pubblici, a partire dai pazienti. Come ho già detto, toglierei il numero chiuso all’università, investirei sulle lingue straniere, l’innovazione, la ricerca. Con numeri così dirompenti, o l’Italia si decide a cambiare, o resta condannata al terzo mondo.

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