lunedì 17 ottobre 2016

Insegnare ai compagni cinesi a giocare a pallone: l'unica cosa a cui potrebbe servire la sinistra italiana


Ombre cinesi 
Il piano di Xi Jinping e gli investimenti folli ma la nazionale è nel caos. E il ct se ne va
Sconfitta da Siria e Uzbekistan, contestata dai tifosi e dai giornali di partito, è quasi fuori da Russia 2018. Ecco l’altra faccia della Cina che studia da superpotenza del calcio e vuole il Mondiale 2030

ANGELO AQUARO 13/10/2016 Rep
PECHINO Non ci voleva un genio”, scrivono adesso i giornali di partito, “per capire dove stava andando a parare il calcio cinese”. Un genio no, ma qualcuno almeno capace di stare in porta sì. Altri due gol presi in Uzbekistan, dopo la vergogna della sconfitta in casa con quegli squattrinati della Siria, arrivati nella Cina del calcio miliardario cambiando quattro voli in economica, e addio ai sogni mondiali: chi la vede più Russia 2018? E soprattutto: chi glielo dice adesso a Xi Jinping? Il presidentissimo della Repubblica Popolare cinese, tifoso scatenato, li aveva fissati nero su bianco i suoi tre «goal», intesi all’inglese come «obiettivo». E dunque: qualificazione (primo obiettivo, mancato), organizzazione in Cina del mondiale (Pechino preme per il 2030, ma intanto il suo candidato ha perso il treno per la Fifa) e poi naturalmente la vittoria finale. I cinesi avevano fissato persino una data per diventare «superpotenza del calcio» con «50 milioni di giocatori»: il 2050. Peccato che segnarsi un obiettivo è un conto: segnare in porta un altro.
Sì, i critici di partito che dal Quotidiano del Popolo a Global Time si sono accontentati ora della testa di mister Gao Hongbo, scrivono che non sarà «spendendo milioni per gli stranieri nella Super League o comprando squadre in mezzo mondo che migliorerà lo standard dei giocatori cinesi». E si capisce con chi ce l’hanno. Quanti campionissimi volati fin qui su tappeti di soldi, come il nostro Graziano Pellé che sverna nello Shandong Luneng per 38 milioni per due anni e mezzo. E quanti team passati di mano e continente: Suning che controlla l’Inter per 270 milioni, la cordata per troppi aspetti ancora misteriosa che ha giurato di prendersi il Milan per 900 milioni, un quinto del Real Madrid finito per 54 milioni di dollari a Wanda, che pure via Infront possiede i diritti d’immagine dei campionati più belli del mondo e sogna un torneo che sfidi la Champions League. Ma se fosse solo una questione di soldi, allora gli 850 miliardi che lo Stato ha già rubricato a investimento- sport dovrebbero bastare a trasformare Pechino in grande potenza. O no?
Fabio Guerra lavora per la Tommasi Pretti Sports e opera qui da quando appunto Damiano (Tommasi) ha lasciato la Cina. Passa le giornate tra campi di calcio e stanzoni del ministero. E dice: «Siamo gli unici presenti da anni sul territorio: se ci lasciano lavorare guadagniamo in tempi e qualità». Che è un modo sibillino ma carino per suggerire meno chiacchiere e palla a terra, meno miliardi da sbandierare e più lavoro dal basso. Intendiamoci. Ci sarebbe anche quello nel “Piano a medio e lungo termine per lo sviluppo del calcio cinese” che burocraticamente prevede nel dettaglio anche la creazione «da 0.5 a 0.7 campi di calcio ogni 10mila abitanti entro il 2030». Però nel frattempo la media degli spettatori di Super League è ferma a quota 13mila. Poco meno di quella della nostra serie A: con il piccolo particolare che in Italia siamo 70 milioni e loro venti volte tanto. «Ma come fai a creare un sistema-calcio quando le mamme impediscono al figlio, l’unico che hanno, di andare a giocare per paura si faccia male, e poi e salti per sempre la scuola?», si accalora Davide Sun Wei, che con la sua Beijing Tianbao Culture & Sport promuove quello che qui manca davvero: cioè lo scambio di esperienze, il circuito delle giovanili, la rete degli allenatori. «Benissimo che il presidente della Federcalcio vada a vedere com’è fatta Coverciano. Ma poi non basta dire “facciamo come l’Italia”, “facciamo come i tedeschi”, “prendiamo dagli olande- si”. Qui servono tre cose: più gente che giochi, alzare il livello degli allenatori, programmazione seria».
Il presidente della Federcalcio, che nei giorni scorsi è davvero arrivato a Coverciano, si chiama Cai Zhenhua ed è una vecchia conoscenza dell’Italia: era l’allenatore della nazionale di ping pong. I tifosi di qui lo odiano perché aveva richiamato Gao invece dell’amatissima Lang Ping, che di professione però fa l’allenatrice della nazionale di volley. E comunque: chi volete che tocchi mai un potente come Cai, pure promosso a viceministro allo sport?
Adesso per rattoppare il pallone sgonfio della Cina è partito il solito totonomine. Che torna a girare sui “papi stranieri”: Luiz Felipe Scolari che tante gioie ha dato al Guangzhou Evergrande, Gregorio Manzano oggi alla guida dello Shanghai Shenhua, Sven-Goran Eriksson che sempre a Shanghai non è che ricordino con tanto affetto, e poi il nostro Marcello Lippi che del Guangzhou seppe fare una squadra vera. Il favorito sembra Guus Hiddink, se non altro perché fu capace di portare alla semifinale del Mondiale gli odiati sudcoreani. Chi sarà il fortunato che riuscirà a far dimenticare le figuracce dell’ultima Cina?
La verità è che le figuracce, qui, si possono anche incassare come i quattrini che girano. Perché, in fondo, i 2 miliardi che i cinesi hanno finora speso all’estero non sono solo una questione di calcio. «Prendete l’acquisto di Wolverhampton Wanderers, West Bromwich e Aston Villa», dice a Repubblica Simon Chadwick, professore di economia sportiva all’Università di Salford, Manchester, e studioso del pallone asiatico. «I tre club si trovano tutti sulla linea della progettata ferrovia tra Birmingham e Manchester. I cinesi di Fosun hanno appena vinto la gara per l’alta velocità inglese. Fosun controlla anche l’agenzia Mendes che rappresenta tra gli altri Ronaldo». E no che non ci vuole davvero un genio per capire dove sta andando a parare il calcio cinese.
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