giovedì 20 ottobre 2016

La divisione del lavoro ideologico nella politica occidentale, il Centrosinistra Universale Eterno e il cornuto contento


La divisione del lavoro ideologico nella politica americana e occidentale è tarata sulla misura di una sorta di centrosinistra universale eterno
Una volta che Sanders ha rispettato i termini della divisione del lavoro che il modello del monopartitismo competitivo prevedeva per lui - e cioè per chi deve portare acqua alla causa coprendo il target della middle class colta radicalizzata e mantenendolo entro il recinto delle compatibilità sistemiche -, immediato è stato il soccorso rosso dell'intelligentsia liberal a Hillary Clinton.
Costei - che rappresenta il pericolo più grave per il genere umano - non poteva trovare avversario migliore del grottesco Trump.
Tutto ciò ribadisce però anche il ruolo strutturalmente subalterno della sinistra "radicale" in tutte le sue forme. Una sinistra che finisce poi sempre per giustificare la propria funzione attaccandosi all'argomento della "responsabilità weberiana", più popolarmente detto l'argomento del meno peggio ovvero del cornuto contento [SGA].

Anteprima del docu-film del regista e premio Oscar a New York
Busiarda

Michael Moore in Trumplandia: Hillary, I Love You 

Cinema. Nel rush finale della campagna presidenziale esce a sorpresa il film del regista statunitense. Ma il soggetto vero è mobilitare il voto per Clinton oltre lo spauracchio del candidato repubblicano
Giulia D'Agnolo Vallan Manifesto NEW YORK  20.10.2016, 0:21 
Improvvisata in poco più di un giorno, il film finito solo alle sette di martedì mattina, era la «premiere» meno cerimoniosa possibile. Niente tappeti rossi, niente star. Eppure è bastato l’annuncio via Twitter, nel primo pomeriggio, che la gente si è messa in fila per ore, lungo la Sesta Avenue e Cornelia Street, nel Village. Alcuni avevano portato le sedie pieghevoli. Fatti entrare frettolosamente, sono arrivati luminari dei salotti progressisti newyorkesi – Amy Goodman, Phil Donahue, Joyce Bear, e Chris Rock. Da un traballante tavolino pieghevole, MoveOn.org distribuiva biglietti premio ai volontari che, il prossimo week end, si sono offerti di andare a raccogliere voti in Pennsylvania, di casa in casa, bussando alle porte degli indecisi. La sorpresa d’ottobre di uno dei più amati pamphlettisti della sinistra Usa si chiama Michael Moore in TrumpLand, un film che ricorda più i monologhi di Spalding Gray che i documentari di Moore, e che il regista di Flint -a New York per presentarlo- ha girato solo due settimane fa, «nemmeno un’ora dopo che è saltata fuori la registrazione di Trump sul pullman». 
All’entrata del cinema, martedì sera, un collettivo di artisti di Brooklyn aveva portato una statua di Trump che, come un chiromante con gli occhi di fuoco, alla Zoltan, prediceva un futuro apocalittico; ma chi è venuto a vedere il nuovo lavoro di Moore sperando in una scorpacciata di gag anti-Trump ancora più feroci di quelle che ci riservano, ogni sera, comici come Steven Colbert, Bill Maher e Samantha Bee, sarà rimasto male. Perché, nei 74 minuti che si sono visti, il miliardario newyorkese è poco più di un’ombra. Seppure molto minacciosa. Egocentrico com’è, rimarrà male anche lui. La TrumpLand del titolo è Wilmington, in Ohio, un posto – ha spiegato Moore prima dell’inizio – dove su 15mila iscritti alle liste elettorali, nel 2008, poco più di mille hanno votato per Obama e dove, alle primarie 2016, il rapporto tra i voti per la Clinton e quelli per Trump era di uno a quattro. È nel cuore dell’America arrabbiata, sfiduciata, povera e rivoltosa che ha abbracciato la demagogia trumpista, da uno di quelli di che Moore ha definito «gli stati Brexit» – Ohio, Wisconsin, Pennsylvania e Michigan – che il regista ha messo in scena il one-man-show del titolo; davanti a un pubblico composto, per circa metà di sostenitori di Hillary e per il resto di un mix di trumpisti, indecisi e gente che vuole votare un terzo candidato. 
Dal palco, Moore inizia la performance con un paio di sketch comici – gli spettatori messicani sono tutti radunati in galleria, dietro a un muro di mattoni in cartone; mentre su quelli musulmani, cordonati anche loro, aleggia minacciosamente un drone. Poi, con un riff che contrappone il cliché del liberal molle e indeciso (come lui) a quello del conservatore forte, risoluto e senza dubbi, stende un ramo d’ulivo a chi, tra i presenti, si è dichiarato pro Trump (il pubblico, ci spiegherà dopo la proiezione, è stato selezionato in modo da evitare «i fanatici»). Stereotipati dai controcampi in primo piano, gli uomini (tutti bianchi, non giovani e con la pelle arrossata dal sole) lo guardano con diffidenza. Lui sa che probabilmente non può convincerli, ma offre empatia. Cita i problemi economici, la paura, il senso di inutilità che sentono, ed emette un urlo tra il furioso e il disperato: è «l’urlo del dinosauro» che scuote i rally di Trump. «Sono anch’io, come voi, un dinosauro», dice Moore, beniamino dell’élite liberal detestata dai trumpisti, che però tiene sempre un’antenna tra le rovine dell’America post industriale da dove viene, e per i cui si battono i suoi film (era stato, non a caso, insieme a Michael Cimino, uno dei pochi registi di sinistra ad aver apprezzato/capito American Sniper). 
Dopo il preambolo conciliatorio, un saluto ai millennials («siete una generazione che non odia. Non abbiamo nulla da insegnarvi») e dopo aver inquadrato una cosa che non si dice mai abbastanza, e cioè quanto, su quest’elezione, pesi ancora il carico della misoginia, Moore passa a quello che è veramente il soggetto del suo film: mobilitare il voto per Hillary oltre lo spauracchio di Trump. Contestualizzare questa corsa alla Casa bianca aldilà della scelta -per metterla come fa di questi tempi South Park- tra «un enorme testa di cazzo» (Trump) e «un panino di cacca» (Clinton). 
Gigantografie di Hillary, giovane e bella, lo circondano sul palco; a un certo punto ne sentiamo la voce, nell’idealistico discorso di laurea, fatto a ventidue anni. Nel suo libro del 1996, Downsize This!, Moore aveva dedicato a Clinton, allora first lady troppo indipendente e già nemico pubblico numero uno non solo della destra, un intero capitolo, My Forbidden Love for Hillary. È a quegli anni, e alla sua battaglia persa per la riforma sanitaria, a Pechino, alle crociate per i bambini, alla rivendicazione di un suo ruolo politico alla Casa bianca.. che Moore ci riporta («i giovani non possono ricordarsi»). 
Da parte sua – chiarisce- lui non ha mai votato per un Clinton (nel 2008 era per Obama e alle primarie per Bernie Sanders. A Bill aveva preferito una terza via). A Hillary, non ha perdonato il voto a favore della guerra in Iraq e trova problematici i suoi rapporti con Wall Street. Ma, dice nel film, e ha ripetuto dopo la proiezione, questo non gli, e non ci, dà il diritto di stare a casa l’8 novembre. Sentirsi superiori è, nelle sue parole, «un gesto di narcisismo» che non ci possiamo permettere. Moore non è un comico da stand up e il suo monologo riesce meno nelle iperboli («votiamola perché Hillary è come un Ninja. Isis scapperà dalla paura». O, peggio ancora, «Hillary potrebbe essere il nostro papa Francesco») che quando tratteggia Hillary Clinton come una persona che ha lottato con tenacia e convinzione per degli ideali importanti e condivisibilissimi. E un politico che andrà allo stesso tempo, appoggiato e criticato. «Come dice Bernie, il nostro lavoro comincia il 9 novembre». 
Michael Moore in TrumpLand, che uno spettatore ha definito «una lettera d’amore per Hillary Clinton», in realtà arriva a dire poco più di «diamole una chance!». Ma lo fa in modo intelligente, e molto sentito. Il film, uscito ieri a Ny e Los Angeles, sarà in altre sale tra oggi e le elezioni e presto disponibile su iTunes. Moore ha detto che, da qui all’8 del mese prossimo sarà on the road per incoraggiare il voto.

Hillary invade gli Stati di Trump 

La democratica è in testa (+9%) e va bene nelle roccaforti della destra come Utah e Arizona Ora prepara la squadra di governo: politici nei posti chiave, forse una donna al Pentagono 

Paolo Mastrolilli Busiarda
In una campagna così non convenzionale, sarebbe assurdo dare qualunque risultato per scontato. È un fatto però che i sondaggi delle ultime settimane sembrano spingere Hillary Clinton verso la Casa Bianca. 
L’ultimo «poll of polls», cioè la media dei rilevamenti nazionali, dà la candidata democratica avanti di 9 punti, 47% a 38%. Il divario però diventa ancora più significativo se si guarda ai singoli stati da conquistare. La Pennsylavania, su cui Trump puntava per sconvolgere la mappa elettorale appoggiandosi al voto dei colletti blu, è ormai saldamente nelle mani di Clinton, avanti anche in Florida. L’unico stato chiave dove Donald ha un leggero vantaggio è l’Ohio, che però non gli basterebbe a vincere. In più, il repubblicano sta perdendo terreno anche in stati che dovevano essere sicuri per lui, tipo lo Utah o l’Arizona, dove Hillary sta facendo campagna attiva per metterlo in difficoltà. Secondo l’analista Nate Silver, persino il Texas è in bilico. Qui Trump ha un vantaggio tra il 2 e il 3%, e probabilmente vincerà, ma il solo fatto che il distacco sia così esiguo è molto indicativo.
Viste queste notizie, pur senza dirlo Clinton sta già lavorando alla squadra di governo col capo della transizione Ken Salazar. Il primo punto fermo dovrebbe essere John Podesta, presidente della sua campagna elettorale, che potrebbe tornare a fare il capo di gabinetto della Casa Bianca, o comunque restare come consigliere politico. Un ruolo di questo tipo dovrebbe andare anche a Robby Mook, manager della campagna. Un posto da consigliere è destinato anche a Neera Tanden, la ceo della think tank Center for American Progress fondata da Podesta, che ieri ha incontrato a pranzo Renzi. Le comunicazioni saranno dirette da Jennifer Palmieri, che aveva lavorato per il presidente Obama e per il Center for American Progress, e oggi gestisce i rapporti di Hillary con i media. Per il posto di portavoce è In pole position Brian Fallon, l’attuale spokesman, che aveva già fatto esperienza in questo ruolo al dipartimento della Giustizia. 
Il consigliere per la sicurezza nazionale dovrebbe essere Jake Sullivan, braccio destro di Hillary da quando era al dipartimento di Stato, che però non può ambire a posti che richiedono la conferma senatoriale perché è stato coinvolto nello scandalo delle mail private. Stesso discorso per Huma Abedin e Cheryl Mills, cioè il cerchio magico di Clinton, che la seguirà in qualche forma alla Casa Bianca. Anche l’ex vice direttore della Cia Michael Morell vorrebbe fare il consigliere per la sicurezza nazionale, ma potrebbe accontentarsi di sostituire Lisa Monaco come zar anti terrorismo. Per la Cia si parla di Michael Vickers, ex sottosegretario alla Difesa con la delega per i servizi, mentre Robert Cardillo della Geospatial-Intelligence Agency punta a sostituire James Clapper come Director of National Intelligence. 
Per il posto di segretario di Stato era lanciatissima Wendy Sherman, la diplomatica che ha negoziato l’accordo nucleare con l’Iran, ma negli ultimi tempi è stata frenata dal fatto che Hillary sta considerando di nominare Michèle Flournoy come prima donna a capo del Pentagono. Una donna al dipartimento di Stato c’è già stata, anzi tre, inclusa Clinton, che quindi preferirebbe fare la storia alla Difesa. Il capo della diplomazia diventerebbe una scelta più politica: alcuni dicono che Kerry potrebbe restare per un breve periodo, o si parla anche di Joseph Nye. Al Tesoro non potrà andare un uomo di Wall Street, pena la rivolta di Sanders, e quindi anche qui la scelta sarà politica. Se i democratici riprenderanno la maggioranza al Senato, Charles Schumer di New York sarà il leader; se arrivassero anche riconquistare la Camera, Nancy Pelosi tornerebbe a fare lo Speaker. Altrimenti qualcuno la vedrebbe benissimo all’ambasciata americana di Via Veneto.
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TRUMP, L’ULTIMO VELENO “BROGLI NELLE ELEZIONI” 

FEDERICO RAMPINI Rep 20 10 2016
NON HO MAI VISTO, nel corso della mia vita e nella storia politica moderna, un candidato presidenziale che cerchi di screditare il voto e il sistema elettorale prima ancora che i cittadini vadano alle urne». Il severo giudizio di Barack Obama si riferisce all’ultima trovata di Donald Trump, una delle più inquietanti. Il candidato repubblicano denuncia brogli, parla di “elezioni truccate”, a 19 giorni dal fatidico 8 novembre. È un altro colpo di piccone sferrato contro la tradizione, contro il costume civile, il rispetto delle istituzioni. Il linguaggio di Trump, come sempre, è apocalittico: «I brogli sono sistematici. Guardate Philadelphia, Chicago, Saint Louis. Succedono cose orrende». Segue, ad ogni comizio del candidato repubblicano negli ultimi giorni, un appello ai suoi seguaci perché vadano a vigilare ai seggi. Magari armati? C’è poco da scherzare su questo tema. In un’elezione già segnata da un grave degrado del linguaggio e del costume, ci manca solo che bande di esaltati vadano a presidiare i seggi in cerca del casus belli.
I brogli elettorali, ci ricordano tutti gli esperti indipendenti o bipartisan, sono pressoché inesistenti negli Stati Uniti da molti decenni. L’ultimo caso significativo sembra essere accaduto nel lontano 1960 quando — forse — la vittoria di John Kennedy fu favorita dal sindaco di Chicago che fece “votare migliaia di morti”. Dopo di allora le verifiche su irregolarità rivelano che siamo scesi allo zero virgola zero qualcosa per mille, episodi rari e irrilevanti. Unica elezione sospetta di irregolarità nei tempi recenti, fu quella del 2000, quando un conteggio pasticciato in Florida, un intervento scorretto delle autorità locali (repubblicane) e una decisione molto controversa della Corte suprema (a maggioranza repubblicana) regalarono la Casa Bianca a George W. Bush. Nonostante le solide ragioni per opporsi, Al Gore fece un sacrificio per rispetto della democrazia: chiuse le polemiche rapidamente e riconobbe il vincitore. Alcuni democratici non gliel’hanno perdonata a tutt’oggi, ma quel gesto rimane emblematico di un Paese dove la fiducia comune verso la democrazia era considerata più importante della vittoria delle proprie idee. Tutto il contrario del messaggio tossico che Trump sta diffondendo in questi giorni.
Un’interpretazione sdrammatizzante delle parole di Trump è questa: sta solo cercando di preparare scuse per la propria disfatta. Visto che i sondaggi non gli sono favorevoli, pur di non ammettere i propri errori il tycoon immobiliare cerca capri espiatori. Un po’ se la prende con l’establishment repubblicano accusandolo di remargli contro. Un po’ denuncia i brogli, per poter dire il 9 novembre che ha perso un’elezione “rigged”, truccata, manipolata. A questa interpretazione allude lo stesso Obama quando dice: «Trump la smetta di piagnucolare e cerchi di convincere gli elettori delle ragioni per votarlo».
Ma c’è un altro messaggio subliminale di Trump che non va sottovalutato. Bisogna rileggersi l’elenco delle tre città dove lui sostiene avvengano cose “orrende”. Guarda caso Chicago, Philadelphia e Saint Louis hanno grosse minoranze afroamericane. Da sempre la destra, soprattutto la frangia razzista e fanatica del profondo Sud, quando denuncia “brogli” usa una parola in codice. Il vero significato va tradotto così: troppi neri che vanno a votare. Non a caso in molti Stati del Sud è in corso da anni una sistematica offensiva per ostacolare l’iscrizione dei neri ai registri elettorali, accampando ogni sorta di cavillo burocratico. È un pezzo d’America che non ha digerito le battaglie per i diritti civili, Martin Luther King, la fine della segregazione negli anni Sessanta. In certi casi non ha digerito neppure la vittoria nordista nella guerra di secessione. Trump in questa campagna ha corteggiato sfacciatamente le frange razziste, non ha mai preso le distanze dall’endorsement di un leader legato al Ku Klux Klan. Le denunce sui brogli vanno lette anche così. Il rischio è che in alcuni seggi elettorali si presentino dei “vigilantes” con lo scopo di intimidire le minoranze etniche sgradite, neri o ispanici.
Infine, questa polemica preventiva sul voto truccato può preludere ad un altro evento senza precedenti. In molti ormai si chiedono se nella notte fra l’8 e il 9 novembre, qualora vinca Hillary, il suo avversario le rifiuterà il gesto che da sempre chiude le battaglie elettorali: la telefonata della “concessione”, in cui lo sconfitto si congratula col vincitore. Nel 2008, alla prima vittoria di Obama, il suo avversario John McCain pronunciò parole bellissime in cui si diceva onorato di servire il Paese sotto la guida del nuovo presidente. Il senatore Mc-Cain è un galantuomo, le cui parole sembrano appartenere a un’epoca remota.

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