giovedì 13 ottobre 2016

La grande caccia al Matteo

Dio, oggi

L’OMBRA DELL’APOCALISSE 
MASSIMO GIANNINI 13/10/2016COMMENTI
I O SONO l’ultima barriera tra voi e l’Apocalisse», dice Hillary Clinton agli americani a un mese dalle elezioni presidenziali. Fatte le debite proporzioni, è la stessa cosa che Matteo Renzi dice agli italiani a meno di due mesi dal referendum costituzionale. Nulla a che vedere con quel “potere minaccioso” di cui, con imperdonabile e quasi grottesca esagerazione, parla Massimo D’Alema. Manca solo l’accusa al “Pinochet del Venezuela” evocato da Di Maio, e poi lo sciocchezzaio del nuovo, tragicomico “tripolarismo” all’italiana è completo.
La verità è che la campagna elettorale del presidente del Consiglio, in vista del voto del 4 dicembre, è un paradosso nel paradosso. Ha commesso un peccato originale, ri-politicizzando un quesito anti-politico e trasformando una riscrittura della Carta in un’ordalia su se stesso. Ha riconosciuto l’errore, annunciando «basta personalizzazioni, torniamo al merito». Ma ora l’intera macchina della propaganda referendaria gira intorno alla sua persona, tra maratone televisive, pellegrinaggi aziendali e convegni promozionali.

Il premier è il messaggio, al di là o a dispetto delle intenzioni. Era inevitabile che accadesse, per come la battaglia è cominciata prima dell’estate e per come sta evolvendo in questo autunno. Renzi ha solo due armi per convincere quel 30 per cento di italiani che ancora non sanno come votare sul nuovo “Senato dei 100”, e che secondo i sondaggisti decideranno solo nelle ultime due settimane prima del voto.
La prima arma è se stesso: il suo governo come “unico argine contro i populismi” (la moderna Apocalisse, appunto, dove le élite in cerca di rilegittimazione scaricano giustamente, ma a volte troppo frettolosamente, tutti i nemici: da Trump a Orban, da Grillo a Salvini). Questo “cadornismo” referendario riposa su un assunto altrettanto populista, ma di presa sicura: votate sì, per mandare a casa i senatori fannulloni e per tagliare i “costi della casta”. Un’offerta che non si può rifiutare. Da proporre a un Paese stressato («Se non cambiamo adesso non cambieremo mai più») e da opporre alla minoranza di un Pd lacerato («Non si può tenere ferma l’Italia per tenere unito il partito»). Assiomi forti, politicamente e mediaticamente. Ma indimostrabile l’uno (chi ha detto che “dopo” non si possa cambiare?) e insostenibile l’altro (chi ha detto che correggendo l’Italicum si ferma l’Italia?).
Poco importa. La narrazione renziana, oggi più che mai, non contempla il dubbio, ma solo una cieca fiducia nel narratore, che riassume in sé tutto quello che serve (la falce della rottamazione, il martello della modernizzazione) e tutto quello che non serve più (l’identità della sinistra novecentesca, la ritualità della democrazia “bicamerale”).
Questa arma di Renzi (Renzi medesimo) è tagliente. Affonda facilmente nella carne tremula della minoranza Pd (che non ha saputo pronunciare al momento opportuno i “no che aiutano a crescere”, e che oggi fatica a spiegare non alla mitica casalinga di Voghera, ma a qualunque italiano medio di buon senso, il suo no al famoso “combinato disposto”). Forse persino nella carne inerte della destra berlusconiana, alla quale punta platealmente a succhiare “sangue” elettorale. Ma rischia di non incidere abbastanza sulla carne viva del Paese. Perché Renzi stesso, vero e unico frontman del sì per i prossimi due mesi, è quello che può spostare i voti a favore, ma anche quello che rischia di polarizzarli contro. Perché i popoli, dalla Costituzione europea fino a Brexit (senza arrivare alla Colombia sulle Farc) hanno preso questa pessima abitudine di usare i referendum per votare contro qualunque forma di establishment, quasi “a prescindere”. E perché soprattutto, al di là dei cambiamenti della Costituzione formale, quella che purtroppo non accenna a cambiare è la condizione materiale del Paese.
Per questo Renzi deve usare la seconda arma, forse per lui più importante e decisiva: la prossima manovra economica. Questo spiega lo strappo consumato dal ministro Padoan con l’Ufficio parlamentare di bilancio sui numeri del Def. E forse anche quello minacciato dal premier in persona con la Commissione europea sul deficit del prossimo anno. L’esigenza redistributiva coincide con l’urgenza referendaria. Questo vuol dire che ci saranno non molte risorse, ma sparse a pioggia su molte categorie. Ci aspetta una legge di stabilità da 25 miliardi, di cui 13,3 in deficit e 8,5 di nuove entrate. Poco ai pensionati, poco ai dipendenti pubblici, poco alle famiglie, poco alle imprese. Un’occasione mancata. La settimana scorsa la Germania di Angela Merkel ha annunciato un piano di abbattimento delle imposte per 6-7 miliardi. Handesblatt, il quotidiano della comunità finanziaria tedesca, non ha fatto sconti alla Cancelliera, e ha titolato “Zwei Cappuccino In Monat”: due cappuccini al mese. Da noi non saranno due cappuccini, ma magari tre pizze margherite. Forse bastano a vincere il referendum. Ma non certo a far ripartire l’economia.
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Ora Cuperlo prova a mediare ma Bersani si avvicina a Massimo

E diventa un caso il programma Pdl 2013 sul sito “Basta un sì”

di Carlo Bertini La Stampa 13.10.16
Dopo esser transitato fin dalla mattina alle nove alla Camera, il premier è costantemente informato delle mosse dei suoi nemici interni: dalla scelta di mandare Gianni Cuperlo come ambasciatore delle minoranze nel comitato per rivedere l’Italicum, comunicata a Guerini, fino alle comparsate di due ex Ds area Bersani al summit del No capeggiato da D’Alema. «Visto? Loro delegano Cuperlo e intanto inviano Zoggia e Leva, due uomini fidati nel nord e del sud da Baffino», sono i report che giungono a Renzi da Montecitorio. Il messaggio è chiaro, almeno a leggerlo dalla tolda di comando del leader Pd: spedire l’avanguardia nella terra degli infedeli, svela dove vogliano andare Bersani e compagni, dritti dritti nelle braccia di D’Alema e della compagine del no. Insomma, altro non vuol dire se non che «loro hanno già deciso» e che dunque ogni tentativo di discutere nel merito dell’Italicum è vano. L’ingresso di Cuperlo nella Commissione che da lunedì avvierà il giro di incontri, certo è gradito perché certifica la divisione interna tra possibilisti e irredimibili. Cuperlo richiama subito D’Alema alla «compostezza» dei toni e degli argomenti; e chiede a Renzi di fare uno sforzo e di proporre una nuova legge elettorale lui subito per riavvicinare la minoranza. Appello che allo stato cade nel vuoto.
Ma il fatto che dei due posti offerti in Commissione ne venga occupato solo uno, dimostra pure la volontà di Speranza di tirarsene fuori per tenersi le mani libere; così come l’arrivo al Comitato del No di due figure che facevano parte della segreteria Bersani, il responsabile enti locali e il responsabile giustizia del partito, non passa inosservato al Nazareno, sede del Pd. «Non provano a ricucire nulla, lavorano solo per farci più male possibile», ragionano i renziani.
Del resto questi discorsi sul filo della diffidenza trovano corrispondenza nei discorsi che fanno tra di loro gli uomini di Bersani, perché «parliamoci chiaro, con questa commissione loro vogliono poter dire di averci provato fino in fondo e noi che abbiamo tentato il dialogo fino alla fine». Dunque è tutta una rappresentazione il più teatrale possibile per lasciare alla fine il cerino nelle mani dell’altro. Anche se uno dei consiglieri più vicini a Bersani ammette che, se davvero fosse messo nero su bianco il premio alla coalizione e la fine dei capilista bloccati, un accordo si chiuderebbe di certo. Tradotto, l’ex segretario sarebbe in grave difficoltà a dire no.
E c’è un legame tra questi eventi e il fatto del giorno che fa più scalpore, la pubblicazione di un post sul sito del comitato del Sì con il programma del Pdl 2013, firmato Silvio Berlusconi, che evidenzia in grigio tutti i punti in comune con la riforma Boschi. Vero è che l’altro giorno è uscita sul sito Basta un Sì un post analogo sul programma dei grillini, ma certo è che la voglia di andare a pescare consensi in casa berlusconiana è indubbia. Nella war room del premier si dà per scontato che una sacca di voti a sinistra è inchiodata sul no - i renziani la quotano al 10% dei voti Pd - e se è vero che i sondaggi riservati evidenziano per la prima volta un rimbalzo del Sì dopo mesi di discesa, allora si capisce come la strategia di aggredire il grande bacino del 30% di indecisi specie a destra, risponda ad una logica. E nel match interno al Pd la mossa ovvio non sia piaciuta ai bersaniani. «Forse il sito del Sì è stato hackerato» commenta sarcastico Miguel Gotor. 

Il voto sulla nuova Costituzione tocca un nodo politico di lungo periodo
La posta in gioco del 4 dicembre è l’egemonia del partito renziano Il premier non è riuscito a svuotare il bacino di Berlusconi Anche con M5S la missione è incompiuta: i grillini sono ancora premiati di Stefano Folli Repubblica 13.10.16
Al di là dello stillicidio delle polemiche e di una propaganda ripetitiva che il presidente della Repubblica vorrebbe più seria e rispettosa, il sentiero verso il referendum ha ormai toccato il nodo politico. Lo si può riassumere così: il voto è sulla nuova Costituzione, ma nella penombra c’è dell’altro. È in gioco la nascita di un nuovo partito egemone in grado di assorbire una buona fetta del voto di centrodestra ex berlusconiano e al tempo stesso di fare a meno della vecchia sinistra ex comunista.
Qualcuno ha da tempo indicato questo progetto come neo-democristiano, ma è una semplificazione fuorviante. Il “partito di Renzi” - per usare la definizione di Ilvo Diamanti - sarebbe una novità nel panorama italiano: un partito molto accentrato, con una leadership forte e non troppo tollerante, fondato su un sistema maggioritario piuttosto ingessato che conferisce notevole potere a chi decide le candidature (o addirittura “nomina” i parlamentari). Il tutto calato in un sistema oggi basato su tre gambe (centrodestra, centrosinistra e Cinque Stelle), ma che il premier-segretario vorrebbe al più presto riportare nello schema bipolare, assai meno rischioso per lui.
La nuova egemonia finora si è rivelata illusoria. Renzi era partito nel 2014 per prosciugare i voti di Grillo, anche attraverso un populismo morbido concepito per riportare a casa gli elettori sedotti dal M5S, ma l’operazione non è riuscita. I Cinque Stelle continuano a essere premiati dai sondaggi, nonostante il caso Roma e altri pasticci: segno che la spinta anti-sistema continua ad alimentarsi con la scarsa credibilità della classe politica. In fondo non è senza significato che l’altra sera il grillino Di Maio sia stato seguito a “DiMartedì” più o meno dallo stesso numero di teleutenti che hanno seguito il presidente del Consiglio a “Politics”.
L’ altro obiettivo di Renzi era e rimane lo svuotamento dell’area berlusconiana in crisi di identità. Anche in questo caso l’operazione è rimasta a metà: gli elettori di centrodestra non si sono fidati e, pur abbandonando in parte Berlusconi, hanno preferito rifugiarsi nell’astensione. In altre parole, il bilancio del “partito di Renzi” non è brillante, benché sia stato messo a punto un sistema di potere che lascia pochi margini al caso. Eppure nelle prossime settimane lo scenario potrebbe essere capovolto. La battaglia decisiva è alle porte. Quella che Renzi si sta preparando a combattere da almeno cinque mesi intorno a un referendum che è costituzionale, certo, ma anche fondamentalmente politico.
La vittoria del Sì equivarrebbe a infliggere alla sinistra del Pd una sconfitta storica, probabilmente definitiva. E non sarebbe solo la minoranza bersaniana a pagare lo scotto. I comitati del No di D’Alema e Quagliariello hanno raccolto un mondo politico stile Prima Repubblica che i renziani sono lieti di avere come avversario. Nella loro logica aiuta il discorso innovatore di Palazzo Chigi, soprattutto ora che la strategia volta a conquistare un certo elettorato moderato - ex berlusconiano o centrista - è entrata nel vivo. Non a caso infatti vengono sottolineati i punti di contatto, nemmeno pochi, fra la riforma Boschi e il testo costituzionale del centrodestra che fu rigettato nel referendum del 2006. Respinto, va detto, con l’impegno attivo del centrosinistra.
Oggi il quadro è cambiato. Il “partito di Renzi” non è ancora nato, ma prenderà forma nelle prossime settimane se si realizzano alcune circostanze in contemporanea: il successo del Sì, un ruolo determinante in tale risultato del mondo moderato, la disfatta della sinistra interna ed esterna al Pd, il contenimento dei Cinque Stelle a cui il premier sta cercando di sottrarre il monopolio del populismo anti-casta. Il progetto è molto ambizioso e i suoi contorni ormai sono visibili. La posta in gioco è l’egemonia politica per una ventina d’anni, isolando da un lato il ceto politico della vecchia sinistra e dall’altro l’estremismo leghista. Tuttavia fare dei Cinque Stelle l’unica opposizione strutturata nel nuovo schema costituzionale pone dei rischi che Renzi sembra sottovalutare. 

Viaggio a Bettola. I Sì e i No che qui pesano di più riguardano la fusione con altri due Comuni
Gli amici dell’ex segretario delusi: “Ma Pierluigi resterà nei dem”
Nel paese di Bersani il Pd è scomparso e il referendum è un altro
di Michele Smargiassi  Repubblica 13.10.16
BETTOLA. Il sindaco Sandro Busca ha già scelto. «Semplificazione, efficienza, i cittadini ci guadagneranno, pazienza se qualche politico perderà la sua poltrona. Domenica prossima al referendum voto convintamente sì». Eh... signor sindaco scusi, si vota il 4 dicembre. «Ah, lei dice quel referendum!», ride, «be’, voterò sì anche a quello», ci pensa un attimo, «praticamente per gli stessi motivi». Grande Italia e piccole Italie. Sì, anche Bettola, meno di tremila anime sui colli piacentini, vota per il suo referendum istituzionale: se fondersi coi Comuni vicini Farini e Ferriere. E basta un giro nella grande piazza davanti al campanile bicolore per capire che questo dilemma tra sì e no, alla gente di qui, interessa molto più dell’altro.
Ma Bettola è un paese “sensibile”, per la grande politica: è la culla di Pierluigi Bersani. Il 14 ottobre 2012 volle venire a “far benzina” qui, per la partenza del suo tour elettorale per le primarie. Dall’officina meccanica che fu di papà Pino lo incoraggiarono con una chiave inglese gigante e la scritta “noi aggiustiamo, non rottamiamo”. Quattro anni dopo qui torniamo a misurare la temperatura politica, ma non è proprio lo stesso entusiasmo di allora che si respira fra i copertoni e le lattine d’olio. Franco Maggi, che ci lavora da 46 anni e ora è l’unico titolare dell’Autofficina Bersani, smanetta sul frontale di un furgone. «Io gliel’ho detto, Pierluigi, non ti hanno lasciato cambiare l’Italia e non te la lasceranno più cambiare. Non c’è altro da fare, torna a casa». Deluso? «Io alla politica fatta dalla gente perbene ci credo ancora, ma c’è ancora gente perbene nella politica?».
Un micromondo deluso. Il serbatoio si è svuotato. Qui, è vero, votano più che altro a destra, ma se chiedi in giro, chiunque di Bersani ti dice ancora, col suo accento e gesticolando perfino come lui, che «è una gran brava persona». Però puntualizzano: «parlo della persona eh». Politica, lontana ormai. Da due anni, a Bettola non c’è più neppure il Pd. Si è sciolto «per stanchezza», ammette con malinconia l’ultima coordinatrice del circolo locale, Marcellina Anselmi, «decidevano tutto a Roma, ma se in un partito non puoi più discutere e decidere, a cosa ti serve starci? ». Lei «al 60 per cento» voterà no, non le piace un Senato non eletto, ma devi proprio insistere per avere la risposta. «Guardo la politica un po’ da lontano. Ma Pierluigi, lui credo che rimarrà nel Pd. Sa che se la sinistra se ne va, non c’è più nessuno a rappresentare un pezzo di Italia popolare ».
«Le cose buone non te le lasciano mai fare», passando il panno sul banco del Caffè Colombo, il barista Franco dice che voterà no, ma lo dice senza trasporto. Nel dehors, Stefano Ferrari, il medico del paese, finisce la sua coppetta di gelato alla panna, «a Pierluigi dico di restare nel Pd, nonostante le pugnalate ». Be’, Bersani è suo cognato, dottore... «Glielo direi comunque. Questo paese bisogna unirlo, o si va al disastro. A Pierluigi non hanno permesso di andare avanti, perché non è mai stato ricattabile. Ma sa troppo bene che se il Pd crolla, dopo ci sono solo i populisti». Quindi voterà no? «Renzi mi dia il Senato elettivo e cambi l’Italicum e voto sì. Ma lo abbiamo capito tutti che non si vota davvero su una riforma istituzionale ». Ma in verità, sulle sorti politiche del bettolese più illustre qui non ci si straccia troppo le vesti. La signora Franca che porta a spasso il suo cagnolino Paco alza le spalle, fatalista: «Non capisco molto di politica. Ma ci sono politici che cambiano partito ogni anno. Per Bersani, almeno, sarebbe la prima volta». E naturalmente, al banco verdura, trovi il bettolese amareggiato che ti dice «Bersani non è l’eroe del paese, non è che si faccia vedere molto. E per noi la politica vera è qui, mica il Senato o non il Senato. Lo sa, vero, che siamo andati sott’acqua? Crede che siano venuti in tanti ad aiutarci?». Già, sì, il paese è stato inondato, tredici mesi fa, un brutto giorno che il Nure si gonfiò come un bue estrogenato, si portò via tre vite umane e otto milioni di danni che il sindaco ancora non sa bene come recuperare del tutto, «ho gli impianti sportivi distrutti ma nessuna legge ti risarcisce il campo da calcio per i ragazzi, questa è la politica...». Il sindaco Busca, un ex sindacalista Cisl, la politica l’ha scavalcata, la sua lista civica di centrosinistra ha doppiato i voti del Pd alle politiche, forte di questo dice «io queste esasperazioni sul sì e sul no non le capisco, voglio bene a Bersani, ma certe contrapposizioni mi sembrano solo una disputa sugli equilibri interni al Pd. I conti li facciano al congresso». Ha fretta, deve andare a fare campagna per il suo referendum. «Il brutto è che quel modo di fare politica sta arrivando anche qui, non si discute se unire i Comuni sia giusto o sbagliato, ci si schiera semplicemente contro chi governa, per partito preso».
Nell’officina Bersani, ormai buia, Franco rimonta il frontalino. «Io non capisco molto di politica. Ma, come Pierluigi, appartengo a un mondo che non è quello che vedo nei tg. Questa officina, Pino me la lasciò sulla fiducia, il vero contratto fu una stretta di mano. Per me un buon politico dovrebbe avere un solo principio: potrai magari dire che ho sbagliato, mai che sono un ladro». Si pulisce le mani con lo straccio, «ma ce ne sono ancora, di politici così?». 

La campagna di Jim & Matteo, tra «dinosauri» e bambini
Referendum. Renzi e il mago della propaganda Messina a caccia del voto berlusconiano e degli under 60. E intanto il premier studia le mosse per il dopo voto di Andrea Colombo il manifesto 13.10.16
Due sole cose sono certe: la prima è che comunque vada a finire il 4 dicembre la minoranza Pd non farà a Renzi il favore di alzare i tacchi; la seconda è che, se sconfitto, Renzi non farà alla minoranza il regalo di restare a palazzo Chigi per completare il processo di arrostimento né quello di lasciare invece la segreteria del partito. Al contrario, subito dopo il voto del Senato sulla legge di bilancio, si dimetterà da premier ma si barricherà nella segreteria.
Tutto il resto è invece incerto. In ogni caso subito, dopo il referendum, inizierà una di quelle estenuanti guerre di posizione alle quali il Pds-Ds-Pd ci ha abituato da sempre.
Se il Si vincerà Renzi non metterà alle porte il nemico interno. Se ne sbarazzerebbe più che volentieri. Se se ne andassero da soli brinderebbe. Ma non può essere lui a farsi carico di un’espulsione e di una scissione. Non significa però che tutto resterà uguale. L’intervento di Cuperlo, il solo esponente della minoranza sul quale Renzi aveva lavorato a uomo sino a un attimo prima della Direzione, è eloquente. Impegnandosi a dimettersi da deputato dopo l’eventuale lacerazione, indicava anche al resto della minoranza l’impossibilità di «far finta di niente».
Sarà effettivamente impossibile. Nel palazzo che un tempo era loro i rottamati già devono accontentarsi di qualche sgabuzzino. Se saranno sconfitti perderanno anche quegli esigui spazi e se, nonostante tutto, decideranno di restare in veste di sgraditi ospiti saranno affari loro.
Se vincerà il No, però, tutto sarà molto più complicato. In quel caso dovrà infatti essere la minoranza a dare l’arrembaggio alla segreteria. Renzi, nei giorni scorsi, ha manifestato a volte l’intenzione di lasciare anche quella postazione in caso di batosta. Ma sono umori passeggeri, che si alternano con il proposito opposto: quello di tener duro alla guida del partito in modo da potersi ricandidare alle politiche. Prevarranno gli istinti battaglieri.
Quindi starà alla minoranza muovere, e l’offensiva non sarà una passeggiata. Con le mani libere dagli impegni di governo, Renzi darà il meglio di sé. Si presenterà come l’unico leader di cui il partito dispone in vista di una prova elettorale difficilissima. Determinante, a quel punto, sarà la legge elettorale. Se la riforma verrà affossata, l’Italicum si inabisserà con lei e il modello che lo sostituirà avrà un peso forse decisivo a favore o a sfavore del premier.
Ma per Renzi questa è futurologia. Al momento è il presente a occupare la mente sua e del maghetto della propaganda Jim Messina. Il piano di battaglia è pronto, la strategia fondata sul responso dei sondaggi scomposti. Dicono che il Sud è perso ma che al nord la partita è apertissima. Tutto dipenderà dalla conquista dell’elettorato berlusconiano. Per questo Renzi tuona contro la Ue ogni volta che può e per lo stesso motivo fa gli scongiuri per evitare un’esposizione diretta di Berlusconi, che ancora sposta parecchio. Dicono che nella fascia anagrafica ultrasessantenne il Sì prevale, non così tra gli adulti e tra i giovani. Portare questi ultimi a votare per la riforma è più o meno impossibile, in compenso si può puntare sull’astensione e a questo serve il martellamento sui «dinosauri» che campeggiano nel fronte del No. Ma gli adulti, quelli bisogna portarli a votare Sì. Ecco perché ultimamente Renzi sembra essersi fissato con i bambini: gli adulti sono anche genitori, o lo saranno presto.
Il resto, dalla «scuola per funzionari propagandisti» di Jim Messina all’occupazione a tempo pieno del video, è repertorio. 

Da Fini a Pomicino in fila le vecchie glorie della Prima Repubblica
Alla riunione di Italianieuropei contro la la legge in sala Dini, Pomicino, Ingroia, Civati e Salvi di Goffredo De Marchis
ROMA. Sala piena, di tutto un po’. Massimo D’Alema, immobile sul palco, ha un’espressione perplessa mentre al microfono si alternano Renato Brunetta e Maurizio Gasparri, il primo raccontando che a una delegazione del Myanmar ha detto che la loro democrazia è più solida della nostra, l’altro citando Checco Zalone. Ma sono anche loro compagni di viaggio verso il 4 dicembre, il giorno X, la data della sfida Renzi contro il resto di un mondo.
Al residence di Ripetta, la fondazione Italianieuropei e la sua omologa Magna Carta diretta da Gaetano Quagliariello hanno riunito i sostenitori del No al referendum. Ne è venuto fuori un convegno di battaglia, certamente, con presenze eterogenee e il sapore di una quelle partite benefiche giocate dalle vecchie glorie. «Non siamo la Torre di Babele - dice per esempio Gianfranco Fini mettendo le mani avanti -. Io partecipo alla campagna per convincere gli elettori di destra che la riforma è sbagliata anche se contiene in apparenza tante correzioni care alla mia parte». Seduti in platea ci sono amici e nemici. Della Prima e della Seconda Repubblica. Paolo Cirino Pomicino non è cambiato. Si agita sempre molto e muove le mani freneticamente quando parla. Il “comunista” Cesare Salvi ascolta e annuisce. C’è un pezzetto del Partito democratico, dissidenti ma combattivi: Massimo Mucchetti, Walter Tocci, il bersaniano Davide Zoggia, il dalemiano Danilo Leva. Spunta anche Pippo Civati, un tempo rottamatore come Renzi, che ha scelto una strada tutta sua: fuori dal Pd, fuori da Sinistra Italiana, dentro una sua Cosa che si chiama Possibile. Si vede Lamberto Dini, ex premier come D’Alema. E appoggiato al muro, un personaggio lontanissimo dal “Rospo” come Antonio Ingroia.
Ci si perde a guardare le facce dei presenti. Ma D’Alema, saggiamente, cerca di girare in positivo questo gruppo variopinto al quale sicuramente difetta “l’amalgama” che un giorno l’ex segretario invocò per attaccare Veltroni: «Dalla parte del Sì c’è un blocco unico che si sovrappone alla maggioranza di governo e va messo nella categoria Partito della Nazione più i cosiddetti poteri forti». E di qua? Uno schieramento di diversi «come è giusto che sia quando si parla di modifiche della Costituzione », spiega Quagliariello. Quindi non un’Armata Brancaleone, come si ironizza facilmente, ma un fronte che risponde, dice D’Alema, a «ciò che è scritto nello Statuto del mio partito: le riforme non si fanno a colpi di maggioranza».
All’appello rispondono i forzisti Paolo Romani, Altero Matteoli e Anna Maria Bernini, il centrista Mario Mauro, il capogruppo di Gal Mario Ferrara, il segretario dell’Udc Lorenzo Cesa, i leghisti di peso Giancarlo Giorgetti e Maurizio Fedriga. In sala c’è anche Bobo Craxi, animatore del No socialista. Tutti applaudono la proposta di riforma alternativa, che adesso è sul campo, ma che non si sa quale sorte incontrerebbe una volta inserita negli atti parlamentari. Però il No garantisce, e i partecipanti lo sottolineano più volte, il prosieguo della legislatura fino al 2018. Per riformare l’Italicum e varare una nuova Carta costituzionale de-renzianizzata. Mentre il Sì, insinua D’Alema, farebbe scivolare la legislatura verso la fine anticipata al 2017. Messaggio rivolto ai parlamentari, neanche troppo velato.
Naturalmente, non si vedono grillini, ad eccezione dell’ex Francesco Campanella. Ma c’è ovviamente il presidente del Comitato del No, l’avvocato dalemiano Guido Calvi. E c’è Stefano Rodotà che tanti dei presenti li ha combattuti, contestati, inchiodati alle loro responsabilità morali e politiche sia nella Prima che nella Seconda repubblica ma oggi è un fiero avversario della legge Renzi-Boschi. «Brancaleone? Direi invece che le ragioni del No sono così forti da riunire persone tante diverse ». Civati commenta: «Le facce di questo appuntamento? Non mi preoccupano. Dall’altra parte vedo Verdini e Alfano». 

D’Alema: “Il Sì ci sta minacciando”
Nuovo attacco dell’ex premier a Renzi: “I poteri forti sono per questa riforma”. Cuperlo tratta sull’Italicum Polemiche per il sito BastaunSì che richiama il programma del Pdl di Andrea Carugati Repubblica 13.10.16
Tra le “vecchie glorie” alla kermesse per il No organizzata da D’Alema e Quagliariello, Gianfranco Fini, Cirino Pomicino, Guido Calvi, Lucio Malan, Mario Mauro, Mario Ferrara. In platea, anche Lamberto Dini, Cesare Salvi e Bobo Craxi. Sul palco poi i forzisti Paolo Romani e Renato Brunetta, i leghisti Giancarlo Giorgetti e Massimiliano Fedriga
ROMA. Massimo D’Alema lancia con Gaetano Quagliariello una mini-riforma «chirurgica» della Costituzione da fare «in cinque mesi in questa legislatura », naturalmente se vince il No. Taglio dei parlamentari, 400 deputati e 200 senatori, entrambe le Camere mantengono il rapporto di fiducia con il governo. Grande reunion per la presentazione al residence Ripetta, da Gianfranco Fini a Pippo Civati e Stefano Rodotà passando per pezzi di Pd e Lega e lo stato maggiore (quasi al completo) di Forza Italia. «Non esiste uno schieramento politico del No mentre esiste un blocco politico del Sì, il cosiddetto Partito della Nazione, uno schieramento abbastanza minaccioso che va dalla maggioranza di governo ai poteri forti, tuona D’Alema dal palco. «Capita di avvertire un clima di paura e intimidazione per il quale chi non è d’accordo si deve sentire colpevole di spingere il Paese verso il baratro», avverte.
Già oggi partirà la raccolta firme tra i parlamentari sul disegno di legge costituzionale, che vorrebbe essere il perno - insieme alla nuova legge elettorale - di un governo del dopo-referendum che punta al 2018. Almeno un centinaio l’obiettivo di firme. Assolutamente bipartisan. «Se vince il Sì si rischiano elezioni anticipate sull’onda del plebiscito», ricorda D’Alema. In platea alcuni dem, come Davide Zoggia, Massimo Mucchetti e Paolo Corsini. «Si discute meglio qui che nel Pd», ironizza Zoggia. Ma Gianni Cuperlo, appena entrato nella commissione Pd per cambiare l’Italicum a nome delle minoranze, si smarca: «Non condivido il senso e lo stile delle parole di D’Alema. Non possiamo stressare così il Paese per due mesi». Proprio in questa direzione va il monito del Capo dello Stato Sergio Mattarella, che invita a un confronto «sereno e vicendevolmente rispettoso, tanto più efficace quanto più sarà composto, prima e dopo il referendum».
Se pezzi rilevanti del centrodestra vanno alla kermesse dalemiana, il comitato Bastaunsì di impronta renziana squaderna le similitudini tra la riforma Boschi e il programma del Pdl del 2013. «Questa corsa a destra la pagheremo cara» protesta il governatore della Toscana Enrico Rossi. Il Comitato precisa che sul sito compaiono confronti anche con tesi di altri partiti come il M5S. Cuperlo, intanto, di fronte allo scetticismo dei bersaniani. fissa in due settimane il tempo limite per capire se la commissione Pd riuscirà a fare un passo avanti sull’Italicum. E sprona Renzi: «Faccia una proposta a nome del Pd».

L’armata di D’Alema “Toni minacciosi dai sostenitori del Sì”
In sala Fini e Cirino Pomicino, Gasparri e Civati “Grillo? Il populismo più pericoloso è quello dall’alto” di Amedeo La Mattina La Stampa 13.10.16
Tutti i No alla riforma costituzionale sono stati riuniti dal socialista Massimo D’Alema e dal gollista Gaetano Quagliariello. Veniva la vertigine a vedere tanti ex e nuovi esponenti politici della prima, seconda e terza Repubblica così diversi e distanti, che in passato si sono combattuti fino all’ultimo sangue, seduti gomito a gomito nella stessa sala del residence Ripetta. Da Fini all’ex pm Ingroia; dai berluscones Brunetta, Romani, Bernini, Matteoli, Gasparri, Schifani, Malan a Rodotà; dagli ex dc Pomicino e Gargani ai bersaniani Zoggia e Mucchetti; dai leghisti Giorgietti e Fedriga a Civati; dal segretario Udc Cesa all’ex premier Dini; dai centristi Giuseppe De Mita, Mario Mauro ed Eugenia Roccella all’ex ministro Cesare Salvi. Di 5 Stelle nemmeno l’ombra.
Quagliariello, che ha organizzato l’evento arcobaleno con la sua fondazione Magna Charta insieme alla dalemiana Italianieuropei, lo dice in apertura che non c’è nulla di cui stupirsi di questa iniziativa trasversale. Del resto, spiega il senatore ex Fi, quando si parla di Costituzione è normale il confronto tra «diversi» che hanno l’obiettivo di affossare la riforma costituzionale e il suo autore, cioè Renzi.
«Semmai l’anomalia e la patologia è quella del premier che è rimasto solo», dice Quagliariello, che ha presentato un alternativo disegno di legge costituzionale di due soli articoli che prevede la riduzione dei deputati a 400 e dei senatori a 200. Una riforma light, chirurgica per dire che in caso di vittoria del no non c’è l’apocalisse che blocca in eterno le riforme. Anzi, ci sarebbe una vita migliore, una ripartenza con una riduzione dei costi della politica e dei politici più pesante della riforma renziana. Soprattutto, osserva Quagliariello, ripartirebbe un vero spirito costituente che saprà ripristinare il metodo della «coesione nazione tra diversi». Da oggi in Parlamento comincerà la raccolta delle firme su questo disegno di legge costituzionale.
Ma ieri la grande armata aveva solo orecchie per D’Alema. Anche lui, tra sorrisi e battute sarcastiche, ha voluto sottolineare che «non esiste uno schieramento politico del No mentre esiste un blocco politico del Sì, il cosiddetto partito della nazione, uno schieramento anche abbastanza minaccioso». Per D’Alema chi la pensa diversamente è costretto a «dover subire insulti» da questo «schieramento politico talmente minaccioso che ha minacciato la rovina del Paese nel caso dovesse prevalere il No». Invece la verità è che «la vittoria del Sì aprirebbe una ferita nel Paese». L’ex premier ha parlato di «poteri forti» dalla parte di Renzi che vorrebbero impedire agli italiani di scrivere liberamente le proprie regole. Cita JP Morgan, altre banche d’affari e soprattutto la Confindustria, schierata per il Sì, che «sdottoreggia su come tagliare i costi della politica ma che sarebbe bene si occupasse dei conti del Sole 24 Ore». Non cita mai invece Renzi, che sarebbe protagonista di un «populismo più pericoloso, quello dall’alto». «Nel mio partito si usa dire che il No aprirebbe la strada a Grillo. Ma chi dirige il mio partito ha già aperto la strada a Grillo consegnandogli la Capitale e Torino».

D’Alema riempie la platea del No
Riforma costituzionale. Con l'ex presidente del Consiglio tanti esponenti di centrodestra, un po' meno di centrosinistra, e molte vecchie glorie della politica. Ma la proposta di riforma costituzionale "condivisa" per il dopo referendum, in caso di vittoria del No, è davvero minimale di Andrea Fabozzi il manifesto 13.10.16
Fini e Dini, Calvi e Salvi, tanto centrodestra (Romani, Brunetta, Fedriga, Schifani, Gasparri…), un po’ meno centrosinistra (Civati, Tocci, Zoggia…), vecchie glorie (Pomicino, Gargani), costituzionalisti di diverse sponde (Cheli, Gallo, Antonini, Pertici e poi l’ingresso, applaudito, di Stefano Rodotà), persino Ingroia. Massimo D’Alema è il primo a rendersi conto che la composizione articolata – diciamo – della sua platea può essere un problema.
In altri tempi, la capacità di mettere assieme culture ed esperienze politiche così diverse – e c’è anche il senatore Ferrara capogruppo del Gal – sarebbe stata un valore aggiunto. Tanto più in una campagna per il referendum, dove o si vota Sì o si vota No, e allora bisogna conquistare elettori dall’altra parte della barricata. «Il referendum si vince a destra» non l’ha detto D’Alema, anche se probabilmente l’ha pensato pure lui vista la mossa di presentarsi per la prima iniziativa pubblica (dopo quella di lancio del suo comitato a settembre) con accanto l’ex berlusconiano, ed ex ministro, Gaetano Quagliariello. Ma è contro D’Alema che si scatenano le ironie dei renziani da social media e le tante prese in giro per l’allegra brigata del No. D’Alema se lo aspetta, e spiega: «Non c’è un fronte politico del No, mentre esiste un blocco politico del Sì, uno schieramento anche abbastanza minaccioso che copre di insulti chi la pensa diversamente». Quorum ego, intende dire, non essendo tipo che dimentica presto gli attacchi ricevuti da Lotti e da Orfini (all’ex delfino replica con un acidissimo elogio al «capolavoro delle elezioni di Roma, un vero manuale di come non si fa politica»). E a proposito di ex, si distingue Gianni Cuperlo, che critica D’Alema non per la compagnia ma per quello che ha detto, in particolare per una frase sul «clima di paura e intimidazione che fa sentire in colpa chi è per il No, come se portasse il paese verso il baratro». «Non condivido il senso, la natura e lo stile di queste dichiarazioni», dice Cuperlo.
Il programma di D’Alema, però, non si ferma alla campagna per il referendum. Guarda fuori dal Pd e vuole, come ha detto altre volte, «riaprire una prospettiva a sinistra battendo il partito della nazione». E vuole anche sfuggire l’accusa di saper dire solo di no, per cui ci tiene a un progetto di riforma costituzionale «minima» che possa essere condiviso, a differenza di quello renziano, e possa essere approvato da questo stesso parlamento in caso di vittoria del No. Prima della conclusione della legislatura. Solo che il progetto presentato ieri, con Quagliariello – anzi, da Quagliariello -, è davvero minimale, affronta solo, in due articoli, la riduzione dei senatori (da 315 a 200) e dei deputati (da 630 a 400). Per cui appaiono un po’ sopra misura i ringraziamenti di D’Alema ai «tanti studiosi che con molto coraggio hanno lavorato a questa proposta». Proposta anche più prudente di quella, già timida, che era stata annunciata. Perché non c’è nulla di concreto – solo una scheda – sulla «commissione di conciliazione», che potrebbe rappresentare una soluzione sul modello americano al problema della «navette» tra camera e senato (ammesso che sia un problema). E non c’è nulla di nulla, neanche una scheda, sulla fiducia alla sola camera, che pure D’Alema aveva sposato nella precedente uscita. In effetti è una riforma che è più facile sposare in teoria che scrivere in concreto. Più interessante per i tanti parlamentari in sala un’altra notazione di D’Alema: «La vittoria del No è l’unica garanzia che la legislatura vada avanti». 

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