giovedì 6 ottobre 2016

La nostra tragedia: l'Unione Europea è un dispositivo di destra ma con questi rapporti di forza se ne esce rimanendo a destra

Via dall’euro non significa uscire dal liberismo 
Ue. Se sparisce la moneta unica di una delle principali aree economiche, la seconda valuta di riserva del mondo. Più dirompente della crisi del 2008 
Leonardo Becchetti, Mauro Gallegati, Guido Iodice, Daniela Palma, Francesco Saraceno, Leonello Tronti Manifesto 7.10.2016, 23:59 
L’articolo di Giorgio Lunghini (il manifesto il 23 settembre e la replica di Sergio Cesaratto et al. del 30 settembre) hanno il merito di riaprire la discussione sulle conseguenze dell’uscita dall’euro. Un dibattito spesso condito da eccessive semplificazioni. Per questo ci pare che concentrarsi sulle cifre riportate da Lunghini sia un esercizio poco interessante. Difatti, anche se tali previsioni si rivelassero eccezionalmente esagerate, ci troveremmo comunque di fronte ad un evento di proporzioni significative, per usare un eufemismo. Piuttosto, è il ragionamento economico che andrebbe approfondito, e a questo vorremmo contribuire. 
I fautori dell’uscita dall’euro ci pare sottovalutino gli effetti finanziari che comporterebbe. L’Italia (ma lo stesso potrebbe dirsi di altri paesi periferici) è troppo grande e troppo interconnessa finanziariamente per lasciare la moneta unica senza che ciò comporti un effetto domino nel resto d’Europa. È facilmente prevedibile che l’euro cesserebbe di esistere in breve tempo, attraverso un collasso dei sistemi bancari dell’eurozona ben più dirompente di quello che abbiamo visto nel 2007/2008. 
Uno storico dell’economia molto attento come Barry Eichengreen ha definito l’eventuale crollo dell’euro una “Lehman Brothers al quadrato”. Parliamo in effetti di un evento senza precedenti storici paragonabili: la sparizione della moneta unica di una delle principali aree economiche e la seconda valuta di riserva del mondo, non la fine di un semplice accordo di cambio fisso. Persino economisti pure favorevoli allo smantellamento dell’euro sono ben coscienti di questo problema. In uno studio elaborato per il premio Wolfson del 2012, Jens Nordvig e Nick Firoozye di Nomura hanno analizzato le interconnessioni finanziarie create dalla moneta unica, concludendo che una rottura disordinata dell’eurozona eccederebbe “per un ampio margine” quanto accaduto in passato negli episodi di uscita da regimi monetari, a causa dell’ “enorme dimensione delle attività e delle obbligazioni denominate in euro”. Aggiungono che l’ “ondata di fallimenti avverrebbe a livello globale”. E concludono che “la più probabile implicazione tale processo sarebbe un completo congelamento del sistema finanziario, non solo nella zona euro, ma anche a livello mondiale” con inevitabili ripercussioni sull’economia reale per un periodo prolungato.
Mentre sottovalutano le implicazioni finanziarie, i favorevoli all’uscita dall’euro sopravvalutano la capacità delle svalutazioni di offrire un più ampio margine alla politica economica discrezionale. L’esperienza recente, in particolare degli ultimi cinque anni, suggerisce il contrario. Dal Giappone all’Argentina, dal Regno Unito al Brasile, il deprezzamento del cambio non ha spinto le esportazioni (o almeno non abbastanza) e non ha favorito le produzioni nazionali. Non raramente si è prodotto l’effetto opposto, anche a causa della ricaduta depressiva sugli stati patrimoniali di banche e imprese provocato dal deprezzamento stesso.
Rimosso l’euro, ci ritroveremmo quindi comunque in un vincolo esterno di domanda estera (esacerbato dalla crisi finanziaria conseguente) che difficilmente ci permetterebbe di perseguire politiche espansive, una volta tolto il cordone ombelicale con la Bce e senza più accesso ai mercati di capitali. 
Né possiamo illuderci di proteggere i salari: anche tra coloro che propongono l’uscita dall’euro c’è chi onestamente non nasconde che i salari reali dovrebbero pagarne il prezzo se si vuole almeno provare ad avvantaggiarsi sul lato della competitività di prezzo, senza contare che saremmo in una situazione nella quale dovremmo cercare di evitare che la nuova moneta nazionale sprofondi sotto la pressione dei mercati, che anticiperebbero ogni tendenza inflattiva con ulteriori svalutazioni. 
L’effetto sul piano politico più probabile di una deflagrazione dell’eurozona sarebbe il collasso della stessa Unione europea e del mercato unico: una parte rilevante dei paesi ai quali ambiremmo esportare potrebbero quindi adottare politiche protezionistiche, rendendo ancor più complesso il compito di mantenere l’equilibrio esterno.
Certamente possiamo immaginare soluzioni (invero parziali) come dissoluzioni cooperative dell’eurozona, magari in due parti come propone Stiglitz, e tuttavia dobbiamo essere coscienti che si tratta di scenari improbabili che richiedono una cooperazione che travalica quella che sarebbe necessaria ad “aggiustare” l’euro in corsa. 

Questi sono gli elementi da considerare se si vuole fare un’analisi prudente ed evitare l’errore di credere che, usciti dall’euro, usciremmo dall’austerità e dal liberismo, di cui l’euro è solo una delle innumerevoli manifestazioni.

L’ONDA LUNGA DELL’EFFETTO BREXIT 
FERDINANDO GIUGLIANO Rep 7 10 2016
PER ANNI, la Gran Bretagna ha incarnato meglio di qualsiasi Paese del nostro continente il volto gentile della globalizzazione. Le sue università hanno accolto i migliori studenti e ricercatori del pianeta. L’apertura del suo mercato del lavoro è stata per una generazione di europei l’antidoto alle tante barriere che si trovavano nei propri Paesi d’origine.
Oggi, a pochi mesi dal referendum che ha sancito l’uscita di Londra dall’Unione Europea, questo mondo è scomparso. Divorato da rancori e paure, il Regno Unito non sembra più la nazione accessibile e tollerante che abbiamo conosciuto.
Il simbolo di questa cesura sta nella proposta di questa settimana da parte di Amber Rudd, ministra dell’interno e astro nascente dei Conservatori, di chiedere alle aziende di produrre elenchi dei loro dipendenti stranieri per poi comunicarne il numero. Il Paese che si vantava della sua capacità di attrarre i migliori talenti dall’estero, oggi si vergogna del successo dei suoi imprenditori.
Rudd si è difesa dicendo che la sua è solo un’idea su cui aprire una consultazione. Ma tutto il clima della conferenza annuale dei Conservatori era pregno di nativismo latente. Nel suo discorso, la premier Theresa May ha detto che chi sente di essere un cittadino del mondo è in realtà cittadino del nulla. Per Liam Fox, ministro euroscettico del commercio, non è detto che i cittadini europei che vivono oggi in Gran Bretagna potranno restare dopo Brexit, una frase che ha di colpo trasformato milioni di residenti in merce di scambio.
Se la speranza è che gli altri partiti possano aiutare a riportare il dibattito alla normalità, è meglio guardare altrove. A sinistra il partito laburista è dominato dall’estremismo di Jeremy Corbyn, tra i cui supporter si nascondono frange antisemite. A destra, nello United Kingdom Independence Party, si è addirittura arrivati alle risse: il candidato in pectore Steven Woolfe è stato picchiato da colleghi di partito, probabilmente per aver intrattenuto delle conversazioni con i Conservatori. La politica britannica, per anni la più ordinata d’Europa, sembra essere improvvisamente impazzita.
Anche dopo il risultato del voto di giugno, questa conclusione non era scontata. Il “Leave” ha vinto con il 52%, non esattamente un plebiscito. Anche se certo non in maniera entusiastica, May aveva comunque sostenuto la permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea. L’ipotesi di una “soft” Brexit, che avrebbe permesso alla Gran Bretagna di restare nel mercato unico in cambio del mantenimento della libera circolazione delle persone, sembrava una soluzione di compromesso per riappacificare un Paese spaccato a metà.
“Brexit means Brexit,” aveva detto la May. Ora cosa potrebbe significare. Un referendum preso molto sottogamba da troppi, rischia di trasformare lo Stato che ospita Londra, la vera capitale globale, in un paesello di provincia, spaventato dallo straniero per motivi principalmente irrazionali.
Come hanno infatti dimostrato diversi studi, gli europei contribuiscono alle finanze del governo britannico molto di più di quello che prendono indietro. L’impatto dell’immigrazione dall’Ue sui salari è inesistente, se non per una piccola porzione di lavoratori non specializzati. L’idea che esista un numero fisso di lavori per cui combattono stranieri e domestici è un mito: gli italiani, i francesi e i tedeschi non sono solo impiegati, ma fondano aziende nel Regno Unito, assumendo personale. I soldi spesi dagli immigrati fanno crescere l’economia, creando posti di lavoro.
Non è detto che questa trasformazione da “Great Britain” a “Little England” sia inevitabile. Le negoziazioni sono solo all’inizio e la cancelliera tedesca Angela Merkel ha subito chiarito che restringere la libertà di movimento delle persone vuol dire uscire dal mercato unico. Un po’ alla volta, le conseguenze di una “hard” Brexit su investimenti e posti di lavoro diverranno impossibili da ignorare, come sembra avere già ben presente il Cancelliere dello Scacchiere, Philip Hammond. La debolezza della sterlina, destinata a proseguire, sarà un promemoria costante del costo di un’uscita senza paracadute.
La verità, però, è che nessuno sa come andrà a finire. Ed è proprio questo il pericolo principale di referendum come quello di giugno. Milioni di britannici hanno scelto di uscire dall’Unione Europea, ma non si sono messi d’accordo su quale modello adottare dopo. Costruire è molto più difficile che distruggere.
“Non ho votato perché le persone che sono già qui vengano trattate male,” ha scritto in un tweet, subito dopo i commenti di Rudd, Allison Pearson, un’editorialista del Daily Telegraph che ha sostenuto “Brexit”. Il rischio è che dovrà accettare una Gran Bretagna molto diversa non solo da quella che è stata per anni, ma anche da quella che aveva sognato.

“Prima i britannici” “Siamo il partito dell’uguaglianza”
Ieri ha presentato il suo manifesto conservatore per il Regno Unito Al congresso dei conservatori il premier punta a erodere i voti a sinistra La sua idea di Regno Unito: filtro ai confini, meritocrazia e più Stato di Alberto Simoni La Stampa 5.10.16La rivoluzione inglese di May
Theresa May arriva sul palco dell’Icc di Birmingham sulle note di «Start Me Up» dei Rolling Stone. Per spezzare l’emozione le basta una battuta. Si rivolge a Boris Johnson chiedendogli se riesce a restare per quattro giorni consecutivi concentrato sul messaggio da portare. «Start me Up», accendimi. May parla per 56 minuti illustrando il suo Regno Unito e sembra mettere in mano ai suoi le armi per portare a termine la missione. Che non è solo la Brexit, è ridisegnare il Paese, dall’istruzione alle politiche fiscali, dalla sanità alla sicurezza. Domenica ha mostrato all’Unione europea che non ci sono piani B, che «Brexit means Brexit» e che lei è arrivata al 10 di Downing Street per portare a compimento il voto con cui 17 milioni di britannici hanno detto di chiudere con l’esperienza europea dopo 43 anni. Ieri il primo ministro da 84 giorni ha parlato al Regno Unito guardando oltre lo steccato tradizionale dei conservatori. Cercando anzi di conquistare altri territori.
Ringraziando all’inizio David Cameron, lo ha chiuso nell’album dei ricordi. Il suo conservatorismo sarà diverso, sociale, niente Big Society, comunità che si autoregolano. Elogia lo Stato interventista, «serve per portare equilibrio e giustizia laddove individui, società e mercato da soli non riescono». Schiaffeggia i manager, «non hanno fatto sacrifici dopo la crisi, quella l’hanno pagata gli altri, i comuni cittadini», e li mette sull’attenti (non solo loro): chi non paga le tasse verrà inseguito da questo governo. Cita la Thatcher («ci ha insegnato a seguire i sogni»), Churchill e Disraeli e a sorpresa un premier laburista, Clement Attlee, quello della ricostruzione.
Poi si erge a paladino dei lavoratori. È qui che May va a caccia del nuovo centro gravitazionale. Vuole un governo incisivo, «che faccia cose buone» e un Partito conservatore alla stregua di un Partito della nazione che si espande a destra e a sinistra, socialmente inclusivo, ricchi e poveri, periferia, cittadine, campagne e Londra. Lì si annidano le élite liberal, «più attente ai rapporti internazionali che alla gente della strada». Per questo May dice: «Siamo noi il partito dei lavoratori», una frase che solo qualche lustro fa avrebbe fatto gridare allo scandalo. D’altronde i laburisti, titolari del marchio «partito dei lavoratori», dice «sono divisi e divisivi», «sono un partito dell’odio». Quando parla di disuguaglianza e laburisti alza un po’ i toni. «Basta con questa presunta superiorità morale, non sono loro i monopolisti della compassione».
Theresa May ha le idee chiare. «Il cambiamento sta arrivando», dice (è la frase con più ripetizioni, dieci) e l’idea di come sarà il Regno Unito fra qualche anno, quando la Brexit sarà nero su bianco e non solo sulle schede elettorali, sembra stampata nella mente del Primo ministro. Ha una visione «ma senza determinazione, le visioni non servono» dice in uno dei passaggi del suo discorso più apprezzati. «È come un medico» la descrive uno che con lei ha lavorato molto. «Osserva, fa gli esami, e poi la diagnosi, quindi agisce». Non vuole rompere con Bruxelles e lo dice con chiarezza quando auspica scambi di beni e servizi in un mercato unico. «Brexit non significa solo riprendersi il controllo dei confini, è altro, è la possibilità di creare qui il nostro destino». È ferma nel ricordare che non vuole che gli inglesi siano soggetti alle leggi europee, che sia quella sui diritti umani o quella sulla libera circolazione.
Non serve fantasia, basta passare in rassegna non solo i suoi discorsi, ma anche quelli dei suoi ministri, per capire che il Regno Unito di May sarà meno aperto all’immigrazione e selettivo sugli ingressi, sarà teso alla ricerca dell’eccellenza in campo universitario e medico, volto a mantenere la leadership sui mercati finanziari e capace di stare al mondo e di relazionarsi con Paesi immensi grazie a un mix di innovazione e tradizione che affonda le radici nella storia. Proverà a ridurre le diseguaglianze. «Voglio un Paese dove ci sia opportunità e meritocrazia. Dove chiunque, non importa da dove venga e di chi sia figlio, abbia le stesse chance di riuscire». Per questo nel mondo di Theresa May serve il governo. Il suo.

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