giovedì 20 ottobre 2016

La Terra dei Cachi


La nostra debolezza sullo scacchiere americano 
Luciana Castellina Manifesto 19.10.2016, 23:59 
All’inizio dal Sì al referendum sembrava dovessero dipendere le sorti dell’Italia, adesso scopriamo che sarebbero in gioco anche la tenuta dell’Europa e il futuro degli Stati uniti. 
Ci sarebbe di che esserne fieri, se non fosse che il ruolo attribuito a Renzi da Obama non dipende dalla forza, ma dalla sua debolezza della sua politica. Neppure negli anni più bui dell’ubbidienza atlantica, un capo di governo italiano aveva esposto l’Italia alla imbarazzante situazione in cui il capo di un altro stato si sia permesso di dare un voto sul proprio operato in politica interna, e persino su come debba essere scritta la sua Costituzione. Con l’avvilente utilizzo del nostro, ahimè, presidente del consiglio da parte del presidente degli Stati uniti. 
Obama avverte l’Unione europea che Washington pretende più efficienza dai litigiosi 28 stati europei, e a questo fine è pronto a rottamare la troppo arrogante Merkel, il troppo debole Hollande, i presuntuosi britannici. 
Sostenere Renzi nel momento in cui deve affrontare Bruxelles sulla finanziaria, avrebbe potuto implicare una utile critica alla politica dell’austerity. E così infatti la cosa è stata presentata. Ma quanto il presidente americano ha lodato in Renzi può esser difficilmente presentato come un’alternativa all’infausta linea ordoliberista, perché anzi è apparso come l’incoraggiamento a perseguirne la sostanza: il Job Act, l’abolizione dell’articolo 18, e dunque l’estrema precarizzazione del lavoro. E proprio nelle stesse ore in cui venivano resi pubblici i dati sull’aumento esorbitante dei licenziamenti senza giusta causa che “le riforme” hanno prodotto. 
Senza dimenticare l’accenno al famoso Ttip, il trattato per la liberalizzazione degli scambi transatlantici che la Francia ha rifiutato (e che incontra ancora molte sacrosanta ostilità a livello europeo), e cui, invece, il disciplinato governo italiano ha aperto le porte. Un accordo che darebbe un colpo mortale proprio all’autonomia europea per quanto di meglio ancora conserva.) Nel plauso di Obama c’è anche il ringraziamento per il pronto servizio offerto dall’Italia, inviando 450 soldati nientemeno che in Lettonia, per presidiare le nostre frontiere occidentali dall’invasione dei cosacchi. 
Una Europa più forte e disciplinata nell’attuale contesto serve ad Obama, oggi criticato per le sue “debolezze” in politica estera. Ma difficilmente mira a creare l’Europa di cui avremmo bisogno noi europei; e anche il mondo. Obama in realtà si trova oggi alla testa dell’insensato rilancio della guerra fredda, che arriva del resto dopo l’altrettanto insensato e pericolosissimo accerchiamento della Russia operato dalla Nato sin dall’indomani della caduta del Muro. Se oggi a Mosca comanda Putin è anche perché è quella strategia che ha stimolato le peggiori reazioni di un paese cui l’Europa avrebbe dovuto invece aprire le porte. 
In realtà questo incontro Renzi-Obama dovrebbe preoccupare. Se il presidente americano avverte la necessità di ricorrere ad una politica estera più aggressiva vuol dire che cresce l’escalation in favore di una rischiosissima più dura competizione fra le potenze mondiali. Purtroppo è la linea di cui si fa portavoce Hillary Clinton ( che siamo costretti a preferire a Trump). E che Obama è costretto a favorire. 
Lo spot propagandistico di Renzi a Washington è ovviamente parte della battaglia referendaria. C’è chi lo userà per dire che la vittoria del No sarebbe non solo una catastrofe per l’Italia ma anche – “vedete cosa ha detto Obama?” – per il mondo. Sarà dunque ancor più necessario insistere nel rispondere ai non pochi che pur condividendo le ragioni del No, sono stati convinti che una sua eventuale vittoria porterebbe ad una pericolosa destabilizzazione del Pd, lasciando spazio alla destra (o ai 5 Stelle). 
Credo sia davvero il contrario: se non si costruisce una reale alternativa al pericolo di un accentuato autoritarismo e alla deriva liberista e iperatlantica cui sta portando, non si farà che dar spazio alle forze antisistema. In Italia come altrove in Europa. Che proprio dal venir meno della partecipazione politica della gente, dalla mortificazione dei movimenti, dalla demonizzazione dei corpi intermedi e dei contropoteri che rappresentano, dalla marginalizzazione della dialettica democratica che ne deriva, traggono in definitiva vantaggio. 
L’alternativa immediata, in termini di governo, forse non c’è. Ma rinviare il processo capace di costruirla non fa che deteriorare il terreno su cui dobbiamo misurarci. E’ pericoloso, potremo vedere compromesse per un tempo assai lungo le nostre prospettive. In pericolo è oggi il tessuto democratico, e nessuna sinistra – e neppure un centrosinistra – può prosperare in una simile situazione.

La Ue attende il premier al varco Ma niente scontro fino al referendum 
Francesi e tedeschi infastiditi dai toni del capo del governo Il voto di dicembre è però ritenuto cruciale per la stabilità 

Marco Zatterin  Busiarda
Matteo Renzi giunge a Bruxelles forte dell’investitura a stelle strisce quale potenziale «salvatore dell’Europa». Nella capitale Ue, vestita a festa per il vertice d’autunno, il premier sbarca per dare battaglia sui migranti e, in controluce, per difendere la sua manovra, non propriamente simile a quella che la Commissione Ue si aspettava. In città trova un clima di pace artificiale, tanto dolce quanto fragile e armata. 
Nessuno fra i partner vuole dissidi con l’Italia a meno di 50 giorni dal referendum, ma ciò non significa che tutti siano entusiasti di come il governo amministra l’economia, amministra le frontiere e si rivolge all’Europa. E neanche che siano pronti ai passi che potrebbero evitare risse verbali che, a questo punto, sorprenderebbero solo i distratti.
Una voce italiana nei palazzi bruxellesi dipinge l’umore recente di Renzi come «poco incline ad ascoltare consigli miti» e alla ricerca di spunti per contestare il patto a dodici stelle, «anche per conquistare consensi nel popolo euroscettico» in vista della consultazione del 4 dicembre. Il premier gioca la carta dell’attacco preventivo su deficit e debito per scongiurare una procedura di Bruxelles. Quindi contesta la «inaccettabile solidarietà flessibile» che l’Ue sta intrecciando per provare a dar dignità al dossier dei «salvataggi mediterranei». 
Sui rifugiati qualcosa l’Italia dovrebbe portare a casa, fra oggi e domani. Si intravedono progressi sul Migration Compact, il piano di investimenti nei Paesi dove le migrazioni hanno origine, pensato per tagliare i flussi alla radice. Peccato che sulla redistribuzione di chi approda in Italia si sia davvero al palo: il peso dell’accoglienza resta in gran parte su di noi e non si vedono progressi sulla riforma del Regolamento di Dublino che dovrebbe alleggerirci il peso. A parte le solite capitali dell’Europa orientale, anche i francesi sono duri. Sostengono che ognuno deve fare la sua parte, il che equivale a stabilire che l’Italia deve gestirsi da sola la sua frontiera europea. Berlino vorrebbe aiutare, però da sola non basta.
Lo scontro sui migranti ha ricadute sulla partita economica. A Bruxelles vedono un Renzi furioso sulla solitudine italica nell’emergenza sbarchi perché vuole che la Commissione giustifichi i due decimi di punto di deficit in più non autorizzati che Roma ha messo in conto per il 2017. Sebbene le contrarietà di fondo dei soliti falchi non siano svanite, il consenso nel Team Juncker è «che non si vuole turbare il clima pre-elettorale». La prossima settimana diversi Paesi riceveranno una lettera con una richiesta di maggiori informazioni e spiegazioni sulle loro leggi di bilancio. L’Italia è per ora nella lista, anche se il regolamento non precisa in quale forma debbano avvenire le consultazioni e scrivere non è un obbligo. «Ci saranno molti negoziati, non semplici», si sente raccontare da una fonte che ribadisce le volontà per nulla aggressiva della Commissione. Risultato: o ci promuovono il 16 novembre; o prendono tempo e aspettano il dopo referendum. Una bocciatura diretta non è fra le soluzioni più probabili.
Renzi gioca su un terreno pieno di buche. La prospettiva referendaria lo aiuta. I suoi partner lo preferiscono alle possibili alternative, oltre che all’incertezza. «Non ci sarà una conferenza stampa a due qui a Bruxelles», giurano i francesi: «Bratislava non si replica». Nelle stanze tedesche si confessa «noi auspichiamo che il premier si affermi perché temiamo ripercussioni negative». Per questo, si aggiunge, «non vedete nostre dichiarazioni». Però è anche vero che, chiuse le urne, «sarà difficile restare fermi davanti all’atteggiamento di Renzi».
Quale? A Berlino c’è chi pensa che il premier dovrebbe moderare le parole su Francia e Germania perché «non è un modo accorto di intrattenere le relazioni». La tesi è che i problemi si risolvono con il dialogo, come ha fatto la Spagna. L’irritazione, privata, vale anche per la cattiva interpretazione dell’incontro a tre di fine agosto: Berlino e Parigi negano «uno spirito di Ventotene» che vada oltre l’asse bilaterale fra i due big.
La minaccia è che dopo il 5 dicembre le cose possano cambiare. Non una resa dei conti, ma quasi. Merkel e Hollande potrebbero togliere il silenziatore. La Commissione potrebbe metterci in mora per i conti fuori norma. Scenario minaccioso. Tanto tosto quanto forzatamente idilliaca è l’atmosfera che si prepara intorno alla delegazione Italia al vertice Ue. Per Renzi comunque è un’occasione da cogliere. Ma deve tenere presente che, se tirerà troppo la corda, la reazione dei soci potrebbe essere decisa se non violenta.
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L’IMPLOSIONE DEL PD E IL RISCHIO INSTABILITÀ 
PIERO IGNAZI Rep 20 10 2016CONFLITTO interno al Pd sembra sul punto di imboccare una via senza ritorno. Disquisire sui torti e le ragioni della maggioranza o della minoranza è sterile. In linea di principio le responsabilità maggiori sono sempre in capo a chi guida una organizzazione perché è al gruppo dirigente che si imputa la capacità di rappresentare adeguatamente tutti. Ma ormai siamo oltre l’individuazione delle colpe degli uni e degli altri. Non c’è quasi più spazio — ultima finestra la commissione per la riforma del sistema elettorale — per una composizione. Forse più involontariamente che consapevolmente il referendum porterà ad una divaricazione di destini. Troppo radicale, al limite del brutale, l’accelerazione riformatrice di Matteo Renzi per essere metabolizzata da tutta la tradizione post-comunista. E troppo ripiegati a ricucire le ferite del 2013 gli esponenti di quella tradizione per comprendere e affrontare l’irruzione renziana. Eppure Renzi non veniva dal nulla. Le sue prime Leopolde erano incubatoi di idee dentro il perimetro di una sinistra riformista e blairiana: diversa da quella maggioritaria, ma feconda di innovazioni. Sarebbe stata utile un po’ di attenzione allora senza considerarlo un alieno — salvo poi assistere a pienoni mai visti alle feste dell’Unità a cui veniva invitato… Ora il livello di incomunicabilità ha raggiunto una soglia critica. Qualunque sia l’esito del referendum sarà difficile fare un reset e tornare ai blocchi di partenza. Ipotizziamo due scenari di rottura. Se vince il Sì la minoranza può solo sperare in una sorta di riserva indiana a testimoniare com’erano gli abitanti originari di quel mondo politico. Il segretario può invece proiettarsi tranquillamente verso il centro, anche se finora ha raccolto più consensi tra un ceto politico in cerca di collocamento che tra gli elettori. A quel punto, il Pd come l’abbiamo conosciuto, composito e persino confuso ma ancorato alla tradizione della “sinistra storica”, cessa di esistere. Al suo posto nascerà qualcosa di “democrat”, ancora più indefinito, senza ancoraggi, pronto a navigare in altre acque: il suo vero tratto distintivo sarà rappresentato dalla leadership incontestata del segretario-capo del governo. Insomma un vero e proprio PdR (Partito di Renzi) come dice Ilvo Diamanti. Qualora poi gli sconfitti fuggano dalla riserva indiana loro destinata all’interno del PdR, avranno due opzioni: o la dispersione nella solita congerie di piccole formazioni rissose e irrilevanti, o la sfida alta e rischiosa di puntare ad un rapporto — difficile, scontroso e tutto da costruire — con i 5Stelle, destinati anch’essi, presto o tardi, a definire il loro perimetro politico-ideologico. Due strade accidentate e incerte per i fuoriusciti.
Lo scenario della vittoria del No è più chiaro: Renzi, dopo aver dato dimissioni (salvo un voltafaccia che comunque minerebbe la sua credibilità, con tutte le conseguenze del caso e altri possibili scenari), avrà mano libera a costruire, come molti gli chiedevano già nel 2012, una sua formazione politica che apparirà molto più appealing per l’elettorato moderato (che non ha mai capito cosa ci stesse a fare con quei comunisti…). E il Pd ritornerà, ammaccato e indebolito, nell’alveo tradizionale della sinistra storica.
Queste ipotesi, per quanto viaggino sul crinale della fantapolitica, ci prospettano un periodo di instabilità politica. Del resto, la stabilità non regge se non si condividono idee e progetti, sensibilità e riferimenti politico-culturali: e all’interno del Pd si è persa la capacità e persino il desiderio della condivisione. Ormai, l’implosione è nelle cose. A meno che non si ricompongano le fratture prima del 4 dicembre, con uno sforzo “unitario”, come si sarebbe detto un tempo. Il Pd si trova sulla linea di faglia del referendum ma in questa fase non sono in gioco solo i destini di un partito. È a rischio la tenuta del sistema perché il Pd è oggettivamente, il partito cardine del sistema politico, l’unico che assicura governabilità al centro come in periferia, l’unico che, ad oggi, ha le risorse umane e culturali per dirigere questo paese. Per questo, al di là degli scenari ipotizzati, la sua unità è più importante della vittoria dell’uno o dell’altro campo. Per questo gli uomini di buona volontà del partito devono cogliere l’ultima opportunità per ricomporre i dissidi. I conflitti interni sono il sale della democrazia dei partiti: vanno rispettati e la leadership ha il dovere morale di fare di tutto per appianarli.

Il filo tra sinistra e Berlusconi
di Francesco Verderami Corriere 20.10.16
Chissà se i duellanti della Seconda Repubblica, Silvio Berlusconi e Massimo D’Alema, si sono sentiti. Certo il No al referendum li ha uniti. E l’ex Cavaliere ora fa sapere: «Fidatevi di me...».
ROMA Malgrado l’intervista al Tg5, i suoi alleati continuano a considerarlo «ambiguo» sul referendum. Perciò ieri Berlusconi è tornato a Roma, per dissipare i soliti sospetti e illustrare il planning di battaglia a favore del No: «Produrrò video-messaggi, parteciperò a trasmissioni televisive e rilascerò interviste». Guarda caso è proprio quanto anticipavano giorni fa autorevoli esponenti della minoranza dem, a mezzadria tra Bersani e D’Alema: «Berlusconi ha assicurato che si impegnerà con video-messaggi, interviste e presenze televisive».
Sarà una coincidenza, sebbene anche sulla strategia mediatica si noti un’identità di vedute tra il Cavaliere e D’Alema: «Niente mescolanze. Ognuno faccia campagna elettorale per sé». E infatti l’ex segretario del Pds ha confidato ad alcuni compagni del Pd di essersi pentito per il modo in cui è stata organizzata la convention a favore del No la scorsa settimana, per quel parterre che sembrava una reunion di reduci bipartisan e che «in effetti non ha giovato all’immagine, diciamo».
Poco importa sapere se i duellanti della Seconda Repubblica si siano direttamente sentiti, anche perché le rispettive intendenze — guidate da Schifani e Calvi — si incontrano di regola alle riunioni del comitato referendario. Certo fa effetto sentire «i comunisti» tifare per l’acerrimo rivale: «Scendesse in campo, allora sì che cambierebbero i numeri». Brunetta li ha quantificati in Transatlantico, spiegando la curva dei sondaggi a Bersani ed Epifani: «Con Berlusconi il No arriva al 56%. Lui sposta il 4%». Chissà se il Cavaliere — che da solo regge le percentuali di Forza Italia — abbia gradito la quotazione.
Non c’è dubbio che l’impegno dell’ex premier avrebbe un peso sulla campagna referendaria, ma non accetta di essere pressato da quanti gli chiedono di offrire tutto se stesso alla causa: «Ho ottanta anni e sono stanco», dice per difendersi e per non esporsi troppo, almeno per il momento. Perché al momento Berlusconi è perplesso per una serie di ragioni. Intanto ritiene sia difficile reggere il ritmo mediatico di Renzi di qui al 4 dicembre. E poi gli amatissimi sondaggi gli suggeriscono che è presto per trarre conclusioni: è vero che il No è numericamente avanti, ma è il Sì che vanta la maggiore propensione di elettori disposti ad andare alle urne.
Questo dato sarebbe (anche) determinato dall’effetto «mucchio selvaggio», dal fatto che il fronte ostile alle riforme è troppo eterogeneo, mentre dall’altra parte c’è un commander in chief riconosciuto, cioè Renzi. Il problema a breve sarà pure organizzativo: quando ci saranno i «faccia a faccia» in tv chi — tra M5S, Lega, Forza Italia, Sinistra del Pd, sinistra e basta— andrà a rappresentare il No? Al vertice del centrodestra almeno un’intesa si è raggiunta: in video niente vecchia guardia, bensì sindaci e amministratori della coalizione, come sperimentato a luglio dalla Meloni nella manifestazione «No grazie» di Arezzo. Ma il nodo, ovviamente, è politico. Nel «mucchio selvaggio» il Cavaliere teme di fare il portatore d’acqua per i populisti.
Perciò è prudente. Talmente cauto che nel partito lo rivedono muoversi da «concavo e convesso»: «Il fatto è — spiega l’ex ministro Matteoli — che nessuno crede a un Berlusconi davvero schierato per il No. Quindi bisognerà lavorare per convincere la gente che davvero Berlusconi è schierato per il No». Il primo da convincere è Salvini, che ai forzisti ha manifestato il suo malcontento: «Quelli che potevo portare a votare, li ho portati. Ora tocca a lui». E di lui, cioè di Berlusconi, non ha gradito il passo dell’intervista in cui ha parlato di un «No costruttivo» alle riforme, che gli ha ricordato il «No intelligente» di Gianni Letta: «Evitiamo di mettere appellativi al No. Che già di Sì tra gli amici di Silvio ce ne sono troppi». E giù una bordata pubblica contro il Cavaliere: «Si convinca che il primato nella coalizione oggi è della Lega».
È un modo, quello di Salvini, di proteggersi dalle insidie interne. Ma nasce anche dal sospetto che a Berlusconi non interessi la vittoria del No e nemmeno quella del Sì, che miri a un risultato di misura, per poi piegare Renzi a un compromesso. Eppure ieri il Cavaliere lo ha ripetuto più volte al vertice: «Fidatevi di me». Lo stesso messaggio ricevuto l’altra settimana dalla minoranza dem... 

La polemica americana avrà poco peso sul referendum
di Massimo Franco Corriere 20.10.16
Il rimbalzo di politica interna era inevitabile. E imbarazza quel Pd contrario a Matteo Renzi, che ha sempre considerato Barack Obama un’icona. Nel modo in cui anche la visita americana del premier crea tensione nei fronti del Sì e del No referendari, si avverte la tendenza a leggere in chiave domestica ogni questione internazionale: sebbene sia un esercizio inutile. L’ex segretario del Pd Pier Luigi Bersani dice che si sarebbe aspettato «più garbo e più misura quando si parla di Costituzione», dopo le parole di Obama a favore di Renzi. E Massimo D’Alema parla di una questione «spiegata male».
Leghisti e seguaci di Beppe Grillo, ma anche Gianni Cuperlo della minoranza Dem, sono più diretti. Ricordano che l’ultimo sostegno pubblico del presidente Usa è stato quello a David Cameron prima del referendum del 23 giugno sulla Brexit. E Cameron ha perso. In più, Renzi viene accusato di schierarsi con un’America che vuole accentuare la pressione sulla Russia e chiede un maggiore impegno italiano in Libia. Ma le obiezioni sono le ragioni che spiegano l’appoggio Usa, in una logica che esula dal referendum. È così vero che gli avversari di Palazzo Chigi si soffermano solo sul Sì simbolico di Obama, e trascurano la sua frase più significativa.
È quella in cui l’inquilino uscente della Casa Bianca si augura che Renzi rimanga alla guida del governo comunque vada la consultazione del 4 dicembre. Significa non escludere affatto una vittoria dei No; e far capire che a Washington preme non tanto chi vince o chi perde, ma che in Italia sia garantita la stabilità. II merito di Renzi è di avere convinto gli alleati che non ci sono alternative. Il modo in cui ha personalizzato il referendum si prolunga nei suoi echi all’estero, al di là dell’impegno a non trasformare la campagna in un plebiscito.
Ma risulta difficile pensare che l’abbraccio di Obama possa cambiare gli orientamenti dell’opinione pubblica: nel bene e nel male. Così come possono fare poco le critiche in arrivo dall’Ue sulla manovra di bilancio italiana, liquidate ieri bruscamente da Renzi. C’è chi teme che il sostegno di Obama si riveli a doppio taglio. La destra e il M5S contrastano l’atlantismo del governo, attaccando la Nato: un atteggiamento che acuisce i sospetti di un asse almeno del centrodestra col Cremlino.
«L’Alleanza atlantica, che in teoria dovrebbe difenderci», sostiene il leghista Matteo Salvini, «avrebbe un senso se mettesse navi e uomini nel Mediterraneo per difendere l’Italia. Se invece dobbiamo giocare alla guerra con la Russia...». Le forze della Nato per fermare gli immigrati: lo schema del Carroccio è sempre lo stesso, stavolta evocato per togliere voti al Sì. Ma più di ogni influenza esterna, l’esito del voto del 4 dicembre dipenderà da altro: a cominciare dalla situazione preoccupante dell’occupazione e dell’economia in generale. 

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