sabato 1 ottobre 2016
L'antologia degli scritti in prosa di Ezra Pound: dall'introduzione di Giorgio Agamben
Pound, finestre incandescenti per la rinascita americana
«Dal naufragio di
Europa»: Neri Pozza ha tradotto gli scritti scelti 1909-1965 del poeta
dei «Cantos» a cura di William Cookson, con un saggio introduttivo di
Agamben. Un «guazzabuglio» vorticante e visionario di testi su
Storia, mito, economia, religione, poesia... L’architettura come
«chiave» per il futuro Usa
Caterina Ricciardi Manifesto 9.10.2016, 19:09
Lucida, sullo sfondo dell’analisi di un argomentato e
insospettabile fallimento ‘discorsivo’ (di un senso fruibile) delle
avanguardie novecentesche (e i loro postumi), è la riflessione
introduttiva di Giorgio Agamben a una complessa raccolta di saggi di
Ezra Pound, Selected Prose, curata con grande scrupolo e
perizia nel 1973 dal poeta e critico letterario inglese William Cookson,
il fondatore della rivista poundiana «Agenda». Oggi questo volume, così
essenziale almeno ai fini dell’esegeta di Pound, vede la luce per la
prima volta in italiano sotto un titolo che suona attuale, benché sia
tratto da un verso del Canto 76 («from the wreckage of Europe, ego
scriptor»), distanziato dal nostro inquieto presente da un lasso di ben
settant’anni: Dal naufragio di Europa Scritti scelti 1909-1965 (cura di William Cookson, introduzione di Giorgio Agamben, traduzione di Valentina Paradisi, Neri Pozza, pp. 653, € 28,00).
Il messaggio sulla caduta della tradizione/civiltà occidentale
trascritto da Pound/scriba («Ezra lo scriba», così nella Bibbia: nomen
omen) dalle rovine di allora, a Pisa, sembra superare – a quanto
deducibile dal titolo prescelto – la prova di una «trasmissione» di un
senso che non sacrifica la «verità». Cosa rara! Perché, lungo un
suggerimento di Benjamin, secondo Agamben «alla malattia della
tradizione» – la rottura fra presente e passato – e a un mondo
occidentale già in frantumi, la risposta dei poeti (e di altri artisti)
del primo Novecento fu di «rinunciare alla cosa da trasmettere – la
verità – in favore della trasmissione. Ma una poesia che non trasmette
nulla se non se stessa è ancora poesia?».
La domanda è difficile e preferiamo evaderla (può concernere, tra
l’altro, l’impegno ‘civile’, nella vita reale, dell’artista), per
puntare invece l’ascolto sull’esito che sortì dallo sperimentalismo,
diciamo ‘autotelico’, delle avanguardie storiche del secolo scorso,
confluito non, come ci si aspetterebbe, in una trasmissione della
«lingua e dei sensi» (la poiesis, e, quindi, la «sopravvivenza
spirituale dell’uomo»), bensì in una «trasposizione in termini
estetico-mercantili della crisi epocale». E Pound sarebbe certamente
d’accordo con questo giudizio, perché la sua età «chiedeva», egli dirà
in Hugh Selwyn Mauberley (1920), di «vedere» il Bello (to kalòn)
«giudicato sulla piazza del mercato». Un’aspirazione bassa che
confligge con il suo più ‘mistico’ e innocente (e ‘civile’, se lo si
legge bene) «The Temple is holy because it is not for sale»: il Tempio è
sacro perché non è in vendita (Canto 96).
Soltanto nell’ambito di tale contesto problematico, l’opera di Pound
«diventa intellegibile», perché, aggiunge Agamben, Pound «è il poeta che
si è posto con più rigore e quasi ‘assoluta sfacciataggine’
(unmitigated gall) di fronte alla catastrofe della cultura occidentale»
(e alle sue «merci», alte o basse). Disamina lucidissima e provocatoria,
quella di Agamben, il quale, nel riassestamento dei fondamenti epocali
coinvolti, prepara il lettore italiano alla materia composita di questo
Dal naufragio di Europa, scandita lungo il tempo biografico (e storico) e
le tappe del pensiero estetico e intellettuale del poeta; materia
vorticante di idee disparate su: poesia, storia, mito, economia,
religione, sistema bancario, potere della Chiesa; America, Cina,
Giappone, Europa; mondo classico, Provenza, Medioevo, Rinascimento, età
Vittoriana, età contemporanea; e su personaggi: Remy de Gourmont,
Wyndham Lewis, T. S. Eliot, Jean Cocteau, Marianne Moore…
Come il Tempio Malatestiano
Forse – viene il sospetto – l’insieme eterogeneo di Dal naufragio di
Europa potrebbe sembrare un gran «guazzabuglio» (jumble), uno junk shop,
come Pound scrisse di quel capolavoro non finito che è l’irriverente
Tempio Malatestiano di Rimini, ma esso è ben strutturato, e pieno di
«senso», tant’è che Agamben sa sgarbugliarne il (o un) filo che ci guida
a una maggiore consapevolezza (non tanto del messaggio del poeta ma)
dei mali e delle rotture del nostro tempo, e del tempo a monte del
nostro, riconoscendo il «senso» di Pound, poeta grande e pensatore
eterodosso, un «folle» (così corre la leggenda) perduto nella o dalla
brutale materialità (certo, non spiritualità) dell’economia. E, dunque,
avendo colto il filo d’oro nella trama, Agamben sembra fare di Pound un
autentico nostro contemporaneo (e un contemporaneo del futuro).
Ha pertanto ragione anche Cookson quando nella sua introduzione del 1973
scriveva che nell’«approntare questa selezione il mio scopo è stato
quello di restituire l’unità della visione di Pound e l’integrità dei
suoi interessi. Ho cercato di riunire le definizioni più limpide delle
convinzioni da cui è nata la sua poesia. Disse Yeats: ‘La poesia è la
verità vista con passione’. Si è probabilmente prestata troppa
attenzione alla tecnica dei Cantos a discapito del contenuto. È proprio
perché le idee e i temi di Pound sono di per sé importanti che la poesia
è ancora viva. (…) L’intento è quello di liberarsi dall’idea che
nell’opera di Pound ci sia una frattura di fondo. Io credo che sia ‘una,
indivisibile, una natura che si estende in ogni dettaglio, come la
natura dell’esser quercia o acero si estende a ogni parte della quercia o
dell’acero’(Mencio)». E questa indivisibilità è vera anche del rapporto
prosa/poesia.
Jefferson l’abolizionista
Quanto alla frattura, bisogna ammettere, perché è un dato storico, che
pure Pound (un avanguardista come gli altri) iniziava a pensare e a
poetare in un tempo fratto, squinternato, sull’abisso intervenuto fra
presente e passato, tant’è che nel 1911, dunque ancora prima della
Grande guerra, nel lungo saggio che va a costituire l’esordio di questa
antologia sentiva di poter, o dover, indossare la maschera di una Iside
misericordiosa che raccoglie «le membra di Osiride» (altrove, i disjecta
membra di Ovidio), ovvero i frammenti della civiltà occidentale,
trovandovi sparsi qui e là nel suo percorso alcuni «dettagli luminosi»
da contemplare o esplorare. Il luminous detail (un punto di luce, un
bene, una hilaritas), del quale, nella coniugazione ottativa e volitiva
che gli era propria (e che certo non ebbe l’amico di sempre T. S.
Eliot), farà fondamento teorico di tutta la sua carriera poetica, e
della sua visione. E molti dei saggi (e brevi note epifaniche,
ideogrammatiche, dogmatiche) che seguono «Raccolgo le membra di Osiride»
sono in realtà grandi «dettagli luminosi» (Jefferson e Adams, Mencio e
Confucio, Riccardo di San Vittore e Kublai Kahn, Roma/Amor e Terra
Italica, Credo e Religio…), giustapposti ad altri meno luminosi,
nonostante l’ingannevole apparenza esteriore: la moneta, e derivati.
Emozione genera la lettura di «Patria mia» (così il titolo fin
dall’origine), il saggio del 1913 perduto allora nei corridoi di editori
poco lungimiranti, e poi ritrovato per caso e pubblicato in forma di
libro nel 1950. In italiano apparve nel 1958 – quando Pound risiedeva,
ma ancora per poco, al St. Elizabeths Hospital di Washington – nella
traduzione della lungimirante Margherita Guidacci, la quale con quel suo
gesto poetico (che si sarebbe potuto qui ripetere) permetteva di
ricordare come al centro dell’animo e della mente del poeta ci fossero
sempre stati il rispetto e il bene (res publica) del suo paese. Dove,
nel ’58, ormai liberato e deprivato dei diritti civili, egli intendeva
restare per fondare una sua Ezuniversity, alloggiando, magari, in una
delle casupole abitate un tempo dagli schiavi sulla salita che porta a
Monticello in Virginia, il sacrario neoclassico dell’abolizionista
Thomas Jefferson, il quale nel suo testamento liberò, contro le norme
prescritte, cinque dei suoi schiavi (liberavit masnatos [affrancò gli
schiavi]: sarà un leitmotiv dei Cantos).
L’opera d’arte nell’età delle merci «Patria mia» è un scritto d’amore.
Un pamphlet obiettivo nell’indicare le manchevolezze, o le immaturità,
che egli vedeva nella sua patria, e al contempo la registrazione di un
sogno visionario nell’auspicare un «Rinascimento americano», per la cui
attuazione Pound riandava tacitamente indietro al sogno puritano di una
«City upon the Hill» nel nuovo mondo: «L’America, il mio Paese, è
pressoché un continente e a malapena ancora una nazione, non potendo una
nazione dirsi tale dal punto di vista storico finché non sia riuscita
ad avere al suo interno una città a cui tutte le strade portano e da cui
provenga un’autorità». Difficile non pensare, oltre che a Roma, a
Ecbatana, la città «dai terrazzi color di stelle» del re medio Dioce, la
«città nella mente indistruttibile» del Canto 74.
Il futuro americano Pound lo vedeva soprattutto nell’architettura ma
temeva non tanto le imitazioni (sul modello Roma) quanto la produzione
in serie delle sue altezze: «Stavo discutendo dello stato della nostra
architettura con un uomo che ha ottenuto quello che immagino sia il
nostro ‘Prix de Rome’; almeno ci sono dieci americani tenuti nella città
eterna a imparare quanto possono dall’antica eccellenza di pittura,
architettura e scultura. E io e lui stavamo esaminando l’Italia. In San
Zeno a Verona si trovano colonne alla cui base c’è la firma
dell’artigiano. Così ‘Me Mateus fecit’. Questo è quello che noi non
abbiamo e non possiamo avere dove le colonne vengono ordinate
all’ingrosso. Ed è una questione di ‘condizioni industriali’».
Nel 1913 è (o era) subentrata la merce riprodotta in serie, e l’opera
d’arte in quelle condizioni non sarebbe stata mai «perfetta». Nel suo
atto d’amor patrio, Pound può però aggiungere: «Non di meno, l’America è
l’unico luogo in cui l’architettura contemporanea possa essere
considerata di grande interesse. Almeno, quest’arte è viva». Così viva
da chiedersi: «E New York è la città più bella del mondo? Non ci va
molto lontano. Nessuna notte urbana è come le notti laggiù. Ho guardato
giù da una parte all’altra della città le finestre poste in alto. È in
quel momento che i grandi edifici perdono consistenza e assumono i loro
poteri magici. Sono immateriali; vale a dire che non si vede altro che
le finestre illuminate. Quadrati su quadrati di fiamma, collocati e
intagliati nell’etere. Qui è la nostra poesia, perché abbiamo tirato giù
le stelle a nostro piacimento».
Davvero un gran visionario nel contemplare quei «quadrati intagliati
nell’etere», assaporando la magia «immateriale» dei monumenti che li
incastonano, scalando il cielo fino alle stelle: l’arte si fa
espressione dello spirito. È davvero un gran visionario, Pound, nel
prevedere quella bellezza (forse pure «all’ingrosso») confermata dal
futuro. Spetta agli artisti, lascia capire Agamben, salvare lo «spirito»
(e il mondo) con la poiesis. Ma questo è concesso solo agli artisti cui
capita di nascere con le «antenne» e di assumersi la responsabilità di
un senso civico. «Se non fosse cive», dice col suo senso da qualche
parte Dante – che subì l’esilio –, parole che Pound ripete, citando a
modo suo, da qualche parte.
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