giovedì 27 ottobre 2016

L'atmosfera di Goro



Perché la paura prende la strada dell’idiozia 

Alessandro Dal Lago Manifesto 27.10.2016, 23:00 
La rivolta del paesotto del Ferrarese contro dodici donne e otto bambini è stata definita dalla curia una «notte ripugnante». Non si potrebbe chiamare altrimenti. Bisognerebbe andare a vedere con che faccia questa brava gente di Gorino, o come diavolo di chiama il villaggio, andrà a messa, domenica prima di pranzo, e confesserà qualche peccatuccio o toccatina e farà la comunione e se ne tornerà a casa a divorare un bel piatto di lasagne. Abbiamo paura! Ecco il grido rituale che risuona da venticinque anni nel regno di Padania, aizzato da politicanti con la bava alla bocca e giornalacci scandalistici. 
Paura di dodici donne, tra cui una incinta, e otto bambini? Eh già, ma poi arrivano i padri, i mariti, i fratelli e con loro i criminali, gli imam e poi i tagliagole dell’Isis… Come no. Una ventina d’anni fa i sociologi scrivevano che i migranti delinquono perché sono senza famiglia, allo sbando. Se invece le famiglie si riuniscono, dilaga la poligamia. Se arrivano uomini, sono potenziali terroristi. Se arrivano le donne, sono avanguardia di un’invasione. Se tutti questi difensori ringhianti del campanile e dell’orto di casa avessero il coraggio di dire che provano disgusto per neri, marocchini, siriani e qualsiasi altro alieno perché è alieno, punto e basta, tutto sarebbe più onesto e più semplice. 
E invece no, mica sono razzisti, loro. Hanno paura. 
Ma avranno provato a immaginare la paura di quelle donne e quei bambini quando, sopravvissuti a deserti e tempeste, venivano sballottati tra autobus e caserme dei carabinieri?
Certo, tutti a singhiozzare davanti al corpicino della bambina su una spiaggia turca. Però, che questi orrori restino là, a qualche migliaia di chilometri dai nostri paesini operosi, o sulle remote spiagge di Sicilia, perché qui non li vogliamo, i loro bambini. E così, grazie alle mitologie della paura, la parola “profugo”, che significa una persona che fugge, una vittima, è diventata sinonimo di minaccia. Di fronte alla quale, chiunque si barrica in casa e afferra, per ora solo metaforicamente, lo schioppo. 
Qualche giorno fa, un giornale tedesco, e nemmeno troppo di sinistra, davanti all’ennesima manifestazione dei partiti xenofobi (Pegida, Afd ecc.), si è chiesto con un gran titolo: “Ma i tedeschi sono idioti?” E ha risposto: sì, i cittadini che manifestano sono idioti, la polizia è brutale e i politici sono entrambe le cose. Se consideriamo la situazione europea, dall’Egeo alla Manica, dal mare del nord al Mediterraneo, dovremmo ammettete che l’idiozia dilaga, nelle forme più creative e pittoresche. Il filo spinato macedone, i muri di Orbàn, il cattolicesimo ultra-reazionario e iper-nazionalista polacco, le rivolte in Sassonia contro i profughi, il referendum svizzero contro i comaschi, la chiusura del campo di Calais, il Brexit contro gli operai polacchi. Dico idiozia perché quasi tutte queste decisioni o proteste si ritorcono alla lunga contro chi le promuove. L’Europa si sta decomponendo e questo non faciliterà la vita nemmeno agli elettori di Orbàn, né agli xenofobi sassoni, né ai pensionati di Gorino. E tantomeno ai furbissimi inglesi che hanno votato contro l’Europa e ora rischiano, nell’acre soddisfazione dei continentali, di andare alla deriva con la loro isola sempre più ridimensionata. 
Ma in realtà non si tratta di idiozia, tranne che in alcuni casi di leader politici. Su tratta di un movimento sinistro che sta montando nel ventre d’Europa contro gli stranieri, ingrossato anche da anziani, soggetti socialmente deboli e diseredati, che scaricano su quelli che non conoscono la disoccupazione, la precarietà, la frustrazione, la solitudine o la mancanza di prospettive. E questo è un frutto avvelenato, potenzialmente letale, del cedimento dei governi, socialdemocratici in testa, alla voracità delle banche, dei cosiddetti mercati e del capitalismo globale. 
La xenofobia può erompere nei villaggi, ma le sue motivazioni ultime sono da cercare nelle metropoli globalizzate e nelle roccaforti del potere politico e finanziario.


“Ho adottato un bimbo straniero non potete darmi del razzista” 
L’altra faccia della cittadina sul Po “Da sempre solidali con chi soffre e ha bisogno”

JENNER MELETTI Rep
GORO (FERRARA) UNA bella casa, una bici da ragazzo sul prato. «Ecco, io sarei un razzista. Io e gli altri del paese saremmo quei delinquenti che hanno impedito a donne e bambini di trovare un letto e un piatto caldo nel nostro paese».
SEGUE ALLE PAGINE 12 E 13 CON ARTICOLI DI DI RAIMONDO E GIUSBERTI
«Io sono così razzista che mio figlio sono andato a prenderlo, con grandi sacrifici, a 8000 chilometri di distanza. Ma non voglio parlare di lui, che è il nostro orgoglio. Certamente qualcuno direbbe: ha adottato un bambino dall’altra parte del mondo e adesso si sente in diritto di respingere tutti gli altri». Non vuole nomi, il signor M., perché un figlio «non si può usare come uno scudo». «Io l’altra sera non ero sulle barricate. Ma conosco quelli che erano lì. Hanno fatto le barricate per paura. Non sapevano che sarebbero arrivati bambini e donne. Questo è un paese solidale, ci sono tante associazioni di volontariato. Mio figlio non sa nemmeno cosa significhi razzismo. Eppure, per mezzo mondo, noi siamo diventati dei bastardi. Cerchi di spiegare su Facebook cosa è successo davvero, racconti che se l’assemblea in Comune che è stata fatta dopo il casino fosse stata fatta prima non sarebbe successo nulla, e tanti ti coprono di insulti».
Non è il solo genitore adottivo, il signor M. Sono stati adottati anche due fratelli indiani, un romeno, dei brasiliani… Porumbel Gennari adesso è un uomo, ma quando è arrivato qui dalla Romania, nel 1994, aveva 10 anni. «Mio papà Stefano e mia mamma Rosa mi hanno mandato a scuola. Ho fatto le medie e le professionali e adesso sono pescatore di vongole. Goro per me è stato accogliente, qualche lite fra bambini ma mai perché io sono nato in Romania ». Al Bar dell’Angolo salutano contenti la partenza dell’ultima telecamera. «Noi saremmo gente cattiva? Lo sa che a fine mese io e altri 1300 pescatori toglieremo dalla busta paga 16 euro a testa per pagare due o tre maestre di appoggio alle scuole elementari? Vada in giro per il paese. Ci sono tante coppie di italiani con straniere, ci sono le badanti, c’è il nero che lavora allo stabulario che tifa Juve con noi al bar...».
Si sta costruendo un’altra barricata, a Goro e Gorino. Stavolta per fortuna è fatta solo di parole. «Se avessimo saputo che si tratta di donne, non sarebbe successo nulla. Ma perché prima di farle arrivare non ci hanno detto nulla?». Qualcuno attacca anche il parroco, don Francesco Garbellini, classe 1941, perché si è schierato a fianco delle richiedenti asilo. «Non è nemmeno di qua, ma di Bosco Mesola ( a 4 chilometri, ndr). Perché non le ha prese lui in chiesa? E oggi siamo stati sgridati anche dal Papa».
Don Francesco cerca di stare calmo. «Questo è un paese — dice — fondamentalmente buono e sano. Ma bastano quattro o cinque turbolenti — alcuni arrivati da fuori — per agitare gli animi, e se hanno un megafono, com’è successo l’altra sera, si fa presto a fare cose sbagliate. E se ci fossimo stati noi, al posto di quelle donne sul pullman? Come avremmo reagito? Io cerco di capire come si sia arrivati a questa protesta. Vede, credo che una spiegazione triste ci sia: non ci sono più i cristiani. Non solo perché su tremila parrocchiani solo 120 al massimo vengono a messa la domenica, ma perché tanti vanno avanti per tradizione, perché sono stati battezzati e cresimati. Ma non c’è più la convinzione vera, che si costruisce anche con la formazione. Chi è cristiano — come ha ricordato il grande Papa Francesco proprio oggi — sa che bisogna sempre “accogliere i pellegrini e vestire gli ignudi”. Nel Vangelo di Luca, domenica, si parlerà di Zaccheo, che era piccolo e allora salì su un sicomoro per vedere Gesù. Anche noi dobbiamo salire in alto, con la fede e la cultura. Solo così Gesù potrà vederci e dire, come a Zaccheo, “vengo a casa tua”».
La Lega, qui, è nata nel 1907, ma era quella per «il miglioramento fra gli operai e i pescatori di Goro». Aveva sede nella Casa del Popolo, oggi teatro. Nella biblioteca accanto, si annunciano «storie di Pace» perché «i bambini hanno diritto alle storie». A raccontarle saranno le mamme del Mum The A Tre Project. Come racconteranno le barricate dell’altra notte?
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LE PORTE CHIUSE DEL WEB  
PAOLO DI PAOLO Rep
FRANCESCO ha trent’anni, vive in Friuli, è laureato in Giurisprudenza, è autore di poesie “da cui affiorano ricordi d’infanzia”. Ieri, sul suo profilo Twitter, ha scritto: “Dieci, cento, mille Gorino!”. “Gli abitanti di Goro e Gorino non sono razzisti. Sono persone di buon cuore, gentili e lavoratori”: Flavia lo scrive su Facebook.
LA FRASE è netta, ma non urlata. Gianfranco vive a Bologna, ama i cani e gli animali in generale; se la prende con chi minimizza quella che lui chiama “invasione”: “Vedessi come è ridotto il centro di Ferrara, un mucchio di pusher anche durante il giorno e rari sono quelli di pelle bianca”. Carlo ha la bandiera italiana nella foto del profilo: “Grande onore a chi ha avuto il coraggio che dovrebbero avere tutti gli italiani”.
Pensare ai social network come a uno sfogatoio collettivo, dove le frasi non vengono pesate, non aiuta a capire. Ho passato qualche ora inseguendo hashtag come # stopinvasione, ho trovato migliaia di commenti in cui — con toni pacati, con frasi precise e articolate — quei cittadini di Gorino che hanno “resistito” contro i migranti vengono chiamati — letteralmente — eroi. Non c’è solo chi, come Martina, ligure, sbraita contro “questi profughi che sbarcano con lo smartphone” (tema ricorrente: “hanno telefoni che gran parte di noi italiani se li sogna di notte” dice Gladys), o chi, come l’estensore dei post di Casa Pound, invita gli italiani a “combattere l’invasione”. C’è anche chi — con modi urbani, senza eccessi di aggressività — spiega che i migranti sono “giovanotti che scappano per non lottare per la libertà nei loro paesi, come fece mio padre nel nostro”. Luciano li chiama fuggiaschi: “Scappano abbandonando le rispettive famiglie”. Marco è convinto che la maggioranza degli italiani stia con i cittadini di Gorino: d’altra parte “i clandestini stanno cambiando il nostro Paese, hanno solo pretese, non hanno rispetto e vogliono imporci il loro modo di fare”.
“Siamo il popolo più sottomesso e calpestato del mondo”: è intorno a una volontà di riscatto, a una rivendicazione di orgoglio che ruotano moltissimi interventi in Rete. Un orgoglio — questo colpisce — “italiano”: da Nord a Sud un filo teso, una risposta comune, un’alleanza per reagire all’emergenza, a chi “raccatta clandestini dinanzi le coste africane per vomitarli nelle nostre città e nei nostri quartieri”. Il malessere sociale di cui parlava ieri Ezio Mauro rilancia un sentimento di appartenenza — nervoso, incongruo, fragilissimo: e non si manifesta necessariamente con gli accenti più brutali, non è il coro sgolato degli ultrà. Si traduce in un ragionamento condiviso, non nello strappo consapevole all’etichetta, al politicamente corretto.
Quando Roberto, dal Polesine, invita tutti a rendere onore agli abitanti di Gorino, “gente con i calli alle mani e la pelle bruciata dal sole e dal freddo”, non si sente razzista — e lo scrive. Non sono razzista. Quando Massimo esclama “meno male che gli italiani iniziano a svegliarsi”, dice “anche io sto coi cittadini di Gorino” non si sta lasciando andare allo sfogo di un minuto, individua una “parte giusta” da sostenere. Un orizzonte comune, un’alleanza possibile: “Mille per mille insieme per i cittadini di Goro! I clandestini hanno rotto, basta invasione!” scrive una ragazza che vive a Bologna.
Possiamo cavarcela facilmente con un’alzata di spalle, o con il disprezzo che nasce dal sentirsi migliori — noi Buoni contro i Cattivi. Ma sarebbe, in una forma diversa, lo schema da cui muove uno slogan insensato come “Prima gli italiani”. Se Gianfranco, nell’Italia del 2016, pronuncia con disinvoltura una frase come “rari sono quelli di pelle bianca”, io sono tenuto a chiedermi perché. A domandarmi come sia franato in lui, o non sia mai sorto un tabù anche solo linguistico. È l’aspetto più esteriore, sì. Ma se il linguaggio risulta così inquinato, non può non esserlo il pensiero.
E allora accade che un insegnante possa entrare in classe, a Milano, e spiegare ai suoi ragazzi che devono ribellarsi a “questo nuovo conformismo obbligatorio”. Lo spiega con le parole dell’uomo colto, con la sintassi corretta: “O ci uniamo tutti a disubbidire o tra non molto non potremo neanche dissentire”. Si riferisce a chi ci “lava il cervello, ci indottrina” su Lampedusa. Esorta gli alunni a non vedere un film come Fuocoammare, a non farsi contaminare da “un misero dormentario di propaganda, una schifezza pietistica”. I “mi piace”, a poche ore dalla pubblicazione, erano già settemila. “Mi dispiace sentire che più di qualche profugo si salva. Questa invasione è la peste del terzo millennio. Un altro salvataggio: potevate lasciarli morire” scrive una collega del professore di Milano. Non è il difetto di pietà o di semplice immaginazione ciò che impressiona. È che senta le proprie parole come legittime, come parole “da condividere”.
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