martedì 25 ottobre 2016

L'autobiografia di Ernesto Galli della Loggia e di un ceto intellettuale che in nome di un liberalismo immaginario ha sempre fiancheggiato il liberalismo reale

Ernesto Galli della Loggia: Credere, tradire, vivere. Un viaggio negli anni della Repubblica, il Mulino
Risvolto

In politica come nella vita cambiare idea è inevitabile. E forse anche giusto, in un'epoca come la nostra caratterizzata da mutamenti così profondi e rapidi. In Italia però cambiare orientamento politico, in specie passare da destra a sinistra o viceversa, è sempre stato altamente problematico: chi lo fa si attira l'accusa di essere un trasformista o peggio un voltagabbana e un traditore. Galli della Loggia racconta come il cambiamento/tradimento è stato vissuto, interpretato e concettualizzato nella storia politica italiana. Poi mette in campo se stesso, ripercorrendo i momenti-chiave della propria esperienza e le molte polemiche che lo hanno coinvolto nei principali passaggi della vicenda ideologica del Paese: uno sguardo sulla storia intellettuale e culturale italiana, colta nei suoi inconfessati cambiamenti di fronte, le sue quasi sempre tacite abiure, i suoi pregiudizi, le sue bugie.
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1 Aprile 2017 alle 05:55
L’Italia che non sa cambiare

di Aldo Grasso Corriere 25.10.16
Benedetto Croce sosteneva che «ogni vera storia è sempre autobiografica». Verissimo: nei giudizi, nelle ricostruzioni, nelle analisi è impossibile prescindere dalle proprie esperienze personali, dagli studi che ognuno di noi ha fatto, dalle persone che ha incontrato. Basta ammetterlo, con franchezza. Per questo Ernesto Galli della Loggia in Credere, tradire, vivere . Un viaggio negli anni della Repubblica (il Mulino) non si rifugia dietro quella forma di anonimato accademico («il noi delle tesi di laurea», diceva Roland Barthes) che normalmente usano gli storici di professione, specie quando parlano di cose recenti in cui, in qualche modo, sono coinvolti: «Di qui — scrive l’autore — la natura alquanto inconsueta di questo libro: insieme libro di storia e di ricordi, di vicende pubbliche da un lato e di sentimenti personali dall’altro. E proprio in un grumo di sentimenti (e risentimenti, perché non dirlo) è da cercare l’origine del tema di fondo delle sue pagine: la difficoltà, l’impossibilità di cambiare».
In una puntata della settima stagione di Grey’s Anatomy (anch’io ci metto qualcosa della mia vita), la grande Shonda Rhimes mette in bocca a Meredith queste parole: «Quando diciamo cose tipo “Le persone non cambiano”, facciamo impazzire gli scienziati. Perché il cambiamento è letteralmente l’unica costante di tutta la scienza… È il fatto che le persone cerchino di non cambiare che è innaturale, il modo in cui ci aggrappiamo alle cose come erano invece di lasciarle essere ciò che sono, il modo in cui ci aggrappiamo ai vecchi ricordi invece di farcene dei nuovi». Il cambiamento, con tutti i rischi che comporta, è il motore dell’esistenza. Perché allora ci rifugiamo nell’immobilismo delle idee, in una sorta di eden di specchiata moralità, finanche nel gattopardismo?
Con questo libro variegato, Galli della Loggia ci regala l’esempio più efficace della sua maniera di affrontare la storia. Seguendolo lungo le vie più personali che qui tratteggia, ci troviamo ad avere un’immagine molto più precisa, molto più concreta di questi anni, a partire dal fatidico Sessantotto. Anni che abbiamo vissuto, ma anche anni che la memoria storica cerca di levigare, smussando i contrasti e le non poche contraddizioni.
Nel parlare di questo libro non vorrei seguire il filo cronologico per non rovinare al lettore il piacere delle trame, per non rivelargli come va a finire. Preferirei parlare di alcuni temi che ricorrono e si rincorrono come leitmotiv , come fari nella notte per le nostre povere risorse intellettuali stremate dagli eccessi d’informazione.
Uno di questi è appunto «quel presunto tipico vizio italiano che sarebbe il voltagabbanismo/trasformismo. Vizio storico italiano ma, beninteso, degli “altri” italiani, sempre di quelli dell’altra parte, non della nostra, che invece, come si sa, è immancabilmente quella degli italiani bravi e virtuosi per definizione». Insomma, è possibile «cambiare» senza necessariamente «tradire»? La democrazia non dovrebbe essere il luogo per eccellenza della mobilità delle idee? Anche i padri della Patria, come Camillo Benso conte di Cavour, non hanno forse seguito itinerari tortuosi prima di arrivare, nel caso specifico, a un fulgido esempio di liberalismo progressista? La tesi dell’autore è questa: in politica cambiare opinione è normale, spesso necessario (senza per questo essere additati al pubblico ludibrio). L’unica condizione per un personaggio pubblico è però di ammettere che si è cambiati.
C’è un momento storico che spiega questo atteggiamento moralistico? Il capitolo «Autobiografie della nazione» andrebbe letto e riletto, riga per riga. Perché parla dei conti mai chiusi con il fascismo, della politica che stinge nella morale (e diventerà molto ambigua quando si parlerà di «questione morale» con Enrico Berlinguer), del peso della memoria e della funzione liberatrice dell’oblio. Galli della Loggia si sofferma sul caso Bobbio, quando nel dicembre del 1988 compare sulla prima pagina della «Stampa» un articolo in cui l’insigne filosofo confessa alcuni atteggiamenti «servili» tenuti durante il fascismo. Quello che colpisce non è l’onesta confessione di Bobbio quanto la reazione di alcuni suoi famosi sodali (da Alessandro Galante Garrone a Giorgio Bocca) che insultano chi tenta una qualche riflessione su quella sorprendente dichiarazione. Il passaggio dal fascismo alla democrazia è stato piuttosto caratterizzato da un trasformismo di massa e la «conversione» altro non è stata che dimenticanza (nel mio piccolo ho più volte descritto il passaggio «indolore» dalla Eiar alla Rai, con la beatificazione di quasi tutti i dirigenti storici compromessi).
È stata proprio la mancanza di un processo di autoconsapevolezza sugli errori del passato ad acuire la confusione tra politica e morale, a far considerare il cambiamento con diffidenza, a dividere il mondo tra buoni e cattivi.
Negli anni Sessanta era quasi impossibile non essere di sinistra: «Fu per l’appunto il mio caso. Il caso di chi allora diventò di sinistra quasi naturalmente: perché, guardandosi intorno, erano lì le idee che apparivano più moderne e più vive, lì soprattutto stavano le persone che incontravi e ti colpivano per la loro spregiudicatezza, la loro cultura e la loro capacità critica». Era in quell’ambito culturale che si cercavano i padri ideali, che si interpretavano i fermenti che arrivavano dall’estero, che i laici potevano avvicinarsi al mondo cattolico attraverso le «aperture» del Concilio Vaticano II. Ma era sempre in quell’ambito che si sarebbero presto sviluppati i germi dell’estremismo, le ondate di radicalismo manicheo, le pulsioni antiparlamentari dei gruppi gauchisti, le ideologie più utopiche o assassine. Anni terribili in cui bisognava avere il coraggio di cambiare idea, anche se per molti illustri maître à penser il cambiamento è avvenuto troppo tardivamente.
L’idea che mi sono fatto sui Sixties è che sono stati un periodo decisivo di storia sociale (il nascente benessere e la segregazione razziale, il sogno americano e Il giovane Holden , il dottor Spock e la gioventù bruciata) attraverso l’accumulo di sensazioni, di filmati, di spot pubblicitari, di telegiornali e soprattutto di canzoni. Le idee innovative erano nell’aria, si respiravano con entusiasmo. Poi è arrivato il Sessantotto, il tanto evocato e osannato Sessantotto, che avrebbe ucciso tutto, con la sua pesantezza ideologica, con la sua illusione di sovvertire strutture ed equilibri del capitalismo. Non dunque un punto di partenza, ma un fatale arrivo.
E poi c’è tutta la storia dell’egemonia culturale della sinistra, degli orfanelli del «Politecnico» di Vittorini, di una cultura che cercava risposte politiche alle proprie inquietudini, delle scelte di campo che talvolta obbligano alla cecità.
Rappresentando se stesso all’interno di queste narrazioni che riguardano la storia del nostro Paese, la sua identità (il compromesso storico, la Biennale del dissenso di Venezia, il rapimento di Aldo Moro, l’ascesa di Bettino Craxi, la questione morale di Berlinguer, l’avvento di Berlusconi, l’idea perduta di patria…), e sono narrazioni una più interessante dell’altra, Galli della Loggia stringe un ideale patto di lealtà conoscitiva con il lettore.
Pur esponendosi in prima persona, lo storico non è mai un semplice io, ma una specie di sistema complesso: dove si trovano molte funzioni, molte particolarità secondarie che legano rapporti reciproci e subiscono attrazioni vicendevoli, mentre ruotano attorno a un nucleo centrale.
Ma qual è questo nucleo? È l’uso della storia. Nella sua pagina più importante, quella su cui edifica tutto il libro, l’autore pone una distinzione fondamentale tra uso politico della storia e vocazione pubblica della storia: «L’uso politico è quello che non si fa scrupoli di manipolare in vario modo i fatti o loro aspetti specifici ritenuti cruciali per giudizio universale (tacendoli o distorcendoli palesemente)… la vocazione pubblica della storia, il suo uso pubblico, è invece quella caratteristica dell’indagine storica connessa al clima generale, alla temperie ideale, dell’epoca in cui l’autore vive».
Nella vita, ogni persona intelligente compie un cammino tortuoso, possibilmente di maturazione. Perciò cambia idee, si confronta continuamente con l’immagine virtuale dell’epoca, cerca di vincere l’atrofia della memoria, prende atto di quel misterioso «sentire comune» o «spirito del tempo» che la storiografia filosofica ha chiamato Zeitgeist .
E infatti le pagine più trascinanti sono quelle in cui l’autore depone per un attimo la corazza dello storico e in veste di chroniqueur traccia del suo passato, delle sue avventure esistenziali, degli incontri decisivi: l’esperienza di «Mondoperaio», gli incontri con Livio Zanetti, Lamberto Sechi, Giorgio Fattori e Claudio Rinaldi, la lunga amicizia con Paolo Mieli, l’avventura di «Pagina», lo scontro con gli einaudiani di ferro… La storia delle idee lascia il posto a immagini vive e riccamente articolate.
Oggi lo storico non ha più, come certi suoi colleghi del passato, punti fissi d’orientamento: le grandi ideologie, la divisione in classi, le organizzazioni sociali. È più solo, paradossalmente più nudo. La storia insegna, ma prima ancora segna.

La paura di dirsi osservatori Libri. Ernesto Galli Della Loggia, Credere Tradire Vivere, il Mulino Alessandro Barile Alias Manifesto Pubblicato 1.7.2017, 11:32
Galli Della Loggia è intellettuale che suscita emozioni, e per tale motivo ogni confronto col suo pensiero non può che essere caldo, appassionato, forse anche viscerale. Lungi dal giocare di fino, la grande qualità dell’editorialista del Corriere della Sera sta nel mettere sul piatto sempre un realismo spogliato da mistificazioni deformanti. E’ il pregio d’altronde di ogni posizione forte (e che un tempo si sarebbe detta reazionaria): si può non condividere, ma non si può ignorare né, tantomeno, banalizzare. Quest’ultima fatica editoriale, Credere tradire vivere, segue in perfetta continuità la posizione che da decenni l’intellettuale romano si è ritagliato nel discorso pubblico: la voce della coscienza di una borghesia in crisi d’identità. Della grande borghesia, attenzione. Quella capace, nell’ottica dell’autore, di costruire un’etica pubblica, dei valori universali; in altre parole: una Cultura nazionale. Non è la nostalgia vittimista, né l’ironia post-moderna, a guidarne i ragionamenti, quanto un’arcigna interpretazione del corso della storia.
Si chiede Stefano Feltri dalle colonne del Fatto quotidiano perché il libro di Galli Della Loggia sia stato accolto con tanta plateale indifferenza, concedendosi una risposta forse troppo accomodante: perché chi avrebbe dovuto parlarne è anche l’oggetto delle invettive del libro. Una sorta di coscienza sporca, potremmo definirla, di gran parte del mondo intellettuale accusato di aver “tradito” certi furori giovanili. Permettiamo di avanzare un’altra ipotesi. Il prolifico autore ci sembra scrivere da un ventennio abbondante sempre lo stesso libro. Sempre uguali i protagonisti, identiche le invettive e i “conti da regolare” con la presunta (sotto)cultura dominante. Eppure Galli Della Loggia fa ampiamente parte, anzi ne è uno dei membri onorari, di questa cultura dominante che ha contribuito a plasmare. Da dove deriva questa coscienza infelice allora? Dove la discrasia tra le idee professate in ogni dove e la direzione di questa presunta cultura dominante? Troppo distante questo lamento dalla realtà quotidiana per non somigliare ad una posa studiata, che Della Loggia assume per veicolare meglio il suo discorso.
Il libro intreccia la propria biografia con quella della nazione, dagli anni Sessanta agli anni Novanta. Seguendo un genere ormai abusato, relaziona le vicende personali a quelle di una Repubblica nata dal vizio originario dell’antifascismo, usato come fonte di legittimazione politica. D’altronde, per buona metà del testo l’autore mira alla demolizione scientifica di ogni retorica antifascista, di ogni mitologia costituente. L’antifascismo è, per l’autore, il grimaldello ideologico che ha reso accettabile l’anomalia politica del Pci. Ma questo sotterfugio retorico smaschera le ben più prosaiche intenzioni di Galli Della Loggia. Non si può essere hegeliani a corrente alternata. Drastico nel ridurre la storia a totalità quando si tratta di sottoporla a critica impietosa (lo “spirito dei tempi” ci ricorda costantemente l’autore, autoassolvendosi dall’onta di essere stato “di sinistra”), questa cessa di colpo di essere sintetizzata quando si tratta di demolire il senso della legittimazione antifascista. Cosa rimane una volta fatta la tara degli errori dell’antifascismo? Quale l’alternativa all’antifascismo in un paese “di confine” come quello della Prima Repubblica? Pur nei suoi innumerevoli errori, nelle sue mitologie distorte, nelle sue retoriche consociative, quale “terza via” era concretamente ipotizzabile per un paese uscito dalla lotta contro il fascismo, impregnato di fascismo nella sua burocrazia post-bellica, cedevole a pulsioni autoritarie, queste sì legittimate dallo spauracchio comunista?
Alla fine, quando a crollare insieme al Muro è questa Repubblica deformata, portandosi dietro la vituperata “vigilanza antifascista”, cosa rimane allora di questa Italia che finalmente si è liberata dei suoi lacci ideologici? Ben poco di edificante. Talmente poco che neanche l’autore riesce a gridare: “finalmente!”, perché, proprio in quanto autore intelligente, si rende conto per primo che quella tanto deprecata legittimazione politica fondata sull’antifascismo teneva unito un discorso pubblico che oggi si è rotto in mille pezzi, non più ricomponibili perché non comunicanti tra loro. Il problema è che Galli Della Loggia ha vinto; è il paese che ha perso, scoprendosi improvvisamente a-fascista.

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