martedì 11 ottobre 2016

Le presidenziali americane sono sempre la scelta tra due criminali



L’osceno nascosto dalla guerra
di Tommaso Di Francesco il manifesto 13.10.16
«Noi addestriamo dei giovani a scaricare napalm sulla gente e i loro comandanti non gli permettono di scrivere ‘cazzo’ sui loro cacciabombardieri perché è osceno”: così parla nel finale di Apocalipse Now il maggiore dei Berretti verdi Kurz (Marlon Brando). la frase sintetizza bene l’attuale ipocrisia occidentale. Oscena dovrebbe essere la guerra, ma indignano solo le parole, quelle del magnate isolazionista Donald Trump, sessista e razzista, il peggio dell’America e forse proprio per questo candidato repubblicano alle presidenziali Usa. Che decidono il destino-declino americano, ridotto a scontro su infedeltà coniugali contrapposte, che chiamano in causa anche le responsabilità di Hillary Clinton, private e  pubbliche.
Non ha indignato infatti che i due si siano rincorsi a chi dava più ragione a Netanyahu su come opprimere meglio i palestinesi. The Donald promettendo che con lui presidente «Gerusalemme sarà capitale indivisa dello Stato d’Israele». Un’altra bomba in Medio Oriente, come la dichiarazione di Clinton di «non intromissione tra le parti» , mentre il governo israeliano estende le colonie, l’Anp perde ogni autorità e la situazione nei Territori occupati degenera.
Né è osceno che Trump riapra la partita nel cortile di casa, dal muro anti-migranti con il Messico alla sospensione degli accordi con Cuba, del resto mai definiti.
Né ripugna l’allegro teatrino sulla Siria, con schieramento atlantico al completo ad accusare solo la Russia di crimini di guerra per Aleppo. Ha cominciato Obama, poi sul finire di un mandato inutile Ban Ki-moon,  subito Gentiloni si è accodato, poi è arrivato Hollande e ieri il ministro degli esteri britannico Johnson, quello della Brexit. Ma voi accettereste che un serial killer salga con autorevolezza sul banco dell’accusa per denunciare un altro serial killer?  Perché ci dimentichiamo degli ospedali afghani, yemeniti e siriani colpiti dai raid americani negli ultimi mesi?
Sono crimini di guerra anche quelli, ma gli Usa si scusano, e basta. Certo, i raid aerei russi sono criminali, vanno denunciati, perché si aprano corridoi umanitari per i civili, perché fanno strage di inermi. Urge un cessate il fuoco, implorato in queste ore dal papa che nel settembre 2013 impedì con la preghiera del mondo un altro intervento americano. Mentre scriviamo intanto si annuncia la ripresa del dialogo per sabato. Perché l’obiettivo, almeno quello dichiarato non era forse quello di sconfiggere lo Stato islamico che tiene in ostaggio – dell’espressione scudi umani si è fatto spreco, ma ora non la dice nessuno – gli abitanti della bella e martoriata Aleppo?
E’ così vero che lo stesso inviato dell’Onu Staffan De Mistura ha invitato Al Nusra (Al Qaeda) ad uscire da quell’assedio offrendosi di scortarne altrove i miliziani qaedisti.Insomma, è osceno che nella fase attuale e in procinto delle presidenziali Usa, sia sparito dall’agenda l’Isis. Probabilmente perché emergerebbero le responsabilità occidentali e dell’Amministrazione Usa che ha ereditato le devastazioni politiche delle guerre precedenti, di Bush e di Bill Clinton, in Iraq e in Afghanistan, innestando nuove avventure militari in Libia e poi in Siria.
Per entrambe Obama era riottoso ma venne tirato dentro proprio dall’allora segretaria di Stato, Hillary Clinton (non solo con le mail). Adesso Obama la sponsorizza nei comizi, preoccupato del «mondezzaio Trump», ma solo a marzo  denunciava lo «spettacolo di merda» dato dagli Stati uniti con il fallimento della guerra del 2011 che spodestò nel sangue Gheddafi.
Fatto da non dimenticare la Russia è arrivata un anno fa nella crisi siriana a togliere le castagne dal fuoco proprio agli Usa, impantanati in un altro fallimento, con l’assenza di legami con l’opposizione armata che volevano sostenere, l’ammissione di avere, più o meno consapevolmente, sostenuto il jihadismo armato, in più con la delega sostanziale della crisi all’alleata Turchia del Sultano Erdogan. Che intanto riprendeva la strategia ottomana, sostenendo il jihadismo con armi e traffici di petrolio e rioccupando parti dell’Iraq e della Siria. Tornò sulla scena Putin, dopo l’abbattimento dellaereo civile russo, quasi d’accordo con Obama, cominciando a coordinare le azioni militari sia con gli Usa e con la Francia, che bombardava dopo gli attacchi terroristi sul suolo francese.
Ora la Russia sembra al bando, Il Corriere della Sera ieri apriva in modo poco veritiero con «Il clima di guerra in Russia, incitata dal Cremlino a prepararsi allo scontro con l’Occidente», torna a forza la semi-guerra fredda, un vintage destinato solo a peggiorare. Putin torna, comem in Ucraina, a vestire i panni del nemico ritrovato.
Ripetiamolo: i suoi bombardamenti sono criminali, com’è crimine di guerra colpire un ospedale. Ma quanti ospedali hanno bombardato gli Stati uniti in quest’ultimo periodo facendo stragi di civili? L’osceno della guerra naturalmente è di parte. Mentre si nasconde che a far fallire la tregua – difficile se non impossibile, basata sul riconoscimento sul campo di chi era estremista e chi no – stabilita solennemente il 10 settembre da Serghei Lavrov e John Kerry, è stato il bombardamento americano, «per errore», del 17 settembre scorso di una caserma di Assad a Deir Er Zour, assediata dai jihadisti, provocando la morte di 90 soldati siriani. Da lì è apparso chiaro che la battaglia di Aleppo (con quella di Mosul in Iraq e di Sirte in Libia che da agosto non cade) è entrata nella campagna elettorale americana.
Chi vince d Aleppo ha vinto la guerra, impossibile quindi subire la sconfitta e lasciare l’eredità di uno smacco. La battaglia dunque deve oscenamente continuare, pur sapendo che non ci sarà tavolo negoziale, perché l’opposizione «democratica» non esiste e coordina il suo ruolo militare con i jihadisti e con Al Nusra (ha cambiato nome ma è sempre affiliata ad al Qaeda). E nessuno riesce ad immaginare di negoziare la pace con il peggiore jihadismo armato. Ma lasciare alla Russia la patente di essere rimasta l’unica a combattere davvero l’Isis può essere ancora più miope e pericoloso. Del resto di questo approfitta Putin, che recupera economicamente il Sultano Erdogan e mina l’alleanza militare occidentale con l’Egitto.
Di questo smacco Usa  approfitta il ripugnante Trump per «tornar a fare grande l’America». Un caos osceno. Quello della guerra.

Ufo, tradimenti e terrorismo Le mail che imbarazzano Hillary

WikiLeaks attacca la democratica e diffonde i messaggi del braccio destro
di Paolo Mastrolilli La Stampa 12.10.16
Arabia Saudita e Qatar hanno creato e finanziato l’Isis, Chelsea Clinton è una monella viziata, la vita sessuale di Bill potrebbe danneggiare la campagna presidenziale di Hillary, il suo braccio destro John Podesta è fissato con gli Ufo, Bill de Blasio è un nemico, e Facebook ha regalato dati alla campagna dell’ex segretaria di Stato.
Mentre nel Partito repubblicano scoppia la guerra civile, scatenata dall’audio in cui Trump insultava le donne, WikiLeaks continua a cercare di demolire la candidata democratica, pubblicando mail private che rivelano informazioni come quelle appena citate. Finora nulla di devastante, ma uno stillicidio con cui Julian Assange spera di azzoppare Hillary, magari tenendo nel cassetto le notizie più dannose per tirarle fuori alla vigilia del voto.
Il fondatore di WikiLeaks è impegnato in una lotta personale con Clinton dal 2010, quando lei era segretaria di Stato, e lui aveva pubblicato rapporti diplomatici segreti e imbarazzanti. Questo aveva portato alla «persecuzione» di Assange, oggi nascosto nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra, per evitare l’arresto per un’accusa di stupro in Svezia. Dal suo rifugio Julian ha minacciato di distruggere le ambizioni presidenziali di Hillary, sostenendo di avere circa 50.000 mail della sua campagna. I portavoce della Clinton notano che questi documenti sono stati ottenuti illegalmente, col probabile aiuto dell’intelligence russa, che vuole influenzare le elezioni dell’8 novembre favorendo Trump. Di conseguenza Donald non dovrebbe usarli, e i media non dovrebbero riportali.
Lo stillicidio però continua, tenendo alta la pressione perché i democratici non sanno se WikiLeaks ha già sparato le sue cartucce migliori, oppure le tiene da parte per la fase finale della campagna.
Finora le informazioni più dannose sono state quelle pubblicate alla vigilia della Convention di Philadelphia, che dimostravano come il partito aveva aiutato Hillary a scapito di Sanders. La presidentessa Wasserman era stata costretta a dimettersi, ma gli effetti erano stati contenuti perché Bernie non aveva tolto il suo appoggio all’ex avversaria. Poi sono venuti gli estratti dei discorsi pagati e segreti, che Clinton aveva tenuto ai dirigenti di grandi banche, in cui diceva di avere posizioni private diverse da quelle pubbliche e di favorire commerci e confini aperti.
L’ultima serie di rivelazioni contiene una mail inviata da Hillary a Podesta nel 2014 per dare suggerimenti a Obama su come combattere l’Isis, dove accusava Arabia e Qatar di aver creato e finanziato i terroristi: «Dobbiamo fare pressione sui loro governi». Un messaggio interno suggerisce di limitare la presenza di Bill nella campagna, perché «la sua vita sessuale potrebbe danneggiarla».
Altri documenti dimostrano la diffidenza di Clinton verso il sindaco di New York Bill de Blasio, ex manager della sua campagna senatoriale nel 2000, perché aveva preso posizioni progressiste che contrastavano con le sue: de Blasio chiedeva accesso alla candidata, ma veniva rifiutato. Poi ci sono i documenti che accusano Chelsea di essere una «monella viziata», che attaccava collaboratori storici della madre tipo Huma Abedin perché usavano il nome Clinton per favorire i loro affari personali. Quindi ci sono anche le mail sugli Ufo, che Podesta scambiava con il cantante della band Blink 182 Tom DeLonge. Nulla di paragonabile all’effetto dell’audio di Trump, ma Assange non si arrende.
Come anche Hillary, che ieri sera dal sito del «New York Times», ha avvertito gli americani: «Io sono l’ultima cosa tra voi e l’Apocalisse».

“Io, ultima barriera fra gli americani e l’Apocalisse”
Se il mio rivale fosse un altro non andrei a letto con un nodo allo stomaco Parlando al New York Times Clinton mette in guardia dalla possibile vittoria di Trump. E molti repubblicani la vedono come leidi Federico Rampini Repubblica 12.10.16
NEW YORK. «Io sono l’ultima barriera fra voi e l’Apocalisse». Così Hillary Clinton conclude un’intervista al New York Times.
Toni drammatici, ma non sorprendenti.
E’ vero, ogni candidato ha tendenza a definire la sua campagna come «la più importante della storia». Stavolta ci credono in molti. La frase di Hillary riecheggia commenti che dilagano su molti media dopo il dibattito televisivo di domenica sera. In particolare quella minaccia di Donald Trump, riferita allo scandalo delle email di Hillary: «Se divento presidente nominerò un procuratore per incriminarti e mandarti in carcere». L’indomani, l’America si è risvegliata in versione “Repubblica delle banane”, una di quelle nazioni illiberali dove chi vince un’elezione arraffa tutto, e per gli sconfitti è consigliabile l’esilio, se fanno in tempo a scappare. Molti opinionisti, incluso qualche repubblicano, ormai descrivono l’8 novembre come una scelta tra la democrazia e un salto nel buio. Nella stessa intervista Hillary dice: «Se stessi correndo contro un altro repubblicano, avremmo i nostri disaccordi, non fraintendetemi, e farei di tutto per vincere. Ma non andrei a letto di notte con un nodo allo stomaco».
Le ansie dei democratici sono in parte attenuate dai sondaggi. Più ancora del secondo duello, con ogni probabilità a indebolire Trump è stato lo scandalo del video datato 2005, in cui si vanta di afferrare le donne che gli piacciono senza chiedere permesso, allungando le mani verso le loro parti intime. I sondaggi usciti dopo, accentuano una tendenza che si era già notata dal 26 settembre (primo dibattito in tv), cioè un calo di Trump. L’ultima rivelazione targata Wall Street Journal/ Nbc attribuisce alla Clinton nove punti di distacco sul repubblicano.
E forse bisognerebbe cominciare a mettere fra virgolette l’etichetta “repubblicano”. Non si sa più bene con chi e contro chi stia correndo il tycoon dei casinò (un business nel quale ha dichiarato la sua settima bancarotta l’altroieri, al Taj Mahal di Atlantic City).
E’ un vero caos quello che regna nel partito repubblicano, dopo la scelta del presidente della Camera Paul Ryan d’interrompere le iniziative pro-Trump per concentrarsi solo sulla difesa dei seggi parlamentari in palio a novembre. Il gesto viene interpretato come una scommessa sulla sconfitta di Trump e un tentativo di limitare i danni almeno al Congresso.
L’8 novembre si rinnova l’intera Camera e un terzo del Senato. In genere gli elettori americani sono restii a dare un voto “separato”, cioè eleggere un presidente di un partito e deputati o senatori del partito rivale. Di qui lo scenario per cui i democratici se trascinati dalla vittoria della Clinton potrebbero sottrarre almeno una parte del Congresso (più probabile il Senato) ai repubblicani attualmente maggioritari.
E’ di ieri la dichiarazione di Trump in cui si descrive come finalmente «libero dalle catene» del suo partito, libero cioè di fare campagna come vuole lui.

Il Messico e la grande paura di una vittoria di Trump
di Roberto Da Rin  Il Sole 12.10.16
Effetti collaterali. Le rimesse calerebbero di 12 miliardi di euro nei primi 7 mesi del 2017
Troppo facile scrivere di Donald Trump dall’Europa o dagli Stati Uniti. Delle sue violenze verbali, delle sue dichiarazioni sessiste e dei suoi preoccupanti programmi di politica economica.
Visti da Sud, i problemi derivanti da una sua ipotetica vittoria alle presidenziali sono drammatici. Il Messico, per esempio, Paese di 118 milioni di abitanti con un’economia fortemente interrelata con quella statunitense, fa i conti del 2017. Il governo di Henrique Peña Nieto ha dichiarato che, se Trump vincesse le elezioni presidenziali di novembre, patirebbe una perdita di 14miliardi di euro nei primi sette mesi del prossimo anno. Una cifra enorme scaturita dalla forte contrazione delle rimesse degli immigrati messicani negli Stati Uniti che verrebbero espulsi o licenziati.
Non solo. Un altro aspetto foriero di preoccupazione riguarda la rottura del Trattato di Libero commercio tra Stati Uniti, Canada e Messico, il Nafta, che comporterebbe un ulteriore danno all’economia messicana. « Sia chiaro - spiega una fonte governativa del governo messicano – i danni riguarderebbero anche gli americani». Le scelte politiche anticipate da Trump in merito al Trattato Nafta - che, ricordiamo, è stato siglato nel 1993 da Stati Uniti, Messico e Canada - sono quanto meno allarmanti.
Trump ha ribadito che, qualora vincesse le presidenziali, lo abolirebbe. In un vertice di fine giugno 2016, definito “Tres amigos”, cui hanno presenziato Barack Obama, Enrique Peña Nieto e Justin Trudeau, presidenti di Stati Uniti, Messico e Canada, Trump ha sparato ad alzo zero. «Il primo obiettivo – ha tuonato – è quello di agevolare i lavoratori americani, sempre più penalizzati dal Nafta. Qualora ciò non accada proporrò l’abolizione del Trattato».
Il Trattato di libero commercio è uno dei temi più spinosi dei rapporti bilaterali tra i due Paesi , oltre al tema del narcotraffico.
L’economia messicana è afflitta da una crisi profonda, e il governo di Peña Nieto sarebbe disposto a rivedere alcuni capitoli del Trattato, ma di certo non a cancellarlo. « Una vittoria di Hillary Clinton – si dice a Città del Messico – rappresenterebbe la continuità e, pur nella necessità di riscrivere alcuni passaggi, non costituirebbe un fattore di criticità».
Il Messico è un Paese molto poroso con una frontiera lunga migliaia di chilometri, un mercato di produzione a Sud del Rio Bravo e un mercato di sbocco a Nord. Collusioni, complicità, e decine di frontiere dove transitano enormi quantità di droga.
Quella del Messico, va ricordato, è una economia molto interdipendente con quella americana. Gli Stati Uniti assorbono l’80% delle esportazioni del Messico e gli investimenti americani a Sud del Rio Bravo sono stati pari a 136 miliardi di dollari tra il 1999 e il 2012. Il Messico a sua volta è il secondo socio commerciale degli Stati Uniti. Non solo: per California, Arizona e Texas, il Messico costituisce il primo destinatario di esportazioni.
L’uragano Trump potrebbe scompaginare questi equilibri e la maggior parte delle relazioni economiche. Uno scenario politico che un anno fa pareva inverosimile, oggi non lo è più. Oggi ci sono solo due persone che potrebbero assumere l’incarico di presidente degli Stati Uniti. Una di queste e Donald Trump.
Di certo le tensioni, le problematiche commerciali aperte, sono di vario tipo. La prima è quella relativa alle droghe.
Il Messico è il primo Paese penalizzato dalla strategia di comunicazione di Trump e dai suoi programmi di politica commerciale. Il sentimento antiglobalizzazione cresce, negli Stati Uniti: sono andati persi 4,8milioni di impieghi industriali in 15 anni.
L’esempio più eclatante, ricordato da Trump, è questo: una grande impresa di Indianapolis, nel 2019, trasferirà la produzione di aria condizionata in Messico.

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