martedì 18 ottobre 2016

L'eredità di Bertinotti e Vendola è la peste ulivista che impedisce ogni processo di ricostruzione a sinistra



Balletti a sinistra, quelli del Nì e del So. Con un occhio a Renzi, anzi due 
Referendum costituzionale. Ex vendoliani divisi in tre. Il congresso è a febbraio, ma il voto di dicembre deciderà già tutto. Due senatori si sfilano dal fronte del No: «Ci iscriviamo al partito di Pisapia: quello che non accetta che il confronto sulla riforma si trasformi in uno scontro mortale fra anime progressiste»

Daniela Preziosi ROMA 
18.10.2016, 23:59 
Il Pd si divide e le sue minoranze si trasformano nella «sinistra del No»? Ed ecco che alla loro sinistra anche i post vendoliani si dividono. E se i primi, quelli del Pd, sono sospettati di progettare una scissione verso sinistra, i secondi sono indiziati della preparazione di una verso destra, e cioè verso lo stesso Pd. È il moto perpetuo della sinistra italiana. Una quadriglia senza fine. 
Ieri sono nati i comitati del «So», sillaba fin qui politicamente sconosciuta. Non è né Sì né No, e non essendo neanche Nì fatalmente finisce per assomigliare parecchio a un Sì. Li hanno scherzosamente annunciati il pugliese Dario Stefàno e il sardo Luciano Uras, senatori di Sel da tempo in aperta rottura con il nuovo partito Sinistra italiana, a sua volta schieratissima sul No. 
I due si sfilano dal fronte contrario alla riforma. Perché, spiegano, i comitati sono «di ispirazione partitica» e «non aiuteranno la discussione con e tra i cittadini». La politica deve « gridare e strappare il consenso» ma «accompagnare i cittadini a scegliere con conoscenza e consapevolezza». E loro, in scienza e coscienza sono convinti che in caso di vittoria del Sì non ci sarà alcuna deriva autoritaria: «La Costituzione repubblicana rimarrà intatta nei suoi principi fondamentali», dicono. Ma è l’esatto opposto di quello che sostengono i loro colleghi di Si tutti i giorni e più volte al dì. 
I due non sono i primi della famiglia della sinistra fuori dal Pd ad avvicinarsi alle posizioni del governo Renzi. Già un mese fa l’ex sindaco di Milano Giuliano Pisapia si era chiamato fuori «dallo scontro tra guelfi e ghibellini sul referendum costituzionale». Non era un sì, anche se con i suoi collaboratori ammette di apprezzare la riforma. D’altro canto non è un mistero che a Renzi, che con Pisapia intrattiene rapporti cordialissimi, non dispiacerebbe la nascita di una sinistra ’dialogante’, pronta ad allearsi con il Pd quando l’Italicum – una volta vinto il referendum – sarà modificato con il premio di maggioranza alla coalizioni. Un’alleanza a cui non è invece propenso il nascente partito Sinistra italiana né i suoi front men Nicola Fratoianni e Stefano Fassina. Sarà uno dei ’temi caldi’ del congresso fondativo rimandato a febbraio. 
Secondo Stefàno e Uras la campagna referendaria di Si non va bene: «Ci iscriviamo allo stesso partito di Pisapia: quello che non accetta che il confronto sulla revisione costituzionale si trasformi in uno scontro mortale tra le diverse anime del campo democratico e progressista a danno della prospettiva di un governo avanzato del paese». Cioè di una nuova alleanza di centrosinistra sul modello di quella che ha fatto vincere Sala a Milano (per la cronaca: di misura e solo grazie ai voti della sinistra radicale e dei radicali). Un’idea di nuova coalizione che Pisapia predica negli incontri di queste settimane con l’intento di costruire «una rete a sinistra». E che piace anche al giovane sindaco di Cagliari Massimo Zedda, altro vendoliano non ancora schierato al referendum. E molto caro anche al sindaco di Genova Marco Doria, pure lui fin qui non pervenuto (ma tendente al No secondo chi lo frequenta). 
La scelta dei due senatori forse non farà molti proseliti ma è un dito nell’occhio soprattutto a una parte di Sinistra italiana. Quella che sta su un’altra posizione ancora: una specie di terza via fra la rottura con il Pd e il prematuro fidanzamento con Renzi. Si tratta di un ’gruppo di contatto’ che da mesi lavora – riservatamente ma neanche troppo – per riaprire il dialogo a sinistra. Dodici parlamentari, molti amministratori. Che però, al contrario di Pisapia, militano nel fronte per il No. Convinti che la sconfitta di Renzi riaprirebbe i giochi nel Pd. Quest’area «alternativa» – guidata da Massimiliano Smeriglio e Ciccio Ferrara – guarda alle mosse dell’ex segretario Pd Bersani, da sempre fautore della coalizione. E a quello che può succedere a sinistra in caso di vittoria del No. Non a caso dal 12 al 14 novembre organizza a Roma una festa: special guest Massimo D’Alema, uno dei principali esponenti del No. Francamente insospettabile di simpatie renziane.


IL DAY AFTER DELLA RIFORMA 

ANDREA MANZELLA Rep 18 10 2016
LA PIETRA FILOSOFALE per trasformare in Sì i No alla Grande Riforma dovrebbe trovarsi dunque nelle leggi elettorali (come confermano i colloqui con Scalfari, su Repubblica del 16 ottobre). Le leggi sono due. Una, ancora ignota, per il neo-Senato. Scioglierà un segreto racchiuso nel progetto. Chi eleggerà i senatori- consiglieri-sindaci: lo faranno i cittadini o i consigli regionali? La seconda legge, quella per la Camera, già nota e vigente, soprannominata Italicum, si vorrebbe cambiare per sopravvenuti timori di eccesso di potere.
Le due leggi sono di interesse nazionale. Che su di esse vi sia furibonda discussione soltanto in seno al Pd è la dimostrazione che questo è rimasto l’unico vero “partito”, secondo l’art. 49 della Costituzione, che «concorre con metodo democratico a determinare la politica nazionale».
La questione della elezione del Senato è decisiva per la qualità democratica della riforma. Se la scelta passerà davvero ai cittadini i neo-senatori non saranno solo rappresentanti di istituzioni politiche in circuito chiuso e ripetitivo. Essi rappresenteranno, regione per regione, le “istituzioni della società” — dalla famiglia alle associazioni di interesse — cioè le comunità territoriali “viventi”, nella diversità di identità e capitali sociali.
Si risolverebbe una vistosa contraddizione nella riforma. Qui i senatori, che non rappresentano più la Nazione, avrebbero però poteri di decisione — e quindi di veto — su leggi fondamentali. Dalla revisione costituzionale alla legge per «stabilire i termini della partecipazione dell’Italia » alla normazione e alle politiche dell’Unione europea. Decisioni per natura incidenti direttamente sul nucleo essenziale della sovranità popolare. Difficile dunque scipparle al corpo elettorale di base. Inoltre, resterebbe problematica la tenuta del raccordo tra Stato e regioni e comuni, che è il fine fondativo del nuovo Senato. I neo-senatori eletti dai consigli regionali (di cui però rimarrebbero a far parte) sono liberi da vincoli di mandato. Potrebbero dunque agire in senso contrario all’indirizzo politico della maggioranza (o minoranza) dell’assemblea che li ha eletti. Una rappresentanza illogica nel mandante e nel mandato. Più ragonevole, perciò, un “raccordo” diretto con le realtà territoriali: mentre la Conferenza Stato-Regioni-Comuni continuerà a fare — anche se non “costituzionalizzata” — il suo buon, vecchio lavoro di connessione delle istituzioni centrali con governatori e sindaci.
Di questo “buco nero” di legittimazione, il premier ha ora avvertito, con saggezza, la profondità: “aprendo” a un progetto elettorale, da tempo in Parlamento, che ridà agli elettori il diritto di scegliersi, in collegi uninominali, i loro senatori- consiglieri.
La ragione corrente per cambiare la seconda legge elettorale — per la Camera, l’Italicum — sembra coincidere con la sempre discutibile “paura del tiranno”. Certo, il contesto europeo, dominato dall’emergenza profughi, mostra dovunque chiusure nazionalistiche: prologo a governi assoluti. Ogni cautela è quindi dovuta.
Nella riforma è perciò rilevante l’asimmetria tra poteri del governo e garanzie dell’opposizione. Il governo viene, subito e notevolmente, rafforzato con l’assicurazione di approvazione “a data certa” dei disegni di legge “essenziali per l’attuazione” del suo programma. Le opposizioni, invece, avranno uno “statuto”, come è previsto. Ma le concrete tutele non sono note. Né lo saranno sino a che la maggioranza approverà un nuovo regolamento della Camera.
Il diritto comparato avverte che in questo campo il parallelismo — temporale e qualitativo — è essenziale per l’equilibrio costituzionale. Garanzie parlamentari (future) non possono compensare la mancanza di garanzie scritte nel testo costituzionale. Questo vale soprattutto per la garanzia “regina”: il ricorso preventivo delle minoranze parlamentari al tribunale costituzionale contro i progetti di legge in sospetto di illegittimità. Rimedio presente in tutte le Costituzioni continentali: non si è voluto introdurlo anche da noi. Si sarebbero sanati anche squilibri risalenti al 1994: dalla introduzione del maggioritario.
Come che sia, il premier ha accettato che un comitato tenti di inventare una legge elettorale che non faccia troppo “combinato disposto” con la riforma. Si tratta comunque di questioni nazionali risolvibili “in casa”. Del resto, giornali autorevoli come il Financial Times e il Sole 24 ore scrivono che l’intera Grande Riforma è forse meno grande dell’urlato. Una bufera scatenata sul nulla? Ma chi, allora, specula nel caricare di conseguenze terribili il day after italiano?
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Il governo di scopo e gli scenari del dopo che imbarazzano il fronte del «no»
di Lina Palmerini Il Sole 18.10.16
Nessun governo di scopo se Renzi perde il referendum. Ma il premier deve lasciare e una nuova legge elettorale è necessaria. Le condizioni che ieri dettava Di Maio non chiariscono un punto “aperto”della partita referendaria: cosa succede dopo? Chi governa mentre il Parlamento riscrive l’Italicum?
Ieri Luigi Di Maio ha avuto modo di spiegare a più riprese il suo scenario del “dopo”. Secondo lui, in caso di vittoria del “no”, il premier deve dimettersi ma non se ne deve andare. Nel suo schema «ci sarà un governo per gli affari correnti in carica, che sarà di Renzi, si modifica l’Italicum e poi si va a votare». Come si dice, fa i conti senza l’oste. Senza il Quirinale, a cui compete la scelta, e senza il premier che dovrebbe accettare di restare dov’è -dopo una sconfitta popolare pesantissima - solo perché fa comodo ai 5 Stelle. L’impianto di Di Maio, insomma, è molto fragile ma ha una ragione: l’imbarazzo ad aprire la strada a un Esecutivo non eletto dagli italiani. Questo è il punto. Che il leader del Movimento non nega, anzi lo ammette. «Il rischio – ha detto – è che si faccia un altro governo di scopo che in realtà comincerà a fare altre leggi oltre quella elettorale che non erano nel programma». Per una forza politica che si è sempre richiamata alla volontà popolare, questo effetto collaterale del “no” crea più di un disagio.
Lo dimostra anche il modo in cui fu bloccato Alessandro Di Battista un mese fa. Nella trasmissione televisiva Otto e mezzo, aveva detto: per me, si può votare anche nel 2018, trovare un altro premier e un governo di scopo e fare quindi la legge elettorale. Tempo qualche ora e fu subito smentito da Di Maio che ieri si arrampicava su un Renzi dimissionario ma ancora in carica. E lo stesso disagio si sente anche nelle altre opposizioni. In Silvio Berlusconi, per esempio. Qualche giorno fa, nella sua prima uscita a favore del “no”, ha ripetuto che è contrario a governi che non siano passati per il voto degli italiani. Una posizione da campagna elettorale, per allontanare da sé l’ombra degli inciuci e di un ritorno a braccetto con il Pd dopo la rottura ma che elude del tutto il tema.
C’è insomma un “non detto” che tiene in sospeso lo schieramento contrario alla riforma e che avvantaggia chi sostiene la tesi del “giorno del giudizio”. Se è vero che Renzi e i sostenitori del “sì” fanno propaganda agitando lo spettro del caos istituzionale e politico, dall’altra parte non c’è ancora chi ha smontato pienamente questa tesi. Rispondere che il premier deve restare dov’è, pur dimissionario, o che non deve dimettersi – come dicono i sostenitori del “no” del Pd – non è una soluzione ma solo un modo per evitare di spiegare cosa succede se davvero Renzi lascia. Questo è il tema scomodo. Non c’è l’exit strategy delle urne perché l’Italicum, senza la riforma costituzionale, sarebbe da riscrivere e dunque si dovrà necessariamente trovare un modo per continuare la legislatura. Con quale governo? E, soprattutto, sostenuto da quali forze politiche in Parlamento? Mettere sul tavolo ipotesi più realistiche sul dopo, dire agli elettori cosa possono aspettarsi, anche questa è una questione di trasparenza. Ieri Di Maio è stato investito dalla polemica sulle spese - 100mila euro fatte in tre anni - ma la trasparenza in politica non può riguardare solo scontrini e rimborsi. 

Astensione In una parola.
Pochissimi sono i punti di vista che esplicitamente sostengono questa scelta come dotata di una sua razionalità politica. Fabrizio Barca ci prova
di Alberto Leiss il manifesto 18.10.16
La parola astensione deriva dal tardo latino abstinere e significa più o meno tenere e tenersi lontano da qualcosa, saltuariamente o sistematicamente. In questo secondo caso una parola di significato simile è astinenza, che evoca scelte di carattere anche morale e religioso di cui qui non si tratta.
Gli ultimi sondaggi sui supposti orientamenti dei cittadini per il referendum costituzionale indicano una maggioranza relativa di circa il 40 per cento che dice di non essere intenzionata a votare. Se si somma a questo numero il 30 per cento (del rimanente scarso 60 per cento che afferma di voler votare) di chi si dice ancora indeciso, si ottiene una metà abbondante di elettori che per ora si tengono distanti sia dal Sì che dal No.
Non sarebbe il caso di dedicare un po’ più di attenzione alle motivazioni di questo atteggiamento tanto diffuso?
Un dibattito pubblico tutto concentrato con toni molto acuti sulla radicale contrapposizione tra i partigiani del Sì e quelli del No saprà conquistare la scarsa passione di tutti questi elettori e elettrici? (A proposito, ho visto in qualche commento l’uso del termine radicalizzarsi riferito alla discussione referendaria con significato negativo simile a quello che si usa per l’estremismo jihadista…).
Pochissimi poi sono i punti di vista che esplicitamente sostengono la scelta dell’astensione come dotata di una sua razionalità politica. Ho letto un lungo intervento di Fabrizio Barca, sul suo blog (www.fabriziobarca.it/fabrizio-barca-referendum-costituzionale/) , che invece si pronuncia a favore di una «astensione attiva» (si va a annullare la scheda, e quindi in qualche modo ci si conta distinguendosi da chi se ne sta a casa o va in gita). La sua minuziosa analisi dei pro e dei contro alla riforma cosiddetta Boschi alla fine produce un giudizio di questo tipo: sia che vinca il No, sia che vinca il Sì, immediatamente dopo ci si dovrà impegnare a fondo per correggere i difetti del sistema attuale, se rimane com’è, oppure quelli della nuova configurazione costituzionale, che a suo giudizio non mancano certo nelle norme su cui siamo chiamati a esprimerci. Una posizione che, insistendo sull’esigenza di attuare in ogni caso le prescrizioni e i principi di fondo della Costituzione, che restano invariati, sembra orientata a salvaguardare un’area politica – forse più ipotetica che reale – di mitezza e concretezza in vista di una situazione che si annuncia critica in Parlamento qualunque sia il risultato del voto.
Barca inoltre si distingue da altre posizioni a sinistra sul tema della legge elettorale. Il suo parere sull’Italicum è drastico: un sistema pessimo, anzi «terribile», ma è sbagliato legare la riforma costituzionale al «combinato disposto», giacché le leggi elettorali possono cambiare per via ordinaria, ma l’assetto del sistema dello stato è qualcosa che va giudicato in sé.
Facile criticare come pilatesco o cerchiobottista questo punto di vista, tuttavia quando ascolto l’arroganza e le minacce degli estremisti del Sì, o la faziosità rancorosa e la confusione programmatica di certi sostenitori del No, sento crescere anche in me un «animus» astensionista.
Difficile poi rimuovere qualche interrogativo sulle conseguenze politiche di questo scontro. Avrà ragione D’Alema a dire che la vittoria del No potrebbe mitigare l’arroganza di Renzi. Ma quanto crescerà invece quella dei
Brunetta, dei Grillo e dei Salvini? E se vince il Sì, chi lo ferma più il giovane fiorentino?
Una valanga di «non sto a questo gioco» non potrebbe ridurre tutti a più miti consigli? 

Nessun commento: