mercoledì 12 ottobre 2016

Lo scontro tra bande nella classe dominante italiana

TEMPO DI OLIGARCHIE E DI CHIARIMENTI 
GUSTAVO ZAGREBELSKY 12/10/2016 Rep
L’OLIGARCHIA è la sola forma di democrazia, ha sostenuto Eugenio Scalfari nei suoi due ultimi editoriali su questo giornale. Ha precisato che le democrazie, di fatto, sono sempre guidate da pochi e quindi altro non sono che oligarchie. Non ci sarebbero alternative: la democrazia diretta può valere solo per questioni circoscritte in momenti particolari, ma per governare è totalmente inadatta. O meglio: un’alternativa ci sarebbe, ed è la dittatura. Quindi — questa la conclusione che traggo io, credo non arbitrariamente, dalle proposizioni che precedono — la questione non è democrazia o oligarchia, ma oligarchia o dittatura. Poiché, però, la dittatura è anch’essa un’oligarchia, anzi ne è evidentemente la forma estrema, si dovrebbe concludere che la differenza rispetto alla democrazia non è di sostanza.
TUTTI I governi sono sempre e solo oligarchie più o meno ristrette e inamovibili; cambia solo la forma, democratica o dittatoriale. Nell’ultima frase del secondo editoriale, Scalfari m’invita cortesemente a riflettere sulle sue tesi, cosa da farsi comunque perché la questione posta è interessante e sommamente importante. Se fosse come detto sopra, dovremmo concludere che l’articolo 1 della Costituzione (“L’Italia è una repubblica democratica”; “la sovranità appartiene al popolo”) è frutto di un abbaglio, che i Costituenti non sapevano quel che volevano, che hanno scritto una cosa per un’altra. Ed ecco le riflessioni.
Se avessimo a che fare con una questione solo numerica, Scalfari avrebbe ragione. Se distinguiamo le forme di governo a seconda del numero dei governanti (tanti, pochi, uno: democrazia, oligarchia, monarchia) è chiaro che, in fatto, la prima e la terza sono solo ipotesi astratte. Troviamo sempre e solo oligarchie del più vario tipo, più o meno ampie, strutturate, gerarchizzate e centralizzate, talora in conflitto tra loro, ma sempre e solo oligarchie. Non c’è bisogno di chissà quali citazioni o ragionamenti. Basta la storia a mostrare che la democrazia come pieno autogoverno dei popoli non è mai esistita se non in alcuni suoi “momenti di gloria”, ad esempio l’inizio degli eventi rivoluzionari della Francia di fine ‘700, finiti nella dittatura del terrore, o i due mesi della Comune parigina nel 1871, finita in un bagno di sangue. Dappertutto vediamo all’opera quella che è stata definita la “legge ferrea dell’oligarchia”: i grandi numeri della democrazia, una volta conquistata l’uguaglianza, se non vengono spenti brutalmente, evolvono rapidamente verso i piccoli numeri delle cerchie ristrette del potere, cioè verso gruppi dirigenti specializzati, burocratizzati e separati. Ogni governo realmente democratico non è che una fugace meteora. In quanto autogoverno dei molti, fatalmente si spegne molto presto.
Tuttavia, la questione non è solo quantitativa. Anzi, non riguarda principalmente il numero, ma il chi e il come governa. Gli Antichi, con la brutale chiarezza che noi, nei nostri sofisticati discorsi, abbiamo perduto, dicevano semplicemente che l’oligarchia è un regime dei ricchi, contrapposto alla democrazia, il regime dei poveri: i ricchi, cioè i privilegiati, i potenti, coloro che stanno al vertice della scala sociale contro il popolo minuto. In questa visione, i numeri perdono d’importanza: è solo una circostanza normale, ma non essenziale, che “la gente” sia più numerosa dei “signori”, ma i concetti non cambierebbero (dice Aristotele) se accadesse il contrario, se cioè i ricchi fossero più numerosi dei poveri. Si può parlare di oligarchia in modo neutro: governo dei pochi. Ma, per lo più, fin dall’antichità, alla parola è collegato un giudizio negativo: gli oligarchi non solo sono pochi, ma sono anche coloro che usano il potere che hanno acquisito per i propri fini egoistici, dimenticandosi dei molti. L’oligarchia è quindi una forma di governo da sempre considerata cattiva; così cattiva che deve celarsi agli occhi dei più e nascondersi nel segreto. Questa è una sua caratteristica tipica: la dissimulazione. Anzi, questa esigenza è massima per le oligarchie che proliferano a partire dalla democrazia. Gli oligarchi devono occultare le proprie azioni e gli interessi particolari che li muovono. Non solo. Devono esibire una realtà diversa, fittizia, artefatta, costruita con discorsi propagandistici, blandizie, regalie e spettacoli. Devono promuovere quelle politiche che, oggi, chiamiamo populiste. Occorre convincere i molti che i pochi non operano alle loro spalle, ma per il loro bene. Così, l’oligarchia è il regime della menzogna, della simulazione. Se è così, se cioè non ne facciamo solo una questione di numeri ma anche di attributi dei governanti e di opacità nell’esercizio del potere, l’oligarchia, anche secondo il sentire comune, non solo è diversa dalla democrazia, ma le è radicalmente nemica. Aveva, dunque, ragione Norberto Bobbio quando denunciava tra le contraddizioni della democrazia il “persistere delle oligarchie”. Se ci guardiamo attorno, potremmo dire: non solo persistere, ma rafforzarsi, estendersi “globalizzandosi” e velarsi in reti di relazioni d’interesse politico-finanziario, non prive di connessioni malavitose protette dal segreto, sempre più complicate e sempre meno decifrabili. Se, per un momento, potessimo sollevare il velo e guardare la nuda realtà, quale spettacolo ci toccherebbe di vedere?
Annodiamo i fili: abbiamo visto che la democrazia dei grandi numeri genera inevitabilmente oligarchie e che le oligarchie sono nemiche della democrazia. Dovremmo dire allora, realisticamente, che la democrazia è il regime dell’ipocrisia e del mimetismo, un regime che produce e nutre il suo nemico: il condannato che collabora all’esecuzione della sua condanna. Poveri e ingenui i democratici che in buona fede credono nelle idee che professano!
C’è del vero in questa visione disincantata della democrazia come regime della disponibilità nei confronti di chi vuole approfittarne per i propri scopi. La storia insegna. Ma non ci si deve fermare qui. Una legge generale dei discorsi politici è questa: il significato di tutte le loro parole (libertà, giustizia, uguaglianza, ecc.) è ambiguo e duplice, dipende dal punto di vista. Per coloro che stanno in cima alla piramide sociale, le parole della politica significano legittimazione dell’establishment; per coloro che stanno in fondo, significa il contrario, cioè possibilità di controllo, contestazione e partecipazione. Anche per “democrazia” è così. Dal punto di vista degli esclusi dal governo, la democrazia non è una meta raggiunta, un assetto politico consolidato, una situazione statica. La democrazia è conflitto. Quando il conflitto cessa di esistere, quello è il momento delle oligarchie. In sintesi, la democrazia è lotta per la democrazia e non sono certo coloro che stanno nella cerchia dei privilegiati quelli che la conducono. Essi, anzi, sono gli antagonisti di quanti della democrazia hanno bisogno, cioè gli antagonisti degli esclusi che reclamano il diritto di essere ammessi a partecipare alle decisioni politiche, il diritto di contare almeno qualcosa.
Le costituzioni democratiche sono quelle aperte a questo genere di conflitto, quelle che lo prevedono come humus della vita civile e lo regolano, riconoscendo diritti e apprestando procedimenti utili per indirizzarlo verso esiti costruttivi e per evitare quelli distruttivi. In questo senso deve interpretarsi la democrazia dell’articolo 1 della Costituzione, in connessione con molti altri, a incominciare dall’articolo 3, là dove parla di riforme finalizzate alla libertà, all’uguaglianza e alla giustizia sociale.
Queste riflessioni, a commento delle convinzioni manifestate da Eugenio Scalfari, sono state occasionate da una discussione sulla riforma costituzionale che, probabilmente, sarà presto sottoposta a referendum popolare. Hanno a che vedere con i contenuti di questa riforma? Hanno a che vedere, e molto da vicino. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

Pd, le ragioni che allontanano la scissione 
Federico Geremicca Busiarda 12 10 2016
Allontanata dagli stessi potenziali protagonisti come chiacchiericcio o ipotesi da film di fantascienza, una scissione all’interno del maggior partito italiano rischia - al contrario - di trasformarsi nell’approdo possibile (se non inevitabile) di una crisi interna che si trascina, di fatto, dal giorno dell’elezione di Matteo Renzi a segretario del Pd. 
I maggiori «sospettati» di lavorare alla divisione del Partito democratico (e cioè Bersani, Speranza e Cuperlo, leader delle minoranze interne) hanno nettamente smentito, ieri, di avere nell’orizzonte una tale possibilità. Qualcuno (Bersani) lo ha fatto con la tradizionale ironia: ci vuole l’esercito della Pinotti per cacciarmi via; qualcun altro (Speranza) rifiutando addirittura di entrare nel merito della questione: per me la scissione non esiste. Ma è la motivazione con la quale Gianni Cuperlo ha negato l’ipotesi, invece, a permettere un minimo di ragionamento su quel che il futuro potrebbe davvero riservare.
«Quando la sinistra si è divisa - ha annotato Cuperlo - la mattina dopo non si è risvegliata più forte e autorevole, né con maggiori consensi: ma solitamente più fragile». 
Potrebbe sembrare una dichiarazione rassegnata o pessimista: in realtà, è solo la fotografia di quel che è accaduto in epoca ragionevolmente recente (escludendo, dunque, la scissione che portò, a Livorno, alla nascita del Pci). È una considerazione sottoscrivibile anche oggi, in presenza - cioè - di un Pd che si starebbe «spostando a destra sotto la spinta «modernista» di Matteo Renzi?
Ovviamente, nulla di certo può esser detto in assenza di controprove (che almeno a parole, per altro, nel Pd nessuno dice di voler cercare). Ma poiché dall’avvento dell’«usurpatore» (Renzi, naturalmente) diversi abbandoni eccellenti hanno già punteggiato la vita del Pd, qualche valutazione è forse possibile. L’addio al partito democratico di personalità come Cofferati, Civati, D’Attorre e altri non è paragonabile - in tutta evidenza - ad una eventuale scissione di tutte le minoranze che oggi vivono nel Pd: eppure, quegli addii qualcosa forse insegnano.
La prima, è che il vizio capitale della sinistra italiana (divisioni, appunto; gelosie, personalismi e leaderismi poco sostenuti dal necessario consenso) sembra tutt’altro che guarito. Tra Rifondazione comunista, Sel, Possibile e quant’altro, è in atto da mesi una sorta di inconcludente «guerra fredda», intorno alla cessione di un briciolo di sovranità che permetta la nascita di un soggetto politico unitario (cosa che Sinistra italiana, in tutta evidenza, ancora non è). Si è infatti osservato un tourbillon di veti incrociati e leaderismi che ha fatto gettare la spugna perfino all’uomo che da più parti veniva indicato come il possibile leader di un nuovo partito della sinistra: e cioè Maurizio Landini, letteralmente scomparso, da qualche tempo, dai radar della politica italiana (non certo, naturalmente, del sindacalismo...).
La seconda cosa che quegli abbandoni dovrebbero aver insegnato, è che non basta autoproclamarsi «più di sinistra» per aver successo in un mercato politico le cui regole e il cui tasso di ideologizzazione sono profondamente cambiati. E’ una banalità: ma molte delle risposte e delle ricette tradizionali della sinistra (non solo italiana) non funzionano più. E basta volgere lo sguardo alle dinamiche in atto nell’intera Europa per riceverne conferma. 
Dunque, ricostruire una credibile (e appetibile) sinistra di governo, non è opera semplice. E immaginare di farlo a partire da una scissione che i più interpreterebbero come semplice insofferenza verso l’attuale segretario, potrebbe rendere l’impresa ancor più spericolata. È per questo che una scissione del Pd non sembra ragionevolmente alle porte. Per questo e per altro, naturalmente. Compresa una banale, seppur remissiva, considerazione: che i leader passano e i partiti - salvo scatafasci - restano. Il Pd, onestamente, avrà molti problemi ma non sembra certo sull’orlo di un tracollo. Tutto, dunque, consiglierebbe alla minoranza pd di restare dov’e e continuare dall’interno la propria battaglia. Ma gli umori sono quelli che sono: e non è detto che logica e prudenza alla fine abbiano il sopravvento.
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Cuperlo: il rispetto degli altri è decisivo. Serve un sistema di voto che ci riavvicini agli elettori

«Temo una rottura del nostro mondo Questo partito non è più una comunità»

intervista di Alessandro Trocino Corriere 12.10.16
ROMA Gianni Cuperlo è amareggiato. Intervenire alla Direzione non è stato facile: «Sono giorni pesanti. Mi sembra che nel partito si sia smarrito il senso della comunità. Ogni volta che si interviene, sembra che ci si debba giustificare».
Renzi ha aperto sull’Italicum: è sincero o sta solo prendendo tempo?
«Spero sia consapevole che, comunque la si pensi, il Paese ha bisogno di ridurre le distanze. Anche allargare il consenso su una nuova legge elettorale e sull’elezione diretta dei senatori, è un modo per farlo. E forse è una via per svelenire il clima e limitare una frattura con una parte del nostro popolo».
Vi siederete nel comitato proposto da Renzi?
«Certo. Ho detto che si è riaperto un sentiero e abbiamo il dovere di percorrerlo. Lavoro perché si arrivi in fondo».
Cosa chiedete in concreto per cambiare idea?
«Che il Pd avanzi una sua proposta incardinata sui principi della rappresentanza, di collegi capaci di riavvicinare gli elettori agli eletti e un incentivo ragionevole alla governabilità. Ma per me il tema dominante è quanto questa leadership voglia investire su un campo più largo di noi e su un nuovo centrosinistra».
Senza un accordo sulla legge elettorale, lei voterà No. E ha annunciato anche le dimissioni da deputato. Con che stato d’animo?
«Sono preoccupato e dispiaciuto come tanti. Temo una rottura del nostro mondo perché so che il prezzo lo pagherebbero le persone ed è per questo che chi è alla guida del Pd e del governo dovrebbe farsi carico di dialogo, ascolto e unità. Poi, per carattere, guardo al giorno dopo e in questo senso mi chiedo come non stressare un Paese già provato dalla crisi peggiore della sua storia. Davanti a questo scenario so io per primo che le mie dimissioni sono l’ultimo dei problemi».
Anche gli altri della minoranza, per essere coerenti, dovrebbero farlo? Bersani dice che è un «gesto nobile» ma serve qualcuno che rappresenti il No.
«Ma no. La mia è una scelta personale che ho creduto giusto assumere anche per sgombrare il campo da una polemica sbagliata sul principio della coerenza».
C’è una scissione di fatto di «etica politica», di concezione della politica, tra voi e la maggioranza?
«Non voglio alimentare scomuniche ma vedo differenze nel modo di intendere la comunità, la selezione della classe dirigente, l’idea di partito. Avere opinioni diverse su questioni rilevanti non dovrebbe mettere in discussione il rispetto degli altri. Un partito non si rompe perché non si è d’accordo sul procedimento legislativo. Si rompe se vengono meno la ragione e la funzione che lo hanno visto nascere».
Dopo un vostro no, sarà inevitabile una scissione?
«Lo ripeto, lavoro per rinnovare le ragioni dello stare insieme».
Perché non ha difeso Giachetti, quando Marino lo chiamava, come ha detto, «maggiordomo»?
«Ho sostenuto Giachetti con convinzione. Quel giudizio di Marino era sbagliato. Come sempre è un errore ridurre la polemica a insulto. È una responsabilità di una classe dirigente».
Si parla di Franceschini per il dopo Renzi. È un nome spendibile? Chi c’è in alternativa? E lei correrà?
«Il mio cruccio non è cosa avverrà dopo Renzi. Vorrei affrontare l’oggi e farlo con la consapevolezza dei rischi che investono la qualità delle nostre democrazie e il bisogno di aggredire le enormi diseguaglianze e i nuovi muri che turbano l’Europa tutta. Sul resto, sinceramente, non merita parlare»  

La conta nella minoranza svela un’altra minoranza: in dodici per la riforma
di Alessandro Trocino Corriere 12.10.11
ROMA Miguel Gotor dice che «servirebbe un miracolo». Aggiunge, senza troppa convinzione: «D’altronde siamo tutti credenti». Ma la mistica del referendum è solo un modo per esorcizzare una mutilazione che si sente prossima. E che porta la sinistra del Pd a immaginarsi diversa, se non divisa. Il punto, però, è capire quanto pesi davvero la sinistra del No e quanto rappresenti il Paese che andrà alle urne il 4 dicembre, per confermare o meno la riforma costituzionale.
I numeri veri, naturalmente, si sapranno il 5 dicembre. Ma già ora è guerra di posizione, con sondaggi usati come arma contundente dalle due parti. La maggioranza sventola analisi del voto dove risulta che gli elettori del Pd stanno con il Sì almeno all’83%, come da sondaggio di Nando Pagnoncelli di qualche giorno fa. Per Antonio Funiciello, braccio destro di Luca Lotti, sono anche di più: «Siamo intorno al 90%». Non la pensano così quelli della minoranza. Gotor parla del «20-25%» dei No tra gli elettori del Pd. E Roberto Speranza si spinge fino al 30. Dati che arruolano però anche i «non so».
Prendiamo il sondaggio di Ixe (Weber) per Agorà : tra gli elettori del Pd i Sì sono al 73%, i No al 16, i «non saprei» all’11. Mettendoli insieme, con beneficio d’inventario, si arriva al 27%. Gotor parla di «quasi 2 milioni di elettori». Ma i calcoli son complicati. Perché gli indecisi sono molti e le appartenenze contano fino a un certo punto. È vero che per il No si schierano apparati come l’Anpi e la Cgil. Ma è anche vero che pure nella minoranza del Pd c’è una quota che voterà Sì. Secondo i calcoli della sinistra pd, alla Camera su circa 35 esponenti delle aree di Roberto Speranza e Gianni Cuperlo, saranno circa 25 quelli che voteranno No. Più compatta la delegazione del No al Senato dove, su una ventina, probabilmente solo un paio diranno Sì, Erica D’Adda e Lodovico Sonego. Per il Sì anche un bersaniano doc come il giovane deputato Enzo Lattuca: «Non è un sacrilegio. Anche Bersani, che si definisce moderatamente bersaniano, non considererà traditore chi si esprime diversamente».
Renzi sospetta che il No al referendum sia una prova generale di scissione. E in direzione ha fatto una battuta: «Hanno perfino pronto il logo», riferendosi ai comitati «democratici per il No». Stefano Di Traglia, animatore del comitato e portavoce di Bersani, nega: «Ma no, quel logo muore il 5 dicembre. E poi non sarebbe un bell’inizio per un partito, cominciare con un No nel logo».
Per ora, però, siamo ufficialmente ancora alla trattativa. E alla commissione sull’Italicum proposta da Renzi. Come dice Gotor, «le commissioni in Italia si fanno quando non si vuole fare niente». E Speranza lo dice apertamente: «A noi pare una perdita di tempo». Ma a parte lo scarsissimo ottimismo, la minoranza andrà con un suo rappresentante. Tra gli altri, ci saranno il vicesegretario Lorenzo Guerini in qualità di coordinatore, i due capigruppo Ettore Rosato e Luigi Zanda, e il presidente Matteo Orfini.
C’è chi però sta già lavorando in un’altra direzione. È Massimo D’Alema che, assente alla direzione, sta girando l’Italia in un tour per il No. Oggi alle 16, insieme a Gaetano Quagliariello, partecipa a un’iniziativa promossa a Roma dalle loro rispettive fondazioni, Italianieuropei e Magna Carta. Dove non si limita ad esporre le ragioni del No, ma presenta un disegno di legge costituzionale bipartisan e alternativo alla riforma che prevede la riduzione dei parlamentari e la loro elezione a suffragio diretto. 

La sinistra e il tormento della scissione infinita

Dalla nascita a Livorno del Partito comunista fino a Rifondazione. Tutte le volte in cui ha prevalso la rottura

di Pierluigi Battista Corriere 12.10.16
N o, la scissione mai, dicono. Giammai. Neanche per sogno. Ci devono cacciare. Devono chiamare l’esercito. Eppure nel Pd riaffiora un incubo, un’ossessione, una maledizione che non abbandona mai la sinistra. Anche in Gran Bretagna i laburisti blairiani sono tentati dalla scissione con la maggioranza di Corbyn che ha conquistato il Labour. In Germania i socialdemocratici sono in crisi nera da quando è spuntata la scissione di Oskar Lafontaine. La sinistra italiana ha la pulsione della scissione. Un impulso potentissimo che ha costellato la sua storia di rotture, separazioni, frammentazioni. Il Pd forse non è sull’orlo della scissione, come dicono tutti, e si capisce l’insofferenza di Bersani verso le voci che ne prefigurano l’ineluttabilità. Eppure c’è sempre quell’ombra. Quel tarlo che corrode da sempre i partiti costruiti su basi ideologiche, e la sinistra, che lo voglia o no, è la regina della politica ideologica.
Scissione, in fondo, non è che la versione secolare e mondana dello scisma. E colpisce i movimenti fortemente identitari, quelli più portati a una visione trasformatrice, rigeneratrice, messianica del futuro e meno i partiti più pragmatici. La Democrazia cristiana, che pure la simbologia religiosa la portava sin dal nome, non viveva di scissioni, perché al suo interno convivevano pragmaticamente anime diversissime e addirittura contrapposte tra loro. Quante differenze tra Moro, Andreotti, Fanfani: ma c’erano le correnti che erano tanti partiti in un partito e non si separavano mai. Anche Dossetti era molto ideologico, vedeva nella politica la fonte di una rinascita millenaristica: lui se ne andò ma i dossettiani rimasero e non pensarono mai di scindersi dai dorotei, o dagli andreottiani, o dai morotei, dalla destra moderatissima e clericale e dalla sinistra cattocomunista del partito. Lo Scudo crociato era la corazza comune, ma mai con la scissione incorporata. Anche a destra l’ossessione della scissione colpiva il partito più ideologico di tutti, il Msi, che infatti visse numerose, violente separazioni, da Ordine nuovo negli anni Cinquanta, a Democrazia nazionale negli anni Settanta.
Ma la sinistra è stata l’atmosfera propizia, il terreno fertile di ogni scissionismo. Il Partito comunista nasce a Livorno da una clamorosa scissione e subito dovette difendersi dalla smania scissionistica dei seguaci di Amadeo Bordiga. Il Partito socialista ha avuto una vitalità scissionistica molto pronunciata. Finita la guerra, il frontismo filocomunista di Pietro Nenni scatenò la scissione socialdemocratica di Giuseppe Saragat, che non voleva la subalternità della sinistra socialista allo strapotere di quella comunista. Poi, con la nascita del centrosinistra, il socialismo nenniano seppellisce definitivamente la stagione frontista (grazie anche alla rottura del ’56 con l’invasione sovietica dell’Ungheria) con il comunismo togliattiano e con l’ingresso nel governo con la Dc nasce per protesta il Psiup. Si tenta la riunificazione socialista, Psu, che rimettere sotto lo stesso tetto il Psi e il Psdi, ma alle elezioni è un tracollo, e il Psiup, dopo una disastrosa prova elettorale nel 1972, confluisce nel Pci. Ma non basta, c’è ancora un altro capitolo di questa vertigine scissionistica, perché una parte di psiuppini, capeggiati da Vittorio Foa, non vuole farsi riassorbire dal Pci e dà perciò vita al Pdup, che con l’unificazione (provvisoria) con Il manifesto prende il nome di Pdup per il comunismo.
Inutile parlare della febbre scissionista dei gruppi della sinistra extraparlamentare perché uno studioso delle dinamiche politiche a sinistra degli anni Settanta potrebbe impazzire per individuare qualche differenza significativa tra Pcd’I linea rossa, Pcd’I linea nera, Servire il popolo e Stella rossa (forse qualcuno era più stalinista che maoista, qualcun altro più maoista che stalinista, chissà). Ma con la scissione del Pci dopo la Bolognina il partito della Rifondazione comunista che ne è scaturito si è a sua volta ripetutamente scisso, prima con Diliberto, poi con Vendola (a sua volta sostenuto dagli scissionisti Pd di Fabio Mussi) da una parte e Ferrero dall’altra, senza dimenticare Marco Rizzo. Un’ossessione, un’ombra. Un incubo che, si capisce, si cerca di scacciare via.
di Federico Geremicca La Stampa 12.10.16
Allontanata dagli stessi potenziali protagonisti come chiacchiericcio o ipotesi da film di fantascienza, una scissione all’interno del maggior partito italiano rischia - al contrario - di trasformarsi nell’approdo possibile (se non inevitabile) di una crisi interna che si trascina, di fatto, dal giorno dell’elezione di Matteo Renzi a segretario del Pd.
I maggiori «sospettati» di lavorare alla divisione del Partito democratico (e cioè Bersani, Speranza e Cuperlo, leader delle minoranze interne) hanno nettamente smentito, ieri, di avere nell’orizzonte una tale possibilità. Qualcuno (Bersani) lo ha fatto con la tradizionale ironia: ci vuole l’esercito della Pinotti per cacciarmi via; qualcun altro (Speranza) rifiutando addirittura di entrare nel merito della questione: per me la scissione non esiste. Ma è la motivazione con la quale Gianni Cuperlo ha negato l’ipotesi, invece, a permettere un minimo di ragionamento su quel che il futuro potrebbe davvero riservare.
«Quando la sinistra si è divisa - ha annotato Cuperlo - la mattina dopo non si è risvegliata più forte e autorevole, né con maggiori consensi: ma solitamente più fragile».
Potrebbe sembrare una dichiarazione rassegnata o pessimista: in realtà, è solo la fotografia di quel che è accaduto in epoca ragionevolmente recente (escludendo, dunque, la scissione che portò, a Livorno, alla nascita del Pci). È una considerazione sottoscrivibile anche oggi, in presenza - cioè - di un Pd che si starebbe «spostando a destra sotto la spinta «modernista» di Matteo Renzi?
Ovviamente, nulla di certo può esser detto in assenza di controprove (che almeno a parole, per altro, nel Pd nessuno dice di voler cercare). Ma poiché dall’avvento dell’«usurpatore» (Renzi, naturalmente) diversi abbandoni eccellenti hanno già punteggiato la vita del Pd, qualche valutazione è forse possibile. L’addio al partito democratico di personalità come Cofferati, Civati, D’Attorre e altri non è paragonabile - in tutta evidenza - ad una eventuale scissione di tutte le minoranze che oggi vivono nel Pd: eppure, quegli addii qualcosa forse insegnano.
La prima, è che il vizio capitale della sinistra italiana (divisioni, appunto; gelosie, personalismi e leaderismi poco sostenuti dal necessario consenso) sembra tutt’altro che guarito. Tra Rifondazione comunista, Sel, Possibile e quant’altro, è in atto da mesi una sorta di inconcludente «guerra fredda», intorno alla cessione di un briciolo di sovranità che permetta la nascita di un soggetto politico unitario (cosa che Sinistra italiana, in tutta evidenza, ancora non è). Si è infatti osservato un tourbillon di veti incrociati e leaderismi che ha fatto gettare la spugna perfino all’uomo che da più parti veniva indicato come il possibile leader di un nuovo partito della sinistra: e cioè Maurizio Landini, letteralmente scomparso, da qualche tempo, dai radar della politica italiana (non certo, naturalmente, del sindacalismo...).
La seconda cosa che quegli abbandoni dovrebbero aver insegnato, è che non basta autoproclamarsi «più di sinistra» per aver successo in un mercato politico le cui regole e il cui tasso di ideologizzazione sono profondamente cambiati. E’ una banalità: ma molte delle risposte e delle ricette tradizionali della sinistra (non solo italiana) non funzionano più. E basta volgere lo sguardo alle dinamiche in atto nell’intera Europa per riceverne conferma.
Dunque, ricostruire una credibile (e appetibile) sinistra di governo, non è opera semplice. E immaginare di farlo a partire da una scissione che i più interpreterebbero come semplice insofferenza verso l’attuale segretario, potrebbe rendere l’impresa ancor più spericolata. È per questo che una scissione del Pd non sembra ragionevolmente alle porte. Per questo e per altro, naturalmente. Compresa una banale, seppur remissiva, considerazione: che i leader passano e i partiti - salvo scatafasci - restano. Il Pd, onestamente, avrà molti problemi ma non sembra certo sull’orlo di un tracollo. Tutto, dunque, consiglierebbe alla minoranza pd di restare dov’e e continuare dall’interno la propria battaglia. Ma gli umori sono quelli che sono: e non è detto che logica e prudenza alla fine abbiano il sopravvento.

Bersani: il premier sia più umile e la smetta di paragonarsi a Prodi

“Una commissione per la legge elettorale? Non si nega a nessuno Se voto No non mi dimetto. Se perdiamo non venitemi a chiamare”

intervista di Ilario Lombardo e Francesca Schianchi La Stampa 12.10.16
In mattinata, l’aveva detta così: «Solo se la Pinotti schiera l’esercito mi si potrà far fuori dal mio partito. Quella è casa mia». Pierluigi Bersani è l’uomo più ricercato del giorno e ha voglia di rispondere a chi parla di scissioni imminenti. Nel pomeriggio l’ex segretario dem riceve il vignettista Sergio Staino, neo-direttore dell’Unità, che mesi fa disse a quelli della minoranza Pd che con Togliatti sarebbero finiti in Siberia.
Perché non è intervenuto in direzione?
«Bastavano Gianni Cuperlo e Roberto Speranza a dire le cose come stanno».
La commissione Pd sulla legge elettorale è un’apertura concreta di Renzi, o no?
«(Sorride) Una commissione non si nega a nessuno. Io ho detto a Guerini che noi della minoranza ne faremo parte solo per rispetto a lui».
Cuperlo ha detto che se voterà no si dimetterà da deputato. Lo farà anche lei?
«Quello di Cuperlo è un gesto generoso, ma non è una linea politica. E poi: qualcuno dovrà pur rimanere a testimoniare per il No».
Accetterebbe un confronto tv con Renzi?
«Credo non lo farebbe lui. Io, comunque, non faccio il portavoce del fronte del No».
Come spiegherà agli elettori il No a un riforma che aveva votato in Parlamento?
«Spiegherò che c’è un problema di democrazia, come dicevo già un anno fa. Oggi tutti parlano del pericolo proveniente dal combinato disposto Italicum-riforma costituzionale. Quando lo sostenevo io, eravamo in pochi. Per quel motivo si è dimesso un capogruppo, Speranza, e io per la prima volta in vita mia non ho votato la fiducia al mio partito».
Renzi dice che eravate voi i sostenitori del doppio turno...
«Il doppio turno di collegio, che è ben altra cosa. Lui parla tanto della legge dei sindaci... ma il sindaco è l’amministratore di un grande condominio che è il Comune, non fa leggi, non stampa moneta».
Scenari sul dopo referendum. Se vince il No?
«Non si andrà al voto subito perché bisognerà prima fare una legge elettorale».
Se vince il Sì?
«Può essere che si vada a votare. Ma può benissimo succedere che il Pd perda, e vinca qualcun altro. A quel punto però, non mi venissero a cercare, eh...»
Qual è il pericolo, scusi?
«Visto cosa sta succedendo in Europa, e nel mondo? Io ho l’orecchio a terra, sento il magma che si muove sotto. E poi non pensiamo che la destra nel Paese non ci sia...»
Con l’Italicum si conosce subito il vincitore: non è un bene?
«Possiamo anche saperlo nel pomeriggio, se è per questo. Andiamo da Giletti, estraiamo a sorte una persona e gli diamo il cento per cento. Dai, non scherziamo... Se insisti a semplificare, alla fine trovi qualcuno che semplifica più di te. Anche un rappresentante della nouvelle vague del socialismo francese come Macron ha detto che se c’è la febbre non puoi rompere il termometro».
Smentisce la scissione, anche per il futuro?
«Sembra di assistere al referendum tra repubblica e monarchia. Anche allora, dentro la Dc votarono diversamente, ma il giorno dopo erano tutti democristiani allo stesso modo. Come avvenne nel Pci con l’aborto: mica tutti votarono a favore».
Il clima così è da congresso permanente, però.
«Il congresso sarà importante se separeremo i ruoli di segretario e premier. E non lo dico perché voglio far fuori Renzi. Sarebbe un gesto di generosità per riaggregare il centrosinistra, aprirlo al civismo, alle associazioni. Dobbiamo uscire dalla logica del faccio tutto io e guardare fuori per vedere cosa c’è intorno a noi».
Renzi si è augurato di non passare i prossimi 30 anni a chiedersi chi ha ucciso il Pd, come avete fatto con l’Ulivo.
«Gli consiglio più umiltà: non si paragoni a Prodi, già questo segnala una perdita di dimensioni, sia dal punto di vista delle personalità che ne facevano parte - c’era gente come Ciampi - che da quello della spinta riformista. Potrei parlare per ore delle riforme che abbiamo fatto. Era un governo dove ci davamo del lei e non facevamo una legge di Bilancio in dieci minuti per andare al Tg. Ripetono di guardare al futuro? Cominciamo a non lasciare troppi debiti».
È contrario a più flessibilità?
«Sono favorevole: ma una famiglia si indebita per investire, non per regalare bonus».

Pier Luigi Bersani esclude scissioni: “I democratici sono casa mia, mi caccia solo la Pinotti con l’esercito”.
Ma avverte: “Il partito è solamente un veicolo, mi preme ricostruire un centrosinistra più largo” “Il premier vuole le urne il prossimo anno dico No per evitarle Pronto a sfidarlo in tv”

La commissione per rivedere l’Italicum? Quella non si nega a nessuno. Andremo solo per simpatia verso Guerini La vita finisce dove comincia... Lo dice l’Edipo Re di Pasolini. Bisogna restare a sinistra e guardare al civismo Mi chiamano tanti, gente un po’ dentro un po’ fuori dal Pd, democristiani di quelli buoni, non rutelliani

intervista di Andrea Carugati e Goffredo De Marchis Repubblica 12.10.16
ROMA. «La vita finisce dove comincia ». Pier Luigi Bersani ha appena pronunciato la smentita di rito sulla scissione, con un pizzico d’ironia: «Il Pd è la mia casa, per cacciarmi la Pinotti deve mandare l’esercito». Ma pochi minuti dopo, alla buvette di Montecitorio, torna a ragionare con preoccupazione sul futuro del Partito democratico. E prende a prestito la scena finale dell’Edipo Re di Pasolini con quella frase a tutto schermo: «La vita finisce...».
Niente mucche nel corridoio, stavolta. Non è una delle solite metafore bersaniane. Segna invece la gravità del momento: «Ho detto che a Renzi il cuore lo porta a destra. A me invece mi farà restare sempre qui, a sinistra ». Nel Pd? «Il Pd è un veicolo, l’orizzonte è un centrosinistra largo, che guardi anche fuori dal partito, coinvolgendo il civismo, le associazioni». Secondo l’ex segretario, il referendum e il prossimo congresso dem sanciranno questo bivio: «Bisogna scegliere tra il Partito di Renzi e un nuovo centrosinistra. Io mi batterò per questo. Quando dico che vanno separate le cariche di premier e segretario lo dico perché il Pd si deve mettere a disposizione di questo progetto con generosità. Anche rinunciando ad un nostro candidato premier. È l’unico modo - spiega - per fare fronte a una destra che c’è in tutta Europa, non più liberale e nemmeno liberista, protezionista semmai, con le persone e coi beni, in grado di illudere i lavoratori e i ceti più deboli». L’esempio che usa Bersani è la nuova premier britannica Theresa May. «Ma l’avete sentita? Questo magma sta venendo su anche nella società italiana e alle elezioni ce ne accorgeremo. È come l’Ulivo del 1996, una cosa che riuscì a nascere in pochi mesi perché nella società c’era già. Solo la destra italiana può riuscire a buttare questo biglietto vincente per mancanza di leadership… ». E il centrosinistra? «Se ammainiamo tutte le nostre bandiere verremo travolti da questa roba. E io già vedo il film: se vince il Sì, Renzi e i suoi tirano dritto per la loro strada. Ma dopo non mi vengano a cercare. Anzi, tra due anni sarò io che li vado a cercare se vince questa destra qua. Perché una cosa è chiara: puoi anche vincere il referendum e poi perdere le elezioni politiche».
Bersani appare già proiettato sulle prossime elezioni: «Se vince il No si vota nel 2018, perché serve un governo per fare la legge elettorale. Se vince il Sì forse si vota prima, e quel Sì sarà interpretato come un via libera all’Italicum». L’ex segretario respinge le accuse di strumentalità, di votare No il 4 dicembre dopo aver votato tre volte Sì alla riforma Boschi: «Io avevo già avvertito del pericolo, della semplificazione, quando si votò l’Italicum: Lo dissì all’assemblea dei deputati: in un sistema politico multipolare non puoi avere un sistema che elegge il sindaco d’Italia. Un sindaco può governare anche col 25% perchè amministra un grande condominio. Come si fa a fare un paragone con il presidente del Consiglio? Il Paese è una cosa molto più complicata».
E la commissione per cambiare l’Italicum proposta dal premier? Bersani allarga le braccia: «Una commissione non si nega a nessuno, noi ci andremo per simpatia verso Guerini...». Renzi vi accusa di voler sabotare un governo riformista, come accadde a Prodi nel 1998. «Ma come fa a paragonarsi a Prodi? Ci vogliono più umiltà e senso delle dimensioni. In quel governo c’erano Ciampi e Napolitano, ci davamo del lei, mica facevamo la legge di Bilancio in 10 minuti per andare ai tg. Abbiamo lasciato il debito al 103 per cento, ora è al 133 per cento, ma vedo che si continua a chiedere flessibilità per fare i bonus e altri debiti. Renzi parla tanto di futuro, poi carica così le spalle dei nostri figli».
L’ex segretario non ha alcuna intenzione di seguire l’esempio di Cuperlo, che vuole dimettersi da deputato se alla fine voterà No: «Un bel gesto, ma non può diventare una linea politica », sorride. «Qualcuno dovrà pur restare qui a difendere le ragioni del No, almeno un portavoce... ». Sarà sempre così popolare tra i militanti ora che è schierato contro la Ditta? «Continuerò a andare dove mi invitano e spiegherò la mia posizione». In fondo, non è facile liberarsi di uno come lui, e infatti nel corridoio della Camera lo abbraccia Sergio Staino, il mitico compagno Bobo, che mesi fa voleva spedire in Siberia «Pierluigi» e ora cerca di trattenerlo nel Pd. «E poi guardate che io non sono Mago Magò, non è che se io votassi Sì la gente mi seguirebbe. Molti dei nostri sono già sul No, come quelli che venivano ad ascoltarmi nella campagna per le comunali, applaudivano, ma alla fine mi dicevano: “Guarda che io il Pd non lo voto più”». E i sondaggi che raccontano di una base dem sul Sì oltre l’80 per cento? Non giustifica la strategia renziana della caccia a destra? «I sondaggi?», alza la voce Bersani. «Abbiamo già perso un sacco di voti nostri e quegli elettori che faranno al referendum? ».
L’ex segretario conferma che non aderirà a comitati del No. Ma ora si sente più libero: «Mi chiamano tante associazioni che sono un po’ dentro e un po’ fuori dal Pd. Ci sono anche tanti democristiani di quelli buoni, non rutelliani». Un confronto tv con Renzi lo farebbe? «Non lo accetterebbe lui. Ma sulla democrazia sono pronto a un faccia a faccia con chiunque, anche col premier». Dopo aver detto che il segretario l’ha trattata come un rottame, sono arrivati messaggi da palazzo Chigi? Bersani comincia a ridere, e la limonata quasi gli va di traverso.

Retromarcia Bersani, «scissione mai» Il No è il fischio d’inizio del congresso

Democrack Riforme. L’ex segretario:«Nessuno mi butterà fuori dal mio partito, cioè da casa mia. Servirebbe l’esercito. Cuperlo si sfila? Gesto personale». Italicum, una commissione non si nega a nessuno. Ma il tempo è scaduto, nel Pd al via i comitati del No

di Daniela Preziosi manifesto 12.10.16
ROMA Un passo avanti, due indietro. È bastata tornare a evocare sui giornali la scissione che Pier Luigi Bersani e Roberto Speranza si sono precipitati in Transatlantico – ieri mattina – a spiegare ai cronisti che avevano capito male. «Nessuno mi butterà fuori dal mio partito, cioè da casa mia. Ci può riuscire solo la Pinotti schierando l’esercito», scherza amaro l’ex segretario. Anche il giovane ex presidente dei deputati esclude la rottura: «Qualunque sia l’esito del referendum lavorerò con tutte le mie energie per tenere unito il Pd. Per me la scissione non esiste».
Certo, il solitario colpo di teatro di Gianni Cuperlo – l’annuncio delle dimissioni da deputato se dovesse finire per votare no al referendum – ha messo tutti i suoi compagni in difficoltà. Grazie a quello che in pubblico viene definito «gesto generoso» nella giornata di ieri ha iniziato a spirare un venticello assai poco gentile nei confronti della minoranza Pd, un venticello che sussurrava: «Ma non dovrebbero dimettersi tutti quelli che hanno votato sì per tre volte alla modifica costituzionale ed ora invece si sono trasformati in attivisti del No?». Tesi inedita nel mondo democratico, ma evidente il contagio a 5 stelle avanza. Bersani gela i buttafuori: Cuperlo si dimetta, «ma dimettersi non è una linea politica. Qualcuno dovrà pur rimanere».
Rimarranno loro, dunque, quel che resta dei bersaniani, reduci dei tempi in cui erano maggioranza schiacciante: meno di tre anni fa. Oggi la minoranza è tormentata fra la fuga verso il nulla della propria base e la resistenza dei quadri desiderosi di rientrare in gioco,in qualche modo, al congresso del 2017. Dalla parte del tormento ci sono i «non comitati» dei Democratici per il No, ormai partiti e in rotta di allontanamento dal Pd. «Non sarò il portavoce del No», giura Bersani, ma «c’è un pezzo della nostra gente che stiamo perdendo. E non c’entrano i sondaggi che vengono citati sull’80 per cento del nostro elettorato pronto a votare Sì al referendum. Quei sondaggi comprendono tutti coloro che si dicono disposti a votare il Pd. Ma quanti erano quelli disposti a votare il Pd dopo le europee?».
Dalla parte della resistenza ci sono invece i parlamentari. Per i quali la scelta del No dovrebbe essere depurata dell’aura triste y final che i media le costruiscono intorno. «Non è che dopo il referendum sulla Repubblica i Dc che votarono monarchia sono andati via», ragiona ancora Bersani. E Nico Stumpo, ex uomo macchina dei suoi tempi, ricorda che «sulle questioni costituzionali non c’è alcun vincolo di partito». E dunque comunque vada il referendum non c’è nessun automatismo vverso la scissione. E nessuna ragione politica: se vincerà il No il Pd sarà investito da un ciclone in cui è difficile capire chi resterà in piedi; se vincerà il Sì forse sarà interesse di Renzi coprirsi il proprio fianco sinistro; motivo per il quale guarda di buon occhio i movimenti discreti intorno all’ex sindaco Giuliano Pisapia.
La minoranza resistente vuole fare la sua parte a congresso, e prendersi la sua quota di consenso: e di candidati. Contro «chi vuole semplificare all’eccesso con un’idea che rischia di tagliare le radici» rappresentando «chi pensa a un Pd che vuole una sinistra larga, un Pd che si offre al Paese come forza di governo ma non può fare tutto da solo», ancora Bersani. Anche lui ha incontrato Pisapia e anche lui lo guarda come possibile riferimento di una sinistra radical ma alleabile.
Quanto alla scelta del No, quella è presa. Anche se «un tavolo non si nega a nessuno». Ieri Speranza e Cuperlo hanno confermato la l disponibilità alla commissione proposta da Renzi per discutere di un nuovo Italicum, convinti però che sia Renzi a doversi fare carico della proposta. Anche perché nella riunione della direzione Pd si sono sentite idee diverse, almeno una per corrente. E ieri era tutto un fiorire di ipotesi e emendamenti alle ipotesi. Della commissione faranno parte il vicesegretario Lorenzo Guerini, il presidente Matteo Orfini (giovane turco), i capigruppo Zanda e Rosato (entrambi area Franceschini), e poi un esponente delle minoranze che sarà indicato oggi. Forse anche il ministro Martina vuol far sedere la sua componente al tavolo. Per la prima e unica volta che si riunirà, il tempo di prendere atto che non c’è più tempo.

«Quesito incompleto Così si chiede un plebiscito»
di Dino Martirano Corriere 12.10.16
ROMA «Con un quesito così eterogeneo non si rispetta la libertà di voto degli elettori». Il presidente emerito della Consulta Valerio Onida sintetizza così il motivo che lo ha spinto a rivolgersi al Tribunale civile di Milano (e con un altro ricorso al Tar del Lazio) per rimettere alla Corte costituzionale la questione di legittimità del quesito referendario.
Perché l’elettore potrebbe essere ingannato dal quesito?
«Non tanto ingannato dal quesito, ma leso nella sua libertà di voto per non potersi esprimere in modo diverso sui diversi aspetti eterogenei della riforma. Lo stesso titolo della legge non cita molti punti della legge di revisione costituzionale: l’elezione del presidente della Repubblica, l’approvazione a data certa dei ddl governativi, il controllo preventivo di costituzionalità della legge elettorale, la disciplina del referendum».
Quale sarebbe il vizio di una legge che tocca 47 articoli della Carta?
«Quello di voler fare una “grande riforma” mentre lo spirito del 138 è la revisione puntuale di singoli aspetti della Costituzione, della sua “manutenzione”. Non del suo cambiamento complessivo, quasi che occorresse una “nuova Costituzione”. Solo Berlusconi, finora, ha tentato, senza fortuna, la strada della “grande riforma”».
Lo «spacchettamento» del quesito sarebbe servito?
«Sarebbe necessario, data l’eterogeneità del contenuto della legge. Ma nessuno dei soggetti che hanno chiesto il referendum lo ha proposto. Solo i radicali ci hanno provato, senza però ottenere il consenso dei soggetti legittimati».
Cosa succede ora se il tribunale rimette il giudizio alla Consulta?
«Si chiede di estendere anche al referendum costituzionale quello che essa affermò chiaramente, nella sentenza 16/1978, a proposito del referendum abrogativo: cioè che è inammissibile un quesito referendario eterogeneo, che trasforma il referendum in un plebiscito su un programma politico».

Verso il 4 dicembre. Le istanze a Tar e Tribunale
«Quesito eterogeneo», anche Onida ricorre e chiede la sospensione di Donatella Stasio Il Sole 12.10.16
ROMA È un uno-due pesante quello sferrato ieri dal presidente emerito della Consulta Valerio Onida contro il quesito referendario del 4 dicembre, e che potrebbe sfociare in una «sospensione degli atti del procedimento referendario»(con conseguente rinvio del voto). Con due ricorsi presentati insieme alla professoressa Barbara Randazzo, e rivolti al Tribunale civile di Milano e al Tar del Lazio, Onida contesta la chiarezza e l’omogeneità del quesito che, per la sua «eterogeneità», «viola la libertà di voto» dell’elettore mettendolo di fronte a un «prendere o lasciare l’intero pacchetto senza la possibilità di valutare le sue diverse componenti». Ma sia al giudice civile che al Tar si chiede di investire preventivamente la Consulta per verificare la legittimità costituzionale della legge sul referendum (n.352/1970) là dove non prevede l’obbligo di scissione del quesito; e la Corte, a sua volta, dovrà valutare, in via d’urgenza, anche l’eventuale «sospensione» del procedimento referendario. Poiché, infatti, il referendum è stato indetto per il 4 dicembre, il suo svolgimento «comprometterebbe irrimediabilmente» il diritto degli elettori di esprimere un voto libero, rendendo «inutile» una successiva pronuncia della Consulta. Ci sono quindi i presupposti, secondo Onida, affinché la Corte eserciti quei poteri di sospensione previsti in presenza del «rischio di un pregiudizio grave e irreparabile per i diritti dei cittadini».
I ricorsi di Onida arrivano dopo quelli presentati solo al Tar del Lazio da M5S e Sinistra italiana. In quello dell’ex presidente della Consulta si chiede che il giudice amministrativo «prima sospenda e poi annulli» il decreto di indizione del referendum, nonché «ogni atto preliminare, connesso o conseguenziale» ma, anche qui, previa - se necessaria - rimessione alla Consulta per verificare se gli articoli 4, 12 e 16 della legge 353/70 siano costituzionalmente legittimi là dove «non prevedono che, qualora la legge sottoposta a referendum abbia contenuto plurimo ed eterogeneo, agli elettori debbano essere sottoposti tanti quesiti distinti - a cui l’elettore possa rispondere affermativamente o negativamente - quanti sono gli articoli o le parti della legge che abbiano oggetti omogenei».
Questione identica, appunto, a quella sottoposta al Tribunale civile, al quale si chiede di «accertare e dichiarare» il diritto degli elettori a partecipare al referendum «nel rispetto della libertà di voto, violata dall’eterogeneità del quesito così come risultante dal decreto di indizione». La tesi sostenuta nel ricorso è che nella riforma proposta al voto «sono implicati almeno dieci diversi aspetti, tra loro autonomi»: modifica delle funzioni, composizione e elezione del Senato; rapporti tra governo, maggioranza e opposizione; procedimento legislativo e decretazione d’urgenza; iniziativa legislativa popolare, referendum; elezione e funzioni del Presidente della Repubblica; principi della Pa; soppressione del Cnel; abolizione delle province; modifiche dei rapporti tra Stato, regioni ed enti locali; elezione dei giudici della Consulta. Proporre questo «variegato complesso di modifiche mediante un unico quesito» significa mettere l’elettore di fronte all’alternativa secca di «prendere o lasciare l’intero pacchetto».

L'ex presidente della Corte costituzionale Valerio Onida La via giudiziaria: «Stop al referendum su un solo quesito»
Riforma costituzionale. Piovono ricorsi. L’ex presidente della Consulta Onida si rivolge al giudice di Milano e al Tar, già coinvolti. Arrivano altri tribunali di Andrea Fabozzi il manifesto 12.10.16
Piovono ricorsi contro il referendum costituzionale, nella speranza di alzare una diga giudiziaria laddove sono falliti tutti i tentativi politici di frenare la corsa del presidente del Consiglio. Il ricorso, anzi i ricorsi, di ieri si segnalano soprattutto perché a proporli è l’ex presidente della Corte costituzionale Valerio Onida. Costituzionalista autorevole, avversario della riforma costituzionale Renzi-Boschi, sei mesi fa aveva promosso un appello per il No sottoscritto da 55 suoi colleghi che si concludeva con una nota critica sul quesito referendario, che essendo unico «fa prevalere in un senso o nell’altro ragioni politiche estranee al merito della legge». Per la stessa ragione, e cioè per tutelare il diritto al voto libero che un solo Sì o un solo No su una riforma complessa non garantiscono, ieri Onida ha depositato un ricorso al tribunale civile di Milano con procedura d’urgenza e uno al Tar del Lazio,
I «processi» al referendum si accavallano. A Milano pende quello sollevato dagli avvocati Tani, Bozzi e Zecca per le identiche ragioni sostenute adesso da Onida – il manifesto ne aveva parlato il 22 settembre -, la prossima udienza è prevista per il 20 ottobre a meno che la prima sezione civile non decida di unificare i procedimenti (cosa che allungherebbe i tempi e Onida non si augura affatto). La richiesta alla giudice in entrambi i casi è che venga rimessa alla Corte costituzionale la legge 352 del 1970 che disciplina i referendum, nella parte in cui non prevede l’obbligo di quesiti omogenei e la possibilità di più quesiti differenziati anche per il referendum costituzionale (com’è per il referendum abrogativo, dopo due sentenze del 1978 e del 1987 della Corte costituzionale). Il tribunale civile però, quando anche decidesse di investire la Consulta, non può fermare il treno del referendum, in calendario il 4 dicembre. Ed è impossibile che la Corte decida in tempo. Al più si porrebbe un problema politico, e cioè quello di far votare gli italiani per cambiare la Costituzione su un quesito che potrebbe essere, poi, dichiarato incostituzionale.
Il Tar potrebbe invece sospendere il decreto del presidente della Repubblica che ha convocato le urne, e dunque il referendum. È quello che chiede Onida, come già prima di lui gli avvocati Palumbo e Bozzi e i parlamentari di Sel e M5S De Petris e Toninelli. Questi ultimi hanno chiesto al giudice amministrativo una decisione urgente nel merito, sollevando il problema del quesito sulla scheda, giudicato ingannevole e non rispettoso della legge (che è sempre la stessa 353/70) perché non riporta l’elenco degli articoli della Costituzione che sarebbero modificati dalla riforma. Sul punto il Tar deciderà il prossimo 17 ottobre e in teoria potrebbe ordinare una riformulazione del quesito, facendo inevitabilmente slittare la data del referendum. Onida, e con lui Barbara Randazzo, docente di diritto pubblico a Milano, chiedono invece che anche il Tar rimetta la questione della costituzionalità della legge sul referendum alla Consulta, ma che soprattutto nel frattempo sospenda il decreto del presidente della Repubblica e dunque questo referendum. Altrimenti, si spiega nel ricorso, il diritto al voto libero sarebbe irreparabilmente leso.
Onida, da ex presidente della Consulta che cita in giudizio il presidente della Repubblica e mezzo governo (per ragioni tecniche), ha contato ben dieci «aspetti autonomi» contenuti nella riforma – dalle modifiche al senato all’elezione del capo dello stato, dall’abolizione del Cnel alle novità nei rapporti stato-regioni – sui quali considera sbagliato chiedere agli elettori un solo Sì o un solo No. Ma non trascura di criticare la formula messa a punto dagli uffici del Quirinale nel decreto firmato da Mattarella, dove si parla di «referendum confermativo» cedendo alla retorica renziana, quando il referendum costituzionale è semmai oppositivo: «La circostanza che in questo caso sia stato chiesto anche dalla maggioranza non può avere l’effetto di trasformare la natura della consultazione».
A sostegno dell’iniziativa di Onida si è mossa la rete degli avvocati «anti-Italicum» di Felice Besostri, che ha già portato la legge elettorale davanti alla Consulta. Ricorsi analoghi saranno presentati in altri tribunali italiani, tra i primi Trieste, Genova, Perugia Napoli e Salerno. E venerdì arriverà al Tar del Lazio un nuovo ricorso contro il quesito unico, firmato questa volta dai radicali Magi e Staderini e dal professor Lanchester.

Il 4 dicembre come prova generale delle elezioni
di Massimo Franco Corriere 12.10.16
L’unica cosa chiara, nel fumo polemico che si sprigiona dal Pd, è che «dalla mezzanotte del 4 dicembre tutti penseranno alle elezioni...». Dicendolo, l’ex segretario Pier Luigi Bersani si riferisce anche a sé. E infatti aggiunge: «Non è detto che, se vince il Sì, il Pd poi vincerà le elezioni». Ma tutto sembra destinato ad accelerarsi una volta finita la consultazione: per ognuno dei protagonisti e dei comprimari di questa fase politica. Congresso dem, eventuale scissione, ruolo di Matteo Renzi, prospettive della legislatura, rapporti con il M5S: sono problemi che emergeranno subito dopo.
Ma non prima. Per questo la minoranza dem per ora si è limitata a minacciare un’uscita dal partito, e lo stesso Renzi continua a usare parole di formale apertura alle ragioni degli avversari interni. Sono gli imperativi di una logica referendaria che cerca di salvare almeno il simulacro dell’unità interna; ma in realtà ha già un sapore elettorale. Il voto del 4 dicembre viene considerato come un surrogato e un anticipo di quello politico. Il contorno di ricorsi ai Tribunali amministrativi contro la formulazione dei quesiti, le accuse al governo di monopolizzare la tv di Stato, e di usare strumentalmente le misure economiche, ne sono appendici naturali. La stessa decisione di una par condicio tra fautori del Sì e del No nelle apparizioni televisive ricalca garanzie elettorali. Il tentativo dei Cinque Stelle è di accreditare una partita truccata: un’operazione imitata da alcuni settori di Forza Italia che invocano perfino la presenza di osservatori internazionali per garantire la regolarità del referendum. L’obiettivo è di screditare Palazzo Chigi e il «suo» referendum, additando tutte le forzature, vere o presunte, che sarebbero compiute dal premier.
Ecco perché, nei giorni scorsi, i sindaci grillini hanno minacciato di abbandonare l’Anci, l’Associazione dei Comuni italiani. L’accusa è quella di essere «un club del Pd»: tranne poi precisare che il M5S deciderà a gennaio, quando saranno chiari numeri e rapporti di forza. E ieri è arrivato l’ennesimo blog velenoso di Beppe Grillo, stavolta contro il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan. Renzi, a sentire il leader del M5S, gli avrebbe «dato mandato di forzare sulle previsioni di crescita. E magicamente il governo trova i soldi per elargire le solite mancette...».
È il tema più controverso e scivoloso, per un premier alle prese con i vincoli europei e con un’economia che non riesce a dare veri segnali di ripresa. Per questo i Cinque Stelle martellano su Padoan, facendosi forti delle perplessità espresse anche a livello istituzionale sui numeri di Palazzo Chigi. E poi, tenere i toni alti su questo tema serve a Grillo per distogliere l’attenzione dal pasticcio delle firme false che, secondo l’accusa, sarebbero state scoperte nelle liste presentate dal M5S in Sicilia nel 2012.

Le due facce del Pd prima e dopo il voto
di Lina Palmerini Il Sole 12.10.16
Il referendum non è «l’Apocalisse» e il giorno dopo sarà come il giorno prima, senza conseguenze sul Governo. Lo diceva Bersani parlando del «no» ma il Pd ha dato ben altre prove in passato. Nel 2013 non ha retto la sconfitta elettorale, nel 2014 ha cambiato un premier. Quale faccia avrà il 5 dicembre?
Non è scontato quello che diceva ieri Pierluigi Bersani conversando con i giornalisti a Montecitorio. Magari è auspicabile ma niente di quello che è accaduto in passato nel Pd porta alla soluzione descritta dall’ex segretario. Naturalmente lo scenario su cui i cronisti lo incalzavano era quello della vittoria del no, vera incognita sulle sorti politico/istituzionali. E il perno di questo assetto, oggi, è ancora il Pd che in questi anni ha deciso e votato due governi, eletto due presidenti della Repubblica ma solo dopo numerosi travagli. Nel 2013 la sconfitta di Bersani portò a una spaccatura profonda e a un cortocircuito per cui non si riuscì a formare un Governo e nemmeno a eleggere un nuovo capo dello Stato. Il partito si frantumò nelle votazioni segrete sul presidente della Repubblica, se ne uscì con il bis di Napolitano ma poi il segretario fu costretto a dimettersi. Subito dopo nacque il Governo Letta.
Dopo un anno, fu una direzione del medesimo partito che sfiduciò Letta e spalancò le porte a Matteo Renzi dopo la sua vittoria alle primarie. Oggi il referendum propone un bivio simile. Difficile pensare come Bersani che il giorno dopo sarà come il giorno prima. Innanzitutto perché in questi anni i Democratici hanno sempre mostrato due facce, due versioni di sé. Prima e dopo le elezioni del 2013, prima e dopo le primarie di quello stesso anno. Anche legittimamente sono state cambiate le carte politiche sul tavolo perché la vittoria o la sconfitta sono fatti dirimenti in democrazia di cui un partito deve prendere atto. Difficile che il “no” sia privo di effetti, forse non sarà l’Apocalisse ma proietterà certamente una nuova faccia del Pd.
Se già oggi il partito arriva diviso al referendum, tra la minoranza verso il no e il resto del partito per il sì, è chiaro che la sconfitta del premier alle urne aprirà una nuova resa dei conti. I renziani addebiteranno la sconfitta anche alla minoranza, si rivedranno le correnti che finora hanno deciso le sorti dei governi: i giovani turchi o l’area di Franceschini. Insomma, il giorno dopo sarà un giorno come gli altri del passato in cui si aprirà una resa dei conti. Su Renzi premier e su Renzi segretario. Forse la minoranza non chiederà le dimissioni del Governo, come diceva ieri Bersani, ma è possibile che le chiedano come segretario del Pd. E una risposta già l’ha data ieri il leader nella trasmissione Politics: «Il Congresso si farà nel dicembre dell’anno prossimo». Dunque resterà segretario Pd. Una minaccia di guerra non di pace.
Sarà compito di Sergio Mattarella diradare la nebbia sul giorno dopo ma sarà più complicato con un Pd in lotta, come è quello che si vede già in queste ore. Difficile immaginare un Governo Renzi bis in queste condizioni. Con i 5 Stelle e il centro-destra che vorranno un nuovo Esecutivo e una conclamata divisione nel Pd. E con una nuova legge elettorale da fare.

L’eccesso di decisionismo di Renzi sul referendum
di Paolo Franchi Corriere 12.10.16
Dice bene Aldo Cazzullo (Corriere, 5 ottobre): in questi tempi calamitosi è molto imprudente sotto ogni cielo, per governi e capi di governo, sottoporsi al giudizio popolare mediante referendum. Tra tutti gli esempi che Cazzullo fa, per compararli al caso italiano, il più calzante è ovviamente quello di Cameron, che, sul no alla Brexit, ha puntato tutto in una volta sola e in una volta sola ha perso tutto. Matteo Renzi, come è noto, aveva fatto la medesima scelta sul referendum costituzionale o, per essere più precisi, sul combinato disposto tra il referendum e l’Italicum: in caso di sconfitta, non solo lascio la guida del governo, ma abbandono la politica. Da qualche tempo, si sa, ha corretto (anche se a giorni alterni) il tiro, un po’ per le autorevoli sollecitazioni del presidente della Repubblica in carica e del presidente emerito, un po’ perché deve essersi reso conto di aver imboccato una strada assai perigliosa. Nessun combinato disposto, per cominciare: alla legge elettorale si può rimettere mano, e fa nulla se il governo, caso più unico che raro, per approvarla ha posto in più circostanze la fiducia.
Quanto alla riforma costituzionale, niente di personale, ci mancherebbe. Di più: aver messo sul piatto con tanta forza le proprie sorti di premier e di leader di partito è stato un errore che ha fornito armi propagandistiche ai sostenitori del No. I quali però, lungi dal prendere cavallerescamente atto della sua pubblica (semi) ammenda, continuano imperterriti a rinfacciarglielo e a personalizzare una contesa che invece, come insegna il galateo politico e istituzionale, dovrebbe avere per oggetto il merito dei cambiamenti introdotti.
Lasciamo pure da parte il fatto che in politica la cavalleria non è di casa, e, se sbagli, anche se è vero che errare è umano, nessuno, neanche chi, come la minoranza del Pd, ha sbagliato più di te, ti perdonerà l’errore. Ed evitiamo anche di soffermarci, visto che la percentuale degli indecisi è ancora altissima, su quanto rendono noto i sondaggi di Nando Pagnoncelli, ripresi da Cazzullo, secondo i quali gli elettori in maggioranza approvano i singoli capitoli della riforma, ma chiamati a pronunciarsi sul suo insieme propendono per il No. Forse è proprio la categoria dell’«errore», salita all’onore delle cronache e delle analisi politiche dopo l’intervento di Giorgio Napolitano alla scuola di politica del Pd, a funzionare poco.
Nei congressi democristiani, quando eravamo più giovani, si diceva, anche se la realtà sembrava quanto meno più complessa, che la Dc era «sempre tesa» verso qualche nobile obiettivo; in quelli comunisti che, «nonostante errori, limiti, ritardi e contraddizioni», la linea del partito si era rivelata saggia e giusta. Ma erano, appunto, altri tempi, tempi in cui formule come quella democristiana del «progresso senza avventure» o quella togliattiana del «rinnovamento nella continuità» avevano un senso, eccome, agli occhi non solo dei militanti, ma di milioni di elettori.
Da allora tutto è cambiato, anche se non necessariamente in meglio. A nessuno passerebbe per la testa di sostenere che il futuro ha un cuore antico, anche le decisioni più importanti — comprese quelle che riguardano non solo i viventi, ma pure le generazioni a venire, come è, o dovrebbe essere, per le Costituzioni — hanno un orizzonte temporale molto limitato, che grosso modo coincide con quello politico di chi le prende, e spesso confonde il presente con l’eternità. E la tentazione di mettere politicamente in gioco la testa per vedere consacrata la propria leadership in rapporto diretto, anzi, in comunione con il popolo sovrano rischia di farsi irresistibile, almeno per chi si considera, e vuole essere considerato, un uomo politico di tipo nuovo, del tutto diverso dai suoi predecessori e dalla gran parte dei suoi colleghi.
Bettino Craxi, alla vigilia del referendum sul decreto di San Valentino sulla scala mobile, promosso dai comunisti contro di lui, disse che, in caso di vittoria dei No, si sarebbe dimesso da presidente del Consiglio un minuto dopo aver appreso il risultato: e questa affermazione, all’epoca, parve a molti troppo forte. Il Renzi di qualche mese fa ha detto la stessa cosa, ma con una differenza sostanziale: il referendum il presidente del Consiglio lo ha fortissimamente voluto e, per così dire, improntato di sé, non certo subito, come fu per il pur «decisionista» Bettino. Nel senso che lo ha caricato della sua concezione della politica, del potere, dello stile di comando, del rapporto tra governanti e governati. In una parola, di se stesso. Prendere o lasciare. Se vinco, vinco tutto. Se perdo, perdo tutto.
Un errore? Può darsi. Ma, nel caso, un errore di sostanza, una volta si sarebbe detto di visione del mondo e di strategia, non certo di tattica elettorale, e dunque assai difficile da correggere in corso d’opera. Forse è per questo, nonostante la memoria si sia fatta molto corta, che la grande maggioranza degli italiani che sostengono Renzi, esattamente come la grande maggioranza di quelli che lo avversano, faticano tanto ad archiviarlo, e continuano a pensare al referendum come a un giudizio di Dio. Anche se vengono esortati quotidianamente, e giustamente, a votare da cittadini responsabili, e non da tifosi.

Vincono i partiti
Ugo De Siervo, presidente emerito della Consulta e ordinario di diritto costituzionale a Firenze
Il Senato dell’Italicum “Assemblea selezionata senza criterio”
Su quegli scranni finiranno i rampanti, o chi non ha avuto incarichi locali: saranno i partiti a scegliere
Repubblica 12.10.16
ROMA. Professor Ugo De Siervo, la riforma taglia 220 seggi senatoriali, non è positiva una sforbiciata a politici e costi?
«Che gli organi legislativi si riducano nei loro componenti non è negativo, ma sarebbe opportuno un ridimensionamento anche della Camera, che invece resta con 630 deputati, il che crea certamente una sproporzione».
Il nuovo Senato deve rappresentare le realtà territoriali, per questo sarà composto da 74 consiglieri regionali, oltre che da 21 sindaci. Perché il No contesta questa scelta?
«Prima di tutto se la nuova assemblea deve diventare la voce delle autonomie, è irragionevole e sbagliato che non possa legiferare sul riparto delle competenze tra Stato e Regione, su cui ha solo un potere consultivo. Allora di cosa dovrebbe occuparsi? Quanto alla scelta dei consiglieri non risponde a nessuna qualificazione oggettiva. Almeno si potevano chiamare i governatori, o chi ricopre un ruolo particolare in Regione. Alla fine saranno selezionati i più rampanti, o magari quelli che non hanno avuto gli incarichi locali cui ambivano. La scelta è affidata ad una pura discrezionalità politica».
Però dovrà essere varata una legge elettorale ad hoc che tenga conto delle scelte dei cittadini.
«Credo ci sarà una estrema difficoltà a tenere conto della volontà degli elettori. Si chiacchiera tanto di rispetto della sovranità popolare, ma la classe politica è sempre più scelta dalle strutture interne dei partiti».
Consiglieri e sindaci dovranno venire spesso a Roma per fare i senatori. Ritiene conciliabili i due ruoli?
«Non so come faranno, con il doppio lavoro, ad assolvere ai numerosi compiti attribuiti al Senato. Anche perché la partecipazione al processo legislativo da parte del Senato dovrà avvenire in termini molto stretti. Ad esempio, sulle leggi di bilancio, che sono fondamentali, il Senato avrà solo 15 giorni per esprimere il suo parere. E per chi ha già un altro lavoro significa farlo in due week end». 

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