venerdì 7 ottobre 2016
Lo straordinario successo della devastazione statunitense del Medio Oriente celebrato dai suoi entusiasti cantori
La battaglia non è finita
Gianni Riotta Busiarda 7 10 2016
Niente di buono dal fronte afghano: 15 anni dopo l’offensiva militare Nato, con egida Onu, contro i taleban che ospitavano Osama bin Laden e al Qaeda, registi dell’attacco all’America 2001, lo stallo regna nel Paese.
I taleban pattugliano con sicurezza le montagne dell’Hindu Kush, protetti dall’intelligence pakistana Inter-Services, finanziati dal traffico di droghe e da mazzette pingui che arrivano, secondo Andrew Shaver e Joshua Madrigal di Princeton University, «da fondazioni saudite, pakistane, iraniane, del Golfo Persico». La controffensiva del generale americano Petraeus s’è spenta, le illusioni del presidente Obama di ritirarsi da Kabul in tutta fretta, come dall’Iraq, si sono avvizzite quando Isis, occupando basi tra Baghdad e la Siria, ha anticipato la condotta talebana all’eventuale ammainabandiera Isaf, la coalizione internazionale di cui l’Italia è parte. Il generale Daniel Bolger, veterano di Iraq e Afghanistan, non nasconde la brutta verità, intitolando le sue memorie «Why we lost», perché abbiamo perso.
La coalizione Isaf si arrocca nelle basi e i taleban, d’intesa con gli alleati, adottano una strategia di lunga durata. Tengono il governo di Kabul, come sempre dilaniato da clan, corruzione, inefficienza, sulla difensiva con i raid, ma non logorano il morale della popolazione in inutili battaglie. Attendono che i nervi di americani ed europei cedano, che l’insofferenza per la guerra infinita cresca tra gli elettori, per poi rioccupare, vallata dopo vallata, il Paese che hanno oppresso dal 1996 al 2001 con la sharia, le esecuzioni di dissidenti e donne, i roghi delle scuole femminili, poco importa se con le bambine dentro, il divieto di una visita medica, un aquilone, una canzone, un bacio.
Gli italiani hanno servito in Afghanistan con onore e distinzione. In anni difficilissimi, con governi e opinioni pubbliche spesso ostili o indifferenti alla missione, i nostri militari sono stati professionali e coraggiosi, capaci di sacrifici personali e collettivi, con vittime e feriti, conquistando l’apprezzamento degli alleati, la riconoscenza della popolazione, stima ovunque per l’Italia.
In queste condizioni, ha ancora senso la presenza occidentale a Kabul, o le giogaie innevate, «Tomba degli Imperi» da Alessandro Magno, a inglesi e sovietici, seppelliranno i progetti di pace? Il nostro tempo ha effimera attenzione per la lentezza della storia e le sue contraddizioni. Siamo abituati ai flash di internet, a robot servizievoli, la nostra pazienza è volatile. Restare in Afghanistan non assicura, purtroppo, «vittoria» rapida, non «libereremo» i villaggi tra chewing gum e sorrisi. Ma abbandonare la posizione, per quanto duro sarà mantenerla in costi di bilancio ed umani, è alternativa peggiore. I due rivali della guerra civile islamica, Arabia Saudita wahabita e Iran sciita, si stanno già posizionando, come in Siria e Yemen, per fronteggiarsi in armi non appena gli americani si ritirassero, Saigon 1973 lo insegna. Cinesi e americani stimano che l’Afghanistan abbia oltre mille miliardi di euro in minerali mai sfruttati, ferro, rame, cobalto, oro, litio (prezioso nelle nuove tecnologie), petrolio, gas naturali, bottino attraente per paesi, milizie, spie.
Il disincanto occidentale e l’animosità che divide Usa e Unione Europea, dall’economia alla difesa, non lasciano prevedere stagioni facili sul fronte afghano: i taleban, mai stanchi di guerra, lo sanno e attendono decisi. Ritirarsi, come Obama ha fatto in Iraq e voleva in Afghanistan, avrebbe come prezzo il tormento per milioni di afghani, uomini e donne che hanno lavorato con noi in questi anni e verso cui abbiamo un debito d’onore, porterebbe i fondamentalisti a rioccupare crocevia strategici, persuaderebbe ogni potenza locale che fidarsi di America ed Europa porta alla sconfitta. Ciascuno di questi esiti sarebbe disastroso per le nostre economie, la sicurezza davanti al terrorismo, la forza della diplomazia. I taleban non sono invincibili, indeboliti da quello che il professore Jacob Shapiro chiama «dilemma del terrorista», isolarsi in covi segreti o sfidare apertamente il governo. Da Roma antica a noi, le guerre di posizione si perdono, se ci si lascia travolgere da fretta e paura. A Kabul servono tempo e risolutezza. I taleban lo sanno. E noi?
Afghanistan È l’ora di riconoscere il grande fallimento
di Roberto Toscano Repubblica 5.10.16
È
DIFFICILE leggere senza imbarazzo la sintesi degli obiettivi del
vertice sull’Afghanistan riunitosi ieri a Bruxelles: aumentare
l’efficacia di un appoggio sostenuto al Paese; assistere la riforma sia
economica che in tema di stato di diritto e anti-corruzione; promuovere
l’appoggio regionale alla pace e alla cooperazione transfrontaliera.
Siamo
certo abituati agli eufemismi e alle ipocrisie che spesso
caratterizzano i documenti internazionali, ma in questo caso lo stacco
fra linguaggio diplomatico e realtà è addirittura grottesco. Per
cominciare, i 70 paesi e le 20 organizzazioni internazionali presenti
alla conferenza dovrebbero — invece di lasciarsi andare all’ennesima
sceneggiata, invece di promettere strabilianti e improbabili passi
avanti — cercare di spiegare, con un minimo di onestà autocritica, i
motivi del loro clamoroso fallimento e ripiegare su obiettivi
realizzabili, sostanzialmente di natura umanitaria.
Per gli Stati
Uniti il costo complessivo della guerra in Afghanistan ha superato
ampiamente i mille miliardi di dollari (alcune stime arrivano al
doppio), mentre oltre 2.500 soldati americani sono caduti in
combattimento. Eppure non sono riusciti a debellare combattenti che non
dispongono certo di armi sofisticate e di moderni sistemi logistici.
Sono
passati quindici anni dall’intervento americano, un’azione in origine
mirata a debellare Al Qaeda ma subito “slittata” (il famigerato mission
creep) verso l’obiettivo di costruire un Afghanistan democratico e
prospero. Si è trascurato, evidentemente, un fatto non marginale: che
non si può ricostruire un paese se prima non si mette fine alla guerra.
Qualcuno può immaginare una ricostruzione economica della Germania dopo
il 1945 con i nazisti ancora armati e in controllo di alcuni Länder? Il
fatto è che dopo una guerra che è durata (finora) il triplo della
Seconda guerra mondiale i talebani sono ben lontani dall’essere
sconfitti, e anzi dimostrano sempre più di essere in grado di passare
all’offensiva. Obama si è dovuto rimangiare l’impegno di azzerare alla
fine del 2014 la presenza militare americana (restano oggi nel paese
8000 soldati americani), ma con quali prospettive? Quanti anni ancora
serviranno per sconfiggere i talebani — altri quindici, o di più?
Il problema certo è anche militare, ma ad essere sbagliate non erano tanto le proiezioni militari quanto quelle socio-politiche.
Stato
di diritto? Il problema è che in Afghanistan non esiste un vero Stato,
ma un contrapporsi spesso violento di etnie, regioni, fazioni, clan che
finora nessuno è riuscito a ricomporre. La corruzione è sistematica e
generalizzata: gli americani hanno calcolato che una parte consistente
dei miliardi di dollari da loro trasferiti all’Afghanistan a titolo di
aiuto sono finiti nelle tasche di ministri, burocrati, signori della
guerra. I politici e dirigenti onesti, a partire dal presidente Ashraf
Ghani, sono pochi, spesso isolati e politicamente in difficoltà. È stato
calcolato che ogni anno miliardi di dollari vengono esportati
clandestinamente dall’Afghanistan soprattutto verso i Paesi del golfo,
dove fra l’altro si trasferiscono sempre più numerosi esponenti delle
classi dominanti afghane. Sviluppo economico? Ma di quale sviluppo
stiamo parlando se dopo quindici anni il 98 per cento del Pil non è
generato internamente (a parte i proventi della produzione dell’oppio e
dei suoi derivati) ma proviene dagli aiuti internazionali?
Appoggio
regionale alla pace? Forse basterebbe che cessasse l’appoggio esterno
alla guerra. I servizi pachistani hanno sostenuto fin dall’inizio i
talebani, e recentemente un esponente governativo di Islamabad ha
ammesso che il Pakistan ha ospitato alti dirigenti talebani, a partire
dal Mullah Omar. Lo ha certo fatto per sottolineare che Islamabad è in
grado di influire sull’accettazione da parte dei talebani dell’avvio di
un processo di pace negoziata, ma evidentemente i talebani non pensano
sia ancora venuto il momento di “passare all’incasso” sul terreno
politico e attendono l’ulteriore indebolimento, se non il crollo, del
governo di Kabul.
Gli europei non hanno mai avuto un ruolo di
protagonisti nella tragedia afghana, ma hanno dato un proprio contributo
sia finanziario che militare. Non dovremmo dimenticare quello che ha
fatto anche l’Italia, con 31 militari morti in combattimento e un serio
impegno sia umanitario che sul terreno dello sviluppo. Siamo andati
anche noi in Afghanistan non certo per proteggere nostri interessi
economici o di sicurezza, ma piuttosto per dimostrare che l’Italia,
solidale con gli alleati, voleva e poteva contribuire alla soluzione di
grandi problemi globali. Esserci per contare — lo stesso obiettivo che,
nell’Ottocento, aveva ispirato l’intervento italiano nella guerra di
Crimea.
Ma non sarebbe venuto oggi il momento di dire finalmente
la verità, di riconoscere il nostro clamoroso fallimento collettivo sia
militare che politico e di fare coincidere le nostre ambizioni e anche i
nostri linguaggi con la realtà? Continuare sulla via della retorica e
delle ricorrenti sceneggiate internazionali non aiuterà certo quel
martoriato paese e le sue popolazioni.
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