La mente di fronte a numeri, verità e divini costrutti
Una illustre tradizione letteraria, teologica, filosofica e perfino scientifica è incline anzi a pensare che le cose non esistano proprio: che siano fantasmi, sogni, illusioni o costrutti. Di più: c’è chi pensa che sia vano interrogarsi sulla natura di «ciò che esiste», perché l’oggetto di questo interrogativo non rientra nelle nostre competenze: possiamo (al più) percepirne gli effetti, ma non possiamo sapere di «cosa» si tratti.
Per contro, altri sostengono che il fatto di intuire qualcosa e di tentarne qualche forma di descrizione ci impegna sull’esistenza di quel certo qualcosa; ci impone anzi di considerarlo come esistente, per il fatto stesso che iniziamo a descriverlo. Del resto, la nostra esposizione all’imprevisto (a ciò che non avevamo intuito, o descritto) rende arduo dubitare del fatto che «c’è qualcosa, “lì fuori” (o “qui dentro”)», indipendentemente dalle attese, dalle previsioni e dalle competenze che ognuno può farsene.
Per altro, nella vita ordinaria, noi ci comportiamo come se il «mondo lì fuori» (o «qui dentro») esistesse davvero: facciamo attenzione nell’attraversare la strada, evitiamo i veleni, cerchiamo di capire cosa abbia scatenato una certa emozione, ci impegniamo a evocare ricordi e a controllare la coerenza dei nostri ragionamenti. Siamo, in qualche misura, «realisti ingenui»; e anche «empiristi spontanei», visto che attribuiamo verosimiglianza alle sollecitazioni dei nostri recettori periferici (o, meglio, ai risultati di una loro elaborazione, di più alto livello). Ma non è detto che queste ingenue credenze si traducano in convinzioni filosofiche; anzi, noi potremmo essere convinti di questo: del fatto che dalla povertà dei nostri stimoli non è possibile trarre alcunché, circa la verità e la natura oggettiva del mondo (sempre ammesso che un mondo esista, che abbia una natura oggettiva e che qualche rappresentazione del mondo colga i suoi «fatti»). Ciò che vale nella vita ordinaria non è in genere ammesso come prova esauriente, al tribunale dei filosofi.
Ammettiamo però che certi enti esistano, e che i nostri tentativi di descriverli riescano a coglierne qualche aspetto. Poniamoci cioè dal punto di vista di chi crede che le nostre descrizioni del mondo non siano un mero gioco linguistico, un gioco che non prevede riferimento alcuno ad entità extra-linguistiche. Emerge allora il quesito: di cosa parlano le nostre rappresentazioni, quando si riferiscono a enti extra-linguistici? A cosa si riferiscono?
Potremmo condividere per esempio l’idea che – in diversi contesti o livelli di rappresentazione – esistono tavoli, nuvole, paure, gioie, elettroni, rivoluzioni, dolori, intenzioni, simmetrie, circonferenze e torte della nonna. Potremmo trovarci d’accordo sull’esistenza di questi enti. Che dire però dei quantificatori e dei connettivi logici, delle derivate prime o seconde, delle trasformate di Fourier, degli algoritmi ricorsivi che «girano» nei nostri personal computer? E, prima ancora, cosa dire dei termini che «saturano» questi operatori, costituendone gli argomenti? Che dire, cioè, delle variabili, delle costanti, delle funzioni e dei numeri? In che senso, e in quale contesto, possiamo asserire che questi enti esistono? Possiamo forse asserirlo in quel medesimo senso che ci porta a sospettare (per esempio) che un tavolo del nostro ufficio esiste davvero? O non si tratta, appunto, di enti puramente linguistici?
Proviamo una certa resistenza, dobbiamo riconoscerlo, ad ammettere che il numero pi-greco (il rapporto tra le circonferenze e il loro diametro), o la radice quadrata del numero due (il rapporto tra la diagonale di un quadrato e uno dei suoi lati) possano esistere nello stesso senso e nello stesso modo in cui esistono le torte della nonna. Tuttavia, ci sono buone ragioni per ritenere che – sotto un certo profilo – le cose stiano effettivamente così. In un recente e intenso volume titolato La matematica degli dèi e gli algoritmi degli uomini (Adelphi, pp. 251, € 14,00) Paolo Zellini prova a convincerci proprio di questo. E lo fa, non limitandosi ad analizzare gli argomenti tradizionali del realismo (e del platonismo) in matematica; piuttosto, ci conduce nel cuore stesso della teoria e della pratica odierne della computazione: proprio là, dove il calcolo cerca di raggiungere risultati dei quali è assolutamente certa l’esistenza, ma dove il tentativo procede con grandissimo affanno, senza alcuna sicurezza di pervenire al risultato giusto. Qui, si manifesta una eccedenza della realtà matematica, rispetto alla possibilità di determinarla; si manifesta l’indipendenza della realtà matematica, rispetto alla capacità di catturarla. Non è forse questo, il carattere tipico del «mondo là fuori»?
Quanto al carattere «divino» della matematica, potremmo sollevare dubbi. Anche i libri sapienziali della tradizione vedica sono propensi a sospettare infatti che gli dèi siano un prodotto abbastanza tardo della creazione del mondo (Rig-Veda, 10, 129); e che, dunque, l’ordine matematico che governa il mondo possa precedere l’origine stessa delle divinità.
Zellini traccia però una linea molto suggestiva di continuità, tra le tecniche più antiche adottate nella costruzione dei templi, le leggi di corrispondenza tra le aree e di riduzione o ingrandimento delle forme, le regole di approssimazione dei numeri irrazionali, la «scoperta» dei numeri reali e delle proprietà del continuo, l’introduzione dei numeri transfiniti, i metodi di calcolo e di approssimazione utilizzati nella computazione odierna. E sottolinea che questi metodi sono appunto affetti da incertezze e da instabilità, le quali ne inficiano l’efficienza; sicché, la sicurezza di raggiungere la verità sembra ancora consegnata in questo campo alla beatitudine degli dèi, piuttosto che alla finitezza (ancorché coraggiosa e geniale) dei popoli del mondo.
La matematica va all’inferno Codici aperti. Con la Macchina di Turing e gli algoritmi la «scienza dell’iperuranio» si sporca le mani con la realtà. Una riflessione sui poteri e soprattutto i limiti del calcolare a partire dal volume del matematico Paolo Zellini Teresa Numerico Manifesto 23.2.2017, 19:51
Nel suo ultimo libro La matematica degli dèi e gli algoritmi degli uomini (Adelphi, pp. 258, euro 14. Ne ha già scritto Giovanni Giannoli su Alias della domenica il 22 febbraio 2017) Paolo Zellini guarda alla matematica ispirandosi al mito di Ercole che batte Anteo. Il gigante prendeva la sua forza dalla madre terra ma Ercole, sollevandolo in aria ogni volta che cadeva, riuscì a sconfiggerlo. Se la teoria matematica si allontana troppo dalla terra, dalla concretezza dell’uso, perde forza teorica fino a essere sconfitta e diventare paradossale e inaffidabile.
PAOLO ZELLINI È PROFESSORE di analisi numerica ma è soprattutto un raffinato intellettuale, conoscitore del mondo antico e storia del pensiero, non solo matematico. A questa vocazione intellettuale si devono i suoi libri pubblicati da Adelphi, all’inizio su consiglio di Italo Calvino: da Breve storia dell’infinito (1980) in cui si narra come in un romanzo noir, la storia dell’invenzione e degli esiti paradossali dell’infinito in matematica, a La ribellione del numero (1985) in cui si descrive il modo in cui i numeri irrazionali irruppero nella matematica trasformandola per sempre nell’antichità; da Gnomon (1999) che illustra la storia dell’introduzione dello gnomone e le trasformazioni che il nuovo strumento di misura portò nella conoscenza, fino a Numero e Logos (2010) in cui si sostiene che l’origine del concetto di logos non sia il pensiero astratto, ma il contare, raccogliere gli oggetti e categorizzarli.
I libri di Zellini sono sfide di complessità, trasformano in godibili racconti questioni rigorosamente tecniche. Per riuscirci, l’autore convoca i classici da Simon Weil, a Robert Musil, passando per Henry Bergson, gli studiosi medievali, e molti altri, oltre a tutti i teorici della storia e filosofia matematica antichi e moderni, con i suoi tanti riferimenti crea una trama fitta, complicata, delicata ma lineare e chiara.
In questo libro si occupa dell’emergenza del concetto di algoritmo dalla matematica e dai problemi di stabilità e sicurezza che questa scienza ha dovuto superare in particolare tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, ma le origini da cui prende le mosse il problema per Zellini risalgono all’antichità non solo occidentale, ma anche araba e indiana.
L’INFINITO IN ATTO introdotto da Cantor e Dedekind offriva nuove possibilità alla matematica e all’analisi, ma apriva anche la dolorosa sanguinaria ferita dei paradossi. Come nell’antichità si poneva il problema della radice quadrata di 2 che avrebbe dovuto rappresentare il valore della diagonale di un quadrato di lato 1, così l’infinito in atto produceva strani effetti come l’equivalenza della serie completa dei numeri naturali con una sua parte, per esempio quella dei numeri pari.
La perfezione della matematica è solo degli dèi, suggerisce Zellini. Agli uomini non resta che confrontarsi con le approssimazioni e il concreto succedersi delle istruzioni di un algoritmo per ottenere risultati affidabili in tempo finito.
David Hilbert, un rinomato logico tedesco nel 1926 dichiarava di non voler farsi cacciare dal paradiso dell’infinito in atto che Cantor aveva creato per noi, ma non era così semplice senza far perdere alla matematica la propria affidabilità. Non c’era verso di tutelare le possibilità delle dimostrazioni offerte da questo strumento teorico senza aprire le voragini dell’incertezza che minava i fondamenti stessi dell’aritmetica.
SANARE I FONDAMENTI attraverso la logica risultò un programma fallimentare, ma dalla logica, dopo i primi trent’anni del secolo scorso emerse invece una possibile definizione semi-formale del concetto di algoritmo che sembrava l’unica salvezza possibile rispetto al precipizio dell’insicurezza e allo spettro dell’instabilità della matematica.
La definizione la fornì, fra gli altri, Alan Turing, che nel 1936 inventò la famosa macchina che prese poi il suo nome. Si trattava della più generale ed efficace definizione di algoritmo, nozione che aveva fino ad allora circolato solo informalmente nella pratica matematica.
Un algoritmo era definito da una procedura effettiva calcolabile attraverso la «Macchina di Turing», un dispositivo semplicissimo dotato di un nastro e di una testina di lettura e scrittura capace di eseguire un’operazione elementare per ogni passo leggendo un unico simbolo alla volta, o l’assenza di simboli, governata da una tavola di istruzioni, e senza limiti di tempo e spazio già prestabiliti. L’esecuzione del calcolo poteva, cioè, essere lunga a piacere.
A partire da questa definizione formale, circa dieci anni dopo si progettarono le prime macchine elettroniche a programma memorizzato, comunemente note come computer. Siamo alla nascita del digitale. E siamo anche alla fine della II Guerra Mondiale.
Tornando a Zellini, il libro introduce la necessità dell’algoritmo per la matematica come il suo possibile atterraggio concreto dopo la sbornia teorica esaurita con la prima metà del Novecento. Ma non è così semplice.
L’ALGORITMO E IL CALCOLATORE che ne è figlio possono funzionare solo a patto che i problemi siano ben posti, ma molti problemi reali non lo sono. Inoltre, sebbene in linea di principio alcuni problemi possano essere risolti in teoria, non è detto che la loro soluzione sia effettivamente a portata di mano a causa dell’esplosione esponenziale: l’eccesso di passaggi di calcolo che impediscono di raggiungere il risultato in tempo utile. Questi algoritmi sono inefficienti e inutilizzabili. La crescita dei numeri, anche negli algoritmi efficienti, può rendere instabili i risultati e facilita la propagazione degli errori nel calcolo delle soluzioni.
Possiamo dire che l’algoritmo è una specie di esame di realtà della matematica, come sottolinea il titolo del libro di Zellini gli algoritmi degli uomini’ e sono soggetti a tutti i pericoli, le manchevolezze e le inefficienze delle attività umane.
L’ARRIVO DELLA MATEMATICA dall’iperuranio della realtà ideale dei numeri al concreto dell’algoritmo da cui, novella Gigante Anteo, prende la sua forza, comporta nuovi pericoli e un nuovo statuto epistemologico. La storia della matematica assomiglia ormai a quella delle altre discipline, non più garante della sicurezza e regina dell’affidabilità. Anche su di lei si abbatte l’incertezza, come su ogni altra attività umana. L’algoritmo è forse la porta d’entrata della matematica nell’età adulta che accetta di convivere con le proprie fragilità, e abbandona l’immaginario ideale sulla propria identità.
Dovremmo quindi pensare agli algoritmi, al digitale, ai programmi che stanno dietro alle pratiche di data science e definiscono i metodi per trovare le correlazioni dei Big Data come una rappresentazione tra tante della realtà.
Gli algoritmi della scienza dei dati non hanno lo statuto di superiorità o di ineffabile neutralità che viene loro attribuito. Matematizzare la realtà è possibile, ha dei costi e un trade-off; non offre di per sé nessuna garanzia di una migliore comprensione. Il metodo si valuta caso per caso. Gli algoritmi sono inadeguati proprio come gli esseri umani che li hanno concepiti e realizzati.
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