mercoledì 19 ottobre 2016

Renzi candida l'Italia a quinta colonna dell'Impero dopo Brexit e offre soldati per le copiose guerre di Clinton

 

Task force Italia “Elicotteri pronti per il fronte”
Ci sono i “Mangusta” e gli “NH-90” pilotati dagli uomini del Griffon di base a Erbil, vicino al fronte Ecco i rischi che possono correre di Giampaolo Cadalanu Repubblica 21.10.16
ERBIL (KURDISTAN IRACHENO). I quattro AW-129 “Mangusta” sembrano insetti, enormi cavallette verde scuro che si arroventano sotto il sole, sulla pista di Erbil. Solo i pungiglioni, cannoncini da 20 millimetri, e lo scarico dei motori sono coperti da un telo che li protegge dalla polvere irachena. E lo stesso vale per i più massicci e apparentemente più bonari NH-90, fermi sull’altro lato della striscia di asfalto.
Gli elicotteri del task group “Griffon” con compiti di “Personnel Recovery” sono in attesa dell’ordine dal comando della coalizione. Per la squadra che li adopera il tempo è prezioso: anche i pochi secondi necessari a togliere un telone rischiano di ritardare gli interventi.
«Dobbiamo essere in grado di decollare entro un’ora dal primo allarme», dice un pilota. Perché il compito assegnato è fondamentale: bisogna «riportare in sicurezza » chi è in difficoltà, siano militari della coalizione o civili “dotati di status particolare”.
Questa espressione, spiegano i militari, è riferita soprattutto ai diplomatici. Ma anche se nessuno può ammetterlo apertamente, è facile immaginare che un intervento d’emergenza degli elicotteri potrebbe riguardare altri civili legati alla coalizione, per esempio agenti più o meno clandestini, truppe speciali non in uniforme, “operatori” che si infiltrano oltre le linee per “illuminare” i possibili obiettivi dei bombardamenti con i puntatori laser, e così via.
È sbagliata invece l’idea che il Personnel Recovery corrisponda all’evacuazione dei feriti. «Se interveniamo in un’emergenza e dobbiamo recuperare personale della coalizione, siamo in grado anche di prestare i primi soccorsi a eventuali feriti. Ma la discriminante è un’altra, è l’isolamento in un ambiente possibilmente ostile», dice il generale Angelo Ristuccia, che comanda l’intero contingente italiano a Erbil.
Per questo le squadre che salgono sugli NH-90 hanno addestramento specifico anche per compiti non medici. «Pensiamo a un pilota caduto con un caccia o un elicottero: i nostri sono pronti a tagliare le lamiere per liberarlo in tempi rapidi, se necessario», aggiunge il comandante.
Gli uomini della Griffon ricevono anche l’addestramento necessario al riconoscimento sicuro delle persone da recuperare: «Non vogliamo correre il rischio di caricare sull’NH qualcuno che indossi una cintura esplosiva…», scherza ma non troppo un operatore.
L’impegno della Difesa è partito da una richiesta americana. E ora, superate in fretta le difficoltà di coordinamento, adesso la squadra è pronta. «Siamo come meccanismi di fabbriche diverse, che tutti assieme fanno andare avanti un orologio», sintetizza Ristuccia.
Ma più ancora che per l’efficacia operativa, la disponibilità della squadra di Personnel Recovery appare preziosa per garantire all’Italia, secondo contributore dopo gli Usa, un ruolo significativo nella coalizione su terra irachena.
Alla base di Erbil si escludono scenari da “Black Hawk down”, con militari accerchiati e missioni di recupero in mezzo agli integralisti, con fuoco incrociato e perdite significative. Ma nel contingente italiano i soldati del Personnel Recovery sono comunque quelli che rischieranno di più, scendendo a terra in contesti non facili, con tempi d’azione molto stretti.
Unica sicurezza, la protezione dall’alto: la certezza che i cannoncini e i lanciarazzi dei “Mangusta” sono presenti a coprire le spalle di ogni operazione. In questo senso, i militari della Griffon sono in condizioni migliori dei colleghi americani.
Il Pentagono ha deciso che gli elicotteri d’attacco AH-64 “Apache” sono necessari in altre operazioni, così i Black Hawk da trasporto – che operano anche in Siria, al contrario dei mezzi italiani - devono far da soli, e per proteggersi possono contare solo sulle mitragliatrici di bordo.

Il sintomo americano dell’enigma italiano
di Paolo Pombeni Il Sole 19.10.16
Come interpretare lo scoperto “endorsement” del presidente Obama a favore del nostro presidente del Consiglio?
La risposta è abbastanza semplice, solo che ci si rifletta un attimo: è il sintomo di un giudizio americano sulla fragilità italiana. Il governo Usa ritiene che sia in gioco la stabilità politica (e di conseguenza anche economica e sociale) del nostro paese. Quello che a loro appare l’enigma italiano.
Una grande potenza che gestisce una posizione “globale” si è sempre interessata di come vanno le cose nel mondo, soprattutto nei Paesi che giudica alleati importanti. Èuna storia lunga, dalla visita di De Gasperi negli Usa nel 1947 in avanti.
Ciò su cui vale la pena di interrogarsi è cosa può avere portato Obama ad una presa di posizione così esplicita e su un tema così peculiare come l’esito del referendum costituzionale.
In questa fase delicatissima, con quel che succede in Libia, con quel che succede fra Iraq e Siria, è più che ovvio che a Washington si giudichi rischioso uno scenario in cui la caduta dell’equilibrio che con tutti i suoi limiti è stato costruito da Renzi non lascerebbe il posto ad una alternativa credibile, ma più probabilmente ad un periodo non breve di scontri e lotte per decidere chi sarà il regista della nuova fase.
L’endorsement di ieri non è dunque solo un aiuto a Renzi, ma è al tempo stesso il sintomo di un giudizio molto severo che i gruppi dirigenti americani, forse dopo analisi condivise con altri gruppi dirigenti europei, formulano sul tessuto politico e civile dell’Italia. In definitiva non ci considerano all’altezza di gestire un passaggio che azzopperebbe la nuova classe dirigente messa in campo da Renzi senza che si possa vedere l’esistenza di una soluzione alternativa affidabile e credibile.
Si può discutere se questo giudizio sia fondato o meno, ma più che lamentarsi del fatto che è stato formulato varrebbe la pena di prenderne atto: da quelli che ne traggono beneficio, sapendo che è un apprezzamento a termine, perché se non ottemperano alle aspettative sulla stabilizzazione verranno abbandonati; da quelli che si sentono danneggiati, per capire che, se non sono in grado di dare un segnale di capacità di alternativa credibile come forza di governo, non potranno contare su quel consenso internazionale senza il quale nel mondo di oggi non si affrontano le prove che abbiamo davanti a noi.

L’AMICO AMERICANO E IL VUOTO A ROMA 
STEFANO FOLLI rep 19 10 2016
IL VOTO di fiducia dell’amministrazione Obama nei confronti di Renzi — come lo ha definito il Washington Post — non sorprende nessuno.
SEGUE A PAGINA 31
ERA lo scopo del viaggio a Washington ed è stato raggiunto. Voto di fiducia al partner italiano che resta un alleato cruciale (specie oggi che è “in difficoltà”, ha scritto il Financial Times) e debito saldato verso Roma da parte del presidente uscente.
L’Italia lo merita, agli occhi degli Stati Uniti. È il gioiello più luminoso della corona, si sarebbe detto un tempo. In Libia, nel Mediterraneo, in Afghanistan, domani nel Baltico: non c’è quasi teatro di crisi in cui il governo di Renzi, in continuità peraltro con i suoi predecessori, non abbia affiancato Washington. E se l’Europa scricchiola, rivelandosi incapace di affrontare le asprezze della nostra epoca, ecco che a maggior ragione gli americani guardano all’Italia, desiderosi di rafforzare la partnership bilaterale. Il sostegno al Sì referendario era dunque scontato da prima che l’aereo di Renzi atterrasse sul suolo americano. L’enfasi con cui è stato ribadito ha invece qualcosa a che fare con l’imminente uscita di scena di Obama, quindi con l’ultima opportunità di gratificare un amico fedele, forse anche con la volontà di sostenere indirettamente Hillary Clinton: un premier italiano alla Casa Bianca, in un tripudio di tricolori, è un messaggio indiretto ma molto chiaro all’elettorato italo-americano che andrà a votare fra tre settimane.
S’intende, l’abbraccio al presidente del Consiglio italiano è di natura tutta politica, non ha molto a che fare con il merito delle riforme, pur elogiate da Obama. Nel momento in cui si decide che prioritaria è la stabilità in Italia, secondo una linea che non è mai cambiata dai tempi di Truman a oggi, nonché il rafforzamento del legame fra Roma e Washington, il resto passa in seconda linea. Il “pacchetto” delle riforme economiche e istituzionali illustrate dall’ospite italiano è accettato a scatola chiusa, quel che conta è la solidità dell’amico che siede a Palazzo Chigi, interlocutore affidabile e ormai ben conosciuto. Sotto questo aspetto, la visita di Renzi è un successo, peraltro ampiamente previsto. Ha poco senso domandarsi se si tratti di un’ingerenza americana, secondo un percorso polemico che data dal gennaio 1947, quando De Gasperi compì il suo famoso viaggio nella capitale dei vincitori della Seconda Guerra e avviò la ricostruzione dell’Italia, ricollocandola nell’Occidente avanzato.
Il mondo è assai cambiato da allora e se le accuse di ingerenza avevano poco senso allora, ne hanno ancora meno oggi. Vale a dire quando al posto del Pci filo-sovietico ci sono gli esponenti dei movimenti anti-sistema, l’opposizione grillina e anche leghista: un fronte euroscettico e in qualche sua frangia filo-Putin. Una miscela che di sicuro piace poco a Washington e spinge a puntellare Renzi al di là dei suoi meriti e persino dei suoi demeriti.
Non a caso il punto più politico dell’intervento di Obama è nella frase in cui si chiede all’amico italiano di restare al suo posto anche in caso di vittoria del No. E si capisce: né gli Stati Uniti né le cancellerie europee, tantomeno i vertici istituzionali in Italia ai massimi livelli, desiderano che si apra un pericoloso vuoto a Roma. In altre parole, l’appoggio al Sì referendario non significa che in America qualcuno condivida la visione apocalittica — e propagandistica — di chi annuncia terremoti se il No prevalesse nelle urne. Giocare con la prospettiva di un terremoto italiano non piace nelle capitali del mondo occidentale e Obama lo ha detto chiaramente. Del resto, l’infelice esito dell’appoggio a Cameron in occasione del referendum sulla Brexit, dimostra quanto siano insidiosi certi interventi. Per cui è tutto da dimostrare che il viaggio in America e l’aiuto dell’amministrazione si risolvano in un vantaggio per Renzi sul piano dei consensi. Forse sì, ma è presto per averne la certezza.
Viceversa, è chiaro che per Washington è importante la stabilità a Roma con il Sì o con il No. Di preferenza con il Sì, è ovvio, purché la battaglia elettorale non diventi un “boomerang”. Nel momento in cui si prepara a tornare alla vita privata, Obama non vuole un’Italia più fragile e incerta. E quindi lascia intendere che anche con la vecchia Costituzione, durata circa settant’anni, è possibile governare e onorare le proprie responsabilità nella Nato. In fondo, è quello che l’Italia della Prima Repubblica ha fatto per tanti decenni.


Obama, assist a Renzi “All’Italia serve il Sì Matteo governi anche se perde il referendum” 

GOFFREDO DE MARCHIS Rep
WASHINGTON
SONO in fiore le rose del giardino di fronte allo Studio Ovale, il sole splende, centinaia di persone assiepate nel parco della Casa Bianca con le bandierine tricolori e a stelle e strisce accolgono i due presidenti, picchetto d’onore, i tipici gridolini americani fanno da sottofondo musicale insieme con le note della banda.
È UN perfect day per la visita di Matteo Renzi e per la moglie Agnese Landini, in vestito di pizzo verde di Valentino, emozionatissima accanto a Michelle. Possono renderlo ancora più speciale solo le parole di Barack Obama. E i giudizi sul premier, sul referendum costituzionale, sulla battaglia italiana contro l’austerity targata Bruxelles e Berlino, sulla politica migratoria dell’Europa arrivano con una tale nettezza che nemmeno Renzi sa come reagire.
Il presidente americano scommette tutto sul premier italiano: «Matteo incarna una nuova generazione per la leadership non solo in Italia ma anche in Europa». E ancora: «È bello, giovane, è un mio amico, è malato di Twitter ma ha fatto molte riforme». L’investimento dell’amministrazione democratica è pieno, assoluto. Perciò Obama dice che il 4 dicembre, data del quesito sulla legge costituzionale, «tifo per Matteo». Lui vota Sì perché «l’ammodernamento delle istituzioni aiuta l’Italia». Lui vota Sì persino entrando nel merito come si dice sempre: «In un mondo globalizzato e dominato da Internet i governi devono muoversi più velocemente ». E se la scommessa è sbagliata, ovvero se vince il No, «Matteo, devi rimanere al timone ancora per un po’».
Cosa è successo nei 90 minuti di colloquio faccia a faccia nell’ufficio di Obama alla Casa Bianca? Cosa ha ipnotizzato il presidente alla fine del suo mandato, della figura di Renzi? Tra le righe della conferenza stampa e dei discorsi di presentazione c’è la risposta a queste domande. Innanzitutto, «una grande affinità politico culturale», spiega il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni. Obama cerca nel mondo una visione progressista e moderna e la scorge in volti nuovi, più vicini alle generazioni del futuro. Per questo sceglie Renzi, per questo segue il canadese Trudeau che il Washington Post qualche giorno fa accostava proprio al premier italiano. Eppoi va combattuta la battaglia contro il populismo in America (Trump) e in Europa. «C’è un collegamento stretto — spiega Obama — tra la stagnazione economica e gli impulsi populistici che si creano in alcuni Paesi». L’Italia e Renzi sono vissuti come un argine a queste tendenze.
La spinta per una politica di crescita che viene dagli Stati Uniti è molto forte e arriva alla vigilia del consiglio europeo. «La crescita nella Ue è lenta — dice ancora il presidente Usa — , c’è una generazione che non entra nel mercato del lavoro e finirà per essere perduta. Draghi ha fatto molto ma la politica monetaria non basta. Ci vogliono investimenti e occupazione. L’Italia ha fatto i compiti a casa, è il momento di concentrarsi sullo sviluppo».
Fa praticamente tutto da solo Obama e Renzi accetta di stare di lato, che non è nelle sue corde. Il miglior testimonial lo ha trovato qui, nella capitale americana, non aveva bisogno di portarli dall’Italia invitandoli alla cena d’onore. Rispetto alle iperboli obamiane, non sembra nemmeno offrire granché in cambio. Certo, Obama detta alcune condizioni: le sanzioni alla Russia vanno mantenute, l’Italia farà ancora la sua parte in Libia, il nostro contributo per le truppe Nato in Lettonia. Il premier risponde: «L’agenda in- ternazionale dell’Italia coincide totalmente con quella degli Stati Uniti». E coincide con la politica di Obama che prova a pronunciare qualche parola in italiano: «Patti chiari amicizia lunga» (forse non gli hanno spiegato che noi lo usiamo a volte come un avvertimento). Renzi invece usa il latino: «Historia magistra vitae », la storia è maestra di vita e «la storia sarà generosa con Obama». Ma che farà lui se perde il referendum, seguirà il suggerimento di Barack? «Lo scopriremo solo vivendo. Ma vincerà il Sì».
Obama attacca anche Trump: «Denunciare i brogli prima del voto è da irresponsabile. Se vincerà lui lo accoglierò alla Casa Bianca e Hillary si congratulerà. Si fa così nella Great America, ma non so se uno come lui sia adatto a ricoprire questo ruolo». Poi si torna a parlare di Europa e migranti, con un nuovo asse Roma- Washington: «Italia, Grecia e Germania sono lasciati soli contro questo fenomeno. Far parte della Ue però significa prendere i vantaggi e condividere i costi. Non lasciare il problema solo ad alcuni e augurargli buona fortuna». Renzi sorride. E i due si abbracciano, per l’ennesima volta.


“Washington punta sul governo italiano per piegare Merkel” 

Il professore Usa: “Renzi unico leader stabile in Europa, la Germania ci porta nel caos”
Rep
ROMA. «Avete visto la solennità con cui Obama ha accolto Renzi sul Southern Lawn? I colpi di cannone, le sfilate in alta uniforme, i bagni di folla, abbracci e baci ripetuti e ostentati? Bene, nulla è accaduto a caso». James Galbraith, nobilissimi lombi democratici in quanto figlio di John Kenneth che era l’economista di Kennedy, professore di prestigio a sua volta nell’università del Texas, 63 anni, conosce e ama l’Europa, «quanto basta a soffrire con essa».
Per i colpi dell’austerity di marca tedesca?
«Ma voi siete stati ad Atene recentemente? Avete toccato con mano la disperazione, la miseria, lo squallore, la mancanza di speranze? Tutta opera della signora Merkel, anzi soprattutto di Herr Schaeuble, e della loro ossessione maniacale per i conti pubblici. Intanto politicamente la Grecia è stata ridotta a una colonia. Bel risultato per l’Europa unita».
E Obama se ne è reso conto, tanto da affidare a Renzi il suo messaggio?
«Diciamo che su Renzi punta tutte le sue speranze, di qui la gran fanfara di ieri. Punta su Renzi perché è l’unico leader politicamente stabile oggi in Europa. A chi altri il presidente americano deve rivolgersi nella speranza di far cambiare posizione alla Germania? A quella specie di meltdown politico che è la Francia? Alla Spagna che è sull’orlo di una crisi di nervi e non riesce a darsi un governo vero? Agli inglesi che dall’Europa sono scappati? A qualche altro Stato minore dove vincono leader di ultradestra e alzano muraglioni?» E Renzi secondo lei ha lo standing politico per e alzare la voce con Berlino?
«Finora ha dato segnali confortanti. Certo, è dura, ma è l’unica speranza. Il problema è che l’austerity blocca la ripresa non solo in Europa ma, a catena, in tutto il mondo, ed è questo che l’America non riesce a sopportare. Non a caso la globalizzazione ha come un’involuzione. Senza contare che un governo forte e stabile in Europa, serve all’America anche per vicende più complesse come la lotta al terrorismo, e qui entra il momento delicatissimo dei rapporti con la Russia».
Se lei fosse Renzi, appena confortato da Obama, cosa direbbe domani alla Merkel?
«Che l’America non ne può più di una politica europea sbagliata e controproducente, che sta portando in Europa uno dopo l’altro a crescere i movimenti più beceri, populisti e nazionalisti. Nessun Paese nella storia dell’economia ha superato momenti di profonda instabilità politica. Questo è ciò che l’America teme. E un Paese come la Germania, animato da grandi lavoratori, intelligenti, visionari e onesti, non è possibile che contribuisca a quest’impasse mondiale».
Se conosce così bene l’Italia saprà che Renzi ha un partito, il suo, diviso e animoso, e un altro, il 5 stelle, che l’incalza.
«Certo, sono perfettamente informato. Devo dire due cose: che spero che Renzi vinca il referendum non perché conosca i dettagli della costituzione italiana ma per il segnale di stabilità politica che questo comporterebbe, e poi che i 5 stelle non sono come gli altri movimenti antisistema europei. Sono gente con cui, almeno con alcuni, alla fine si potrà lavorare».
E il suo amico Varoufakis lo frequenta ancora?
«Certo, ho anche accettato la presidente del comitato economico del suo movimento paneuropeo Diem25. Che punta a migliorare la democrazia e abbattere un po’ di diseguaglianze. Prossimo appuntamento, le elezioni guarda caso tedesche ».

usa-italia un’intesa in due mosse 

Stefano Stefanini  Busiarda
Matteo Renzi si sarà addormentato euforico dopo il pranzo di Stato alla Casa Bianca. Ne ha buon motivo. Il risveglio gli riporterà i piedi per terra. Ieri ha ricevuto un riconoscimento eccezionale da un Presidente americano parco verso altri leader internazionali. Adesso deve dimostrare di esserne all’altezza, sia nelle partite in Europa e in Italia, sia nel confermare nei fatti l’amicizia americana, servitagli alla Casa Bianca su un piatto d’argento. Obama glielo ha detto: «Patti chiari, amicizia lunga». Più chiaro di così non si può. I patti si verificheranno presto sulla Russia e sulla Libia.
Vicini per età, i due leader restano personalità molto diverse. L’esuberanza dell’ex sindaco di Firenze aveva inizialmente lasciato perplesso il riflessivo Presidente americano. Matteo Renzi ha aggiustato il tiro e ha finito per conquistarlo. Barack Obama ha visto in lui il leader che vuol cambiare un’Italia disperatamente in bisogno di rinnovamento. Può essersi persino riconosciuto nell’irruenza di Renzi sulla scena politica italiana; egli stesso era in Senato da soli quattro anni quando è diventato Presidente, tagliando l’erba sotto i piedi alla favorita Hillary Clinton. Chi ha tempo non aspetti tempo vale per entrambi.
Con più di una strizzata d’occhio a Bruxelles e Berlino, il presidente del Consiglio ha dato atto a Obama di aver portato l’America fuori dalla crisi puntando sulla crescita anziché sull’austerità. La salute economica gli ha così consentito di portare avanti un’agenda sociale e civile che è il fiore all’occhiello della presidenza uscente. Renzi si pone obiettivi analoghi e trova sulla sua strada il macigno della stagnazione. 
Barack Obama gli ha dato una grossa mano. Non per il referendum. Non sarà l’appoggio di Washington a far pendere la bilancia. Renzi deve vincere da solo la partita del 4 dicembre. Il primo aiuto del Presidente americano è stato il pubblico messaggio all’Europa: con l’austerità non si cresce. Per Obama, che lo sostiene dal 2011, questo va ben oltre la situazione italiana. Se l’Ue e Berlino gli avessero dato retta allora, forse tante cose sarebbero andate diversamente (meglio) in Italia e in Europa. Il secondo aiuto è stata l’identificazione di Matteo Renzi con l’Italia che si riforma. Prima di farlo fallire, Schauble, Moscovici e i falchi fiscali Ue ci pensino due volte.
Il presidente del Consiglio incassa e ringrazia, ma non senza un corrispettivo da onorare. Cosa si attende Washington dall’Italia? Dimentichiamo per un attimo quello che l’Italia ha già fatto o sta facendo, in Afghanistan, in Iraq, in Kosovo, nella lotta al terrorismo; dimentichiamo che in un’Ue orfana di Londra l’Italia vedrà rafforzato il ruolo di tratto d’unione transatlantico; dimentichiamo la Nato che è ridiventata centrale nei rapporti fra Europa e Stati Uniti (Renzi farà bene a non dimenticarlo). Gli americani hanno ben presente passati meriti e future prospettive, ma la credibilità non è né una rendita né un’aspettativa. Si guadagna di giorno in giorno. Oggi, per Washington, l’affidabilità dell’Italia si gioca su due fronti: nel tenere barra ferma, senza sbavature, sulla Russia e nell’impegno sulla Libia.
La cartina di tornasole sulla Russia verrà prestissimo, al Consiglio Europeo di domani. All’interno dell’Ue, l’Italia è considerata la portabandiera della linea più comprensiva nei confronti di Mosca. Questa volta il presidente del Consiglio non può permettersela. Non perché saranno passate quarantott’ore dall’ultimo pranzo di Stato offerto, in suo onore, dalla Casa Bianca di Obama. Il retroscena è la condotta in Siria e gli altri gesti d’innalzamento del confronto voluti dal presidente Putin. Sicuramente nello Studio Ovale gli è stato ricordato. 
Sulla Libia gli americani hanno dato ascolto all’Italia dosando prudentemente l’appoggio al governo di Fayez al-Sarraj. Su richiesta libica, hanno solo dato la spallata definitiva all’Isis a Sirte. Adesso però non basta più sostenere politicamente il governo di Tripoli; per farlo funzionare occorre passare ad una fase d’impegno più attivo e concreto, compresa la presenza sul terreno. Washington ritiene che il momento sia venuto. L’Italia ha sempre detto di essere pronta ad assumere responsabilità e guida delle operazioni in Libia. La prova dei fatti si avvicina. 
Ieri Matteo Renzi ha ricevuto una grossa apertura di credito da un Presidente uscente. Il successore non dimenticherà d’incassarla. Alla Casa Bianca ha incontrato Obama, ma le sue parole sono arrivate a Hillary Clinton. Patti chiari, amicizia lunga.
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Washington chiede all’Italia uno sforzo maggiore per la Libia 

Per il governo americano il Paese è ormai entrato nella “fase due” “Bisogna sostenere Al-Sarraj con azioni militari ed economiche” 
Paolo Mastrolilli Busiarda 
«Dall’Italia ci servirà aiuto anche nella fase 2 della Libia». Usa il termine «fase 2» l’autorevole fonte della Casa Bianca che parla dei «deliverable», cioè le cose concrete su cui Roma e Washington devono lavorare insieme.
Nella sua visita a Washington Matteo Renzi ha ricevuto un’investitura assoluta da parte del presidente Obama, non solo come premier italiano che non dovrebbe mollare anche se perdesse il referendum, ma come leader su cui si può costruire il futuro dell’Europa. Messaggio lasciato in eredità alla prossima amministrazione, nei desideri del capo della Casa Bianca guidata da Hillary Clinton, la cui consigliera Neera Tanden oggi vedrà a pranzo il presidente del Consiglio. 
La stabilità dell’Italia e dell’Europa, però, passa prima di tutto dal contenimento dell’emergenza migranti, che è stata un fattore determinate nel referendum sulla Brexit, e minaccia di affondare anche la cancelliera tedesca Merkel: «Non possiamo permetterci - dice la fonte - un altro anno come quello passato, con un milione e mezzo di rifugiati in arrivo». Per fermarli bisogna agire nell’immediato su due fronti, la Siria e la Libia, e nel lungo termine sullo sviluppo dei Paesi africani da cui scappano i migranti. Da qui il ruolo chiave dell’Italia.
Il sostegno al governo
La «fase uno» è stata la formazione del governo di accordo nazionale in Libia, seguita dall’offensiva lanciata per cacciare l’Isis da Sirte. Questo però non basta, perché l’esecutivo di Sarraj non controlla metà del Paese e rischia di cadere in ogni momento. Quindi bisogna passare alla «fase due», per sostenerlo sul piano diplomatico, economico e anche militare. 
Sul primo punto, la decisione già presa e quella di passare ad una diplomazia più assertiva, che costringa le parti in causa a trovare un accordo per la stabilità. Non si parla solo del governo di Tripoli, e del generale Haftar alleato con la componente di Tobruk, ma soprattutto dei loro sponsor. L’Egitto, ad esempio, ha chiesto al Fondo Monetario Internazionale un prestito da 30 miliardi di dollari, perché la sua economia priva di risorse petrolifere sta crollando. Washington è disposta ad aiutarlo e nei prossimi giorni manderà una missione per trattare, ma sul tavolo del negoziato vuole mettere anche un comportamento più responsabile in Libia, dove Al Sisi sostiene Haftar. L’Italia qui ha da giocare la carta del giacimento di gas scoperto dall’Eni a Zohr, che non potrà essere sviluppato fino a quando il Cairo non darà risposte sull’uccisione di Giulio Regeni, ma anche fino a quando non aiuterà la stabilizzazione di Tripoli.
La presenza militare
Sul piano militare, l’Italia sta già dando molto. Non solo i 300 soldati che hanno permesso la realizzazione dell’ospedale a Misurata, o la base di Sigonella che secondo fonti americane «è già utilizzata a pieno», ma anche la consolidata presenza della nostra intelligence sul terreno. Questo è molto apprezzato dagli americani, ma servirà uno sforzo ulteriore. Ad esempio, per completare la cacciata dell’Isis da Sirte, mettere il governo in condizione di controllare meglio i propri confini e le proprie acque, aiutarlo a costruire un vero esercito unitario, addestrarlo, e sostenerlo nelle operazioni per difendersi. Da parte sua, il presidente Obama ha confermato la volontà di mettere i mezzi della Nato a disposizione dell’operazione Sophia, per contribuire ai soccorsi in mare dei migranti, quando gli europei si attiveranno per coordinare le loro esigenze con le risorse dell’Alleanza.
Poi serviranno aiuti economici, tanto per dimostrare ai cittadini libici la convenienza di appoggiare il nuovo governo, quanto per convincere i migranti a non lasciare i loro Paesi in Africa. Questa è un’operazione che l’Italia non può fare da sola, ma la presenza storica delle sue aziende nel Paese rappresenta il passo di partenza. 
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