martedì 18 ottobre 2016

Risottomissione del lavoro, mortificazione liberale della dignità umana, vittoria del capitale: Alberto Burgio


Con il taglio della decontribuzione, si conferma il rallentamento della marcia dei nuovi tempi indeterminati: -32,9% in agosto. Tra le voci di chiusura dei rapporti di lavoro spicca la crescita delle "giuste cause"



Economia sommersa contro povertà pubblica
di Alberto Burgio il manifesto 18.10.16
La legge di stabilità 2017 non nasce proprio sotto una buona stella. Il governo l’aveva appena consegnata alle agenzie quando la Caritas ha mostrato la fotografia aggiornata e impietosa delle condizioni del paese: i giovani sempre più poveri e, al sud, gli italiani che ormai doppiano i migranti nella platea di quanti si ritrovano a bussare ai Centri di ascolto. Ma non è questo l’unico dato che aiuta a cogliere il senso della manovra finanziaria. Ce n’è un altro diffuso dall’Istat in questi giorni forse ancora più interessante.
L’impianto della finanziaria è ormai chiaro (anche se le coperture restano in gran parte misteriose). Il governo cerca 27 miliardi per darne alle imprese oltre 15 (20 in otto anni).
Siccome la flessibilità in sede europea non vale più di 5 miliardi, per il saldo ricorrerà al solito mix fatto di: tagli alla spesa (3,3 miliardi, anche a danno del Fondo sanitario); pochissimi soldi (meno di 4 miliardi in totale) per i contratti dei pubblici e le pensioni, la scuola e l’università (ovviamente resta il giro di vite sull’Ape agevolato); recupero (in minima misura) dell’evasione fiscale e dei capitali illegalmente esportati (circa 12 miliardi); altri 4 miliardi dovrebbero infine scaturire dall’abolizione di Equitalia. Per il momento non ci sarà l’aumento dell’Iva (altrimenti la sconfitta del Sì al referendum sarebbe assicurata), ma il governo lo ha già messo a bilancio (per oltre 30 miliardi) nel biennio 2018-19.
Non c’è niente di nuovo, come si vede, e anche la giustificazione è la solita: non si poteva fare di più perché mancano le risorse. Il ministro del lavoro l’ha detto testualmente (a proposito dell’Ape, ma la tesi vale per l’intera partita): «Serviva per forza trovare un equilibrio».
Bene. È capitato però che nelle stesse ore in cui il governo rendeva nota la legge di bilancio, l’Istat diffondeva i dati relativi alla (scandalosa) composizione del Pil nel 2014. Da questi (che sono i dati più recenti in materia) risulta che in quell’anno l’economia sommersa valeva circa il 13% del Pil nazionale: 211 miliardi (7,5 in più rispetto al 2011, e il dato è in costante crescita). Di questa enorme quantità di denaro esente da tassazione, 100 miliardi sono venuti dall’evasione fiscale (quindi dieci volte quanto il governo si propone ora di recuperare, salvo al tempo stesso cancellare le sanzioni per chi non ha pagato le tasse o le ha pagate in ritardo); altri 75 dall’impiego di lavoro irregolare (favorito proprio dai voucher cari al ministro Poletti), che in Italia coinvolge oltre tre milioni e mezzo di lavoratori, soprattutto nell’edilizia.
Neanche questa ovviamente è una novità. Un fatto vergognoso sì, ma non inedito. Ad ogni modo, quel che più interessa (e indigna) è che i due insiemi di dati – i conti della finanziaria e quelli del sommerso – siano trattati (anche dalla maggior parte dei media) come se i vasi non comunicassero tra loro e concernessero pianeti diversi. Eppure è sin troppo evidente che la scarsità di risorse disponibili ha molto a che fare con la massa di denaro (circa 90 miliardi) sottratta ogni anno al fisco. Ed è chiaro che in presenza di una massiccia economia sommersa la cronica indigenza della finanza pubblica genera gravi effetti distorsivi, poiché premia l’illegalità e la corruzione mentre induce il governo a varare manovre inique e recessive (salvo straparlare di «crescita») e ad accanirsi su quanti tengono comportamenti virtuosi.
Il saldo complessivo dei dati dice di una perversa redistribuzione del reddito a beneficio di chi commette reati gravi (e il più delle volte dispone già di ingenti ricchezze). Ma, benché chiara ed evidente, la connessione tra l’economia sommersa e lo stato della finanza pubblica è tuttavia tabù. Questo si capisce per i mercati, che godono in presenza di paradisi fiscali; forse per la Ue, che privilegia la redditività dei capitali privati; e anche per la stampa borghese, che non vuole dispiacere a vasti settori della propria clientela. Ma come la mettiamo con un governo che si ostina a definirsi di centrosinistra? E con un partito di maggioranza relativa guidato dal premier, che si protesta di sinistra, salvo convivere senza problemi con crescenti disuguaglianze e con la continua vessazione dei lavoratori dipendenti e dei contribuenti onesti?
Oggi parlare di destra e di sinistra serve solo a farsi dare degli ideologi o degli arcaici, eppure che cosa più dell’equità dovrebbe stare a cuore a una sinistra moderna, moderata, perbene? Chiedere che un governo riduca a dimensioni accettabili il fenomeno dell’evasione fiscale e contributiva non significa evocare campagne rivoluzionarie, ma solo pretendere che lo Stato rispetti condizioni minime di legalità. Questo evidentemente in Italia è impossibile e ci piacerebbe finalmente scoprirne il motivo. Sarebbe davvero meraviglioso che il ministro Padoan spiegasse in particolare perché proprio non gli riesce di far pagare a tutti tasse, imposte e contributi come avviene nei principali paesi della Ue e persino negli Stati uniti. Promettiamo che, se sarà così cortese da risponderci, gli riserveremo ampio spazio in prima pagina. 

Nodo risorse per il piano lanciato dal Governo
Secondo l’Alleanza contro la povertà, che raccoglie realtà come Caritas, sindacati, Acli, Save the children, Banco alimentare, servirebbero 7 miliardi il Governo mette a disposizione 750 milioni di Davide Colombo Il Sole 18.10.16
I dati sulla povertà in Italia negli anni del “dopo-crisi” diffusi ieri dalla Caritas confermano quelli dell’Istat di metà luglio. Il disagio sociale s’è allargato e ora arriva a colpire fasce di popolazione che prima in qualche modo si salvavano. Ora oltre a un milione di anziani poveri ci sono anche molti più giovani di prima. E ci sono le famiglie con uno o due figli, mentre fino a qualche anno fa cadevano sotto la soglia di povertà quasi solo quelle con tre o più bambini. È anche cambiata la geografia del disagio, oggi in crescita anche al Nord, dove l’incidenza della povertà assoluta (quella che non consente di conseguire uno standard di vita minimamente accettabile) è passata dal 4,2% delle famiglie del 2014 al 5% del 2015 (dal 5,7 al 6,7% se si considerano le persone). L’anno scorso l’incidenza della povertà assoluta, a livello nazionale, è stata del 7,6% (6,8% nel 2014 e 7,3% nel 2013) e ha riguardato 4,6 milioni di persone. E l’Italia - ci ha ricordato ieri Eurostat - è tra i paesi che hanno registrato i maggiori aumenti del rischio di povertà ed esclusione sociale tra il 2008 e il 2015. Con una crescita di 3,2 punti percentuali si è piazzata al quarto posto alle spalle di Grecia (più 7,6), Cipro (più 5,6) e Spagna (più 4,8).
A fronte di queste statistiche che parlano di una povertà diffusa il Governo sta portando avanti un piano per il momento sotto l’acronimo Sia (Sostegno per l’inclusione attiva), un contributo ai nuclei familiari con minori o disabili in condizioni disagiate che ha preso il posto della social card. A disposizione ci sono 750 milioni e le domande Isee presentate da settembre ci dicono che i primi pagamenti avverranno nel bimestre novembre-dicembre (tramite una carta prepagata su cui si versano 80 euro al mese per ogni componente del nucleo familiare; in media 320 euro al mese visto che i nuclei con più elevata frequenza sono con due minori). Cinque sesti di quella dote verrà spesa nel corso del 2017, anno per il quale il Fondo contro la povertà prevede una sua dote strutturale di un miliardo. L’obiettivo dichiarato è coprire in questa prima fase circa 200mila famiglie, tra 800mila e un milione di residenti. Stando alle slides illustrate sabato sera dal premier, Matteo Renzi, sul Fondo povertà arriverà un addendum di 500 milioni solo dal 2018, anno il cui il Fondo salirebbe a 1,5 miliardi e anno in cui dovrebbe scattare il riordino sulle altre misure già in vigore (come la vecchia social card che vale 250 milioni e l’Asdi, che ne vale 200). Dire dunque su quante risorse effettive si disporrà veramente nel 2018-2019 non è ancora possibile con precisione. Si sa che una volta approvata la delega che giace in Senato si passerà dal Sia al «Reddito di inclusione sociale». Questo «Reis» non dovrà essere solo un sostegno economico per garantire ai nuclei la differenza tra il reddito familiare e la soglia Istat di povertà assoluta ma anche proporre un insieme essenziale di prestazioni da garantire uniformemente in tutto il territorio nazionale. Ma la domanda resta: con quante risorse? Secondo l’Alleanza contro la povertà, che raccoglie realtà come Caritas, sindacati, Acli, Save the children, Banco alimentare, servirebbero 7 miliardi per rendere strutturale il Reis, perché con quella cifra si copre l’intera platea dei super-poveri. Dal loro punto di vista, dunque, mezzo miliardo in più solo dal 2018 non basta. La lotta contro la povertà va avanti ma va avanti piano. 


I giovani al Sud più poveri dei migranti
Il nuovo modello di povertà: gli indigenti non sono più gli anziani, le difficoltà diminuiscono con l’età Rapporto Caritas. Nel Mezzogiorno il 66% di chi chiede aiuto è italiano
Dopo l’appello del Papa nelle diocesi accolti circa 20mila rifugiati
di Carlo Marroni Il Sole 18.10.16
La crisi economica che perdura ormai da quasi dieci anni ha fatto esplodere la povertà in Italia, e ne ha cambiato la “composizione”: colpisce soprattutto gli stranieri ma, per la prima volta, nel 2015, al Sud la percentuale degli italiani ha largamente superato quella degli immigrati. Novità che emerge dal Rapporto 2016 sulla povertà della Caritas, braccio operativo della Cei (Conferenza episcopale italiana). Il dato è chiaro: se a livello nazionale il peso degli stranieri sulle fasce povere – persone che non hanno le risorse economiche necessarie per vivere in maniera minimamente accettabile - continua a essere maggioritario (57,2%), nel Mezzogiorno gli italiani hanno fatto il “sorpasso” e sono al 66,6%. Dati, questi, emersi sul campo, dai centri di ascolto della Caritas che sono 1.649 sparsi su 173 diocesi. Quindi, si osserva, il vecchio modello italiano di povertà, che vedeva gli anziani più indigenti, non è più valido: oggi la povertà assoluta risulta inversamente proporzionale all’età, specie in certe aree italiane. La lunga crisi occupazionale ha penalizzato e sta ancora colpendo soprattutto i giovani e giovanissimi in cerca di primo impiego e gli adulti ancora in età lavorativa e rimasti disoccupati. I dati sulla crescita della povertà sono drammatici: si è passati, infatti, da 1,8 milioni di persone povere nel 2007 (il 3,1% del totale) a 4,6 milioni del 2015 (il 7,6%).
L’analisi della Caritas va a fondo sui vari aspetti del fenomeno. Rispetto al genere, il 2015 marca un significativo cambio di tendenza: per la prima volta risulta esserci una sostanziale parità di presenze tra uomini (49,9%) e donne (50,1%), a fronte di una lunga e consolidata prevalenza del genere femminile, mentre l’età media delle persone che si sono rivolte ai centri Caritas è stata di 44 anni. Tra i beneficiari dell’ascolto e dell’accompagnamento prevalgono le persone coniugate (47,8%), seguite dai celibi o nubili (26,9%). Il titolo di studio più diffuso è la licenza media inferiore (41,4%). A seguire, la licenza elementare (16,8%) e la licenza di scuola media superiore (16,5%). I disoccupati e inoccupati insieme rappresentano il 60,8% del totale. I bisogni più frequenti che hanno spinto a chiedere aiuto sono perlopiù di ordine materiale: spiccano i casi di povertà economica (76,9%) e di disagio occupazionale (57,2%), ma non sono trascurabili anche i problemi abitativi (25,0%) e familiari (13,0%). E sono frequenti le situazioni in cui si cumulano due o più ambiti problematici. Per quanto riguarda i profughi e i richiedenti asilo, sono stati ben 7.700 le persone che si sono rivolte ai Centri di ascolto della Caritas nel corso del 2015. Si tratta in larga parte di uomini (92,4%), con un’età compresa tra i 18 e i 34 anni (79,2%), provenienti soprattutto da paesi africani e asiatici. Dal punto di vista del “bisogno” prevalgono le situazioni di povertà economica (61,2%), ma è alto anche il disagio abitativo, sperimentato da oltre la metà dei profughi intercettati (55,8%). Tra loro è proprio la “mancanza di casa” la necessità più comune. Seguono le situazioni di precarietà o inadeguatezza abitativa e di sovraffollamento. A scalare arrivano poi i problemi di istruzione, che si traducono per lo più in problemi linguistici e di analfabetismo. Il rapporto dedica un ampio capitolo all’accoglienza di profughi e richiedenti asilo nelle strutture ecclesiali, dopo l’appello di papa Francesco a ospitare i migranti e le loro famiglie. Al 9 marzo 2016, le accoglienze attivate in 164 diocesi sono circa 20mila, così suddivise: circa 12mila persone accolte in strutture convenzionate con le Prefetture (con fondi del ministero dell’Interno); quasi 4mila persone accolte in strutture Sprar (ministero dell’Interno); oltre 3mila persone accolte nelle parrocchie (con fondi diocesani); oltre 400 persone accolte in famiglia o con altre modalità di accoglienza (fondi privati o diocesani).

I più poveri d’Europa
Caritas. Dopo la Grecia, l’Italia è il paese europeo dove la povertà è aumentata di più dal 2008. Al Sud ci sono più italiani che stranieri nei centri Caritas. Cresce la miseria tra i giovani senza lavoro. La caritas chiede un piano universale entro il 2020, ma il governo ha approvato una misura per soli due anni con fondi insufficienti per affrontare l’emergenza di Roberto Ciccarelli il manifesto 18.10.16
Siamo il paese dove il rischio povertà è aumentato di più in Europa. Tra il 2008 e il 2015 – i primi sette anni di una crisi che durerà almeno per la prossima generazione – la percentuale delle persone a rischio povertà è salita dal 25,5% al 28,7%. Peggio di noi ha fatto solo la Grecia, passata dal 28,1% del 2008 al 35,7%. La fotografia scattata dall’Eurostat in occasione della giornata mondiale contro la povertà, va vista insieme al rapporto Caritas 2016 su povertà ed esclusione sociale presentato ieri. In Italia vivono in uno stato di povertà assoluta 1 milione 582 mila famiglie, 4,6 milioni di persone. È il numero più alto dal 2005 ad oggi. Senza contare coloro che sono in «povertà relativa»: 8 milioni 307 mila, pari al 13,7% delle persone residenti. Nel 2014 erano il 12,9% in un settore dove si registrano le «nuove povertà» dei «working poors», chi lavora e non arriva alla fine del mese.
La povertà si sta trasformando e colpisce trasversalmente alle appartenenze nazionali, i ceti sociali e le professioni. Di solito sono gli stranieri a chiedere aiuto ai centri Caritas. Nel 2015, soprattutto a Sud, per la prima volta la percentuale degli italiani ha superato di gran lunga quella degli immigrati. Se a livello nazionale il peso degli stranieri continua a essere maggioritario (57,2%), nel Mezzogiorno sono il 66,6%. Cambia inoltre la composizione anagrafica dei poveri. Rispetto al vecchio modello della rappresentazione che considerava più indigenti gli anziani, oggi la povertà «assoluta» colpisce giovani e giovanissimi in cerca di occupazione e gli adulti rimasti senza impiego. Senza contare la povertà infantile, ricorda Save The Children: un milione di minori vive in povertà assoluta, mentre altri 2 in povertà relativa.Un bambino su 10 non può permettersi un abito nuobvo, uno su 20 non riceve un pasto proteico al giorno. Percorrendo lo spettro dell’esclusione sociale si arriva la margine estremo: profughi e richiedenti asilo. Sui 153.842 arrivati in Italia, nel 2015 7.770 si sono rivolti alla Caritas: il 61,2% è in povertà economica (61,2%), il 55,8% soffre di disagio abitativo.
Il sistema Caritas è tra quelli che supplisce alla totale mancanza di assistenza e integrazione di queste persone. L’organizzazione ritiene che il governo Renzi abbia «scardinato» lo storico disinteresse della politica nei confronti della povertà stanziando 1,1 miliardi in due anni, più i 500 milioni aggiunti di recente. Ne servirebbero sette per affrontare solo la povertà assoluta. Dati sufficienti per escludere che le due misure transitorie, il sostegno per l’inclusione attiva (Sia) e l’assegno per la disoccupazione (Asdi) che nel 2017 diventeranno reddito di inclusione (Rei), costituiscano una «misura universale di contrasto alla povertà». Questo ha detto ieri il ministro del lavoro Poletti chiudendo il cerchio di una lunga operazione di confusione operata dal governo tra gli strumenti di contrasto alla povertà, il reddito minimo e il reddito di base universale. Il Rei è un mix dei primi due ed è stato presentato da Poletti come «un sostegno economico condizionato all’attivazione di percorsi verso l’autonomia». Di «universale» tuttavia non ha nulla perché l’erogazione di un sussidio fino ai 400 euro sottoporrà famiglie numerose e disagiate a un’intesa attività di profilazione, controllo e coazione da parte dei servizi sociali e per l’impiego. Il tutto per accettare un lavoro (quale?). Questo è l’approccio settoriale e categoriale che non ha nulla a che vedere con il reddito minimo garantito richiesto dall’Unione Europea sin dal 1992. L’Italia è l’unico paese europeo, insieme alla Grecia, a non avere un simile strumento. Per dare l’idea della sproporzione dei mezzi, per il solo RSA (Revenu de solidaritè) la Francia spende 10 miliardi di euro l’anno. Stando ai calcoli dell’Istat un reddito di questo tipo costerebbe in Italia tra i 14,9 e i 23,5 miliardi di euro all’anno. Cifre realistiche e alla portata di mano. Se solo il governo avesse usato i 10 miliardi degli 80 euro e gli 11 (e anche più) miliardi di sgravi inutilmente erogati alle imprese per il Jobs Act.
La Caritas è consapevole dei limiti dell’operazione e si augura che il governo metta in campo «un piano che porti all’adozione di una misura universalistica e ben congegnata contro la povertà assoluta» entro il 2020. «Ora si tratta di capire – aggiunge – se quanto realizzato sin qui esaurirà il percorso riformatore – lasciandolo così perlopiù incompiuto – o invece verrà seguito dal passo che segue: la progressiva estensione del Rei a tutti gli indigenti» e il coinvolgimento degli enti locali. Dalle slide di Renzi sulla manovra non sembra emergere alcun piano pluriennale di questo tipo. Per com’è stato concepito il «Rei» potrebbe essere un altro passo per mettere al lavoro (alcuni) poveri in condizione di ricattabilità e estrema subordinazione.

Raddoppiano i poveri E i giovani colpiti dalla crisi superano gli anziani
Nel Sud gli italiani si rivolgono alla Caritas più degli immigrati In gravi difficoltà le famiglie monoreddito e i lavoratori precari di Roberto Giovannini La Stampa 18.10.16
Questa interminabile crisi da cui il Paese non riesce mai a uscire ha fatto impennare il numero dei poveri, che sono passati da 1,8 milioni nel 2007 ai 4,6 milioni del 2015. Un’esplosione di miseria che in questi anni non è stata di fatto contrastata, dicono i numeri; anche se il governo promette interventi già da quest’anno. Un fenomeno terribile che ha accentuato criticità tradizionali - per la prima volta nei centri della Caritas al Sud si sono presentati più poveri italiani che poveri immigrati - ma che ha generato anche situazioni del tutto inedite. Sono infatti entrate in crisi aree sociali finora poco vulnerabili: chi vive al Centro-nord, le famiglie giovani, i nuclei con uno o due figli minori e quelli in cui ci sono persone che hanno un posto di lavoro. Un lavoro, evidentemente, a reddito molto basso e saltuario.
È un colpo alla bocca dello stomaco il Rapporto 2016 sulla Povertà della Caritas. Perché rivela che la povertà assoluta (la condizione di coloro che non hanno le risorse economiche necessarie per acquistare beni e servizi che servono per vivere in maniera dignitosa) è un male che colpisce il 7,6% della popolazione italiana, contro il 3,1% del 2007. Ma soprattutto perché fa capire che è una condizione che tocca l’intera struttura della società. Compresi i giovani (oltre il 10% di chi ha meno di 34 anni è un povero assoluto); comprese le famiglie con pochi bimbi; compresi i lavoratori, che sono precari o con stipendio troppo basso.
Secondo le indicazioni dei 1649 centri di ascolto della Caritas, l’età media delle 190.465 persone che hanno chiesto un aiuto è di soli 44 anni; una volta erano molto di più gli anziani. Oggi si presentano allo stesso modo uomini e donne; un tempo erano soprattutto le donne. E se a livello nazionale sono gli stranieri in maggioranza coloro che si rivolgono alla Caritas (57,2%), nel Mezzogiorno gli italiani hanno fatto il sorpasso e sono al 66,6%.
Dati che fanno il paio con quelli pubblicati ieri da Eurostat. Nel rapporto sulla situazione sociale, l’istituto di statica europeo afferma che l’Italia è tra i Paesi che hanno registrato i maggiori aumenti del rischio di povertà ed esclusione sociale tra il 2008 e il 2015. Con una crescita di 3,2 punti percentuali l’Italia siamo quarti, battuti solo da Grecia (+7,6), Cipro (+5,6) e Spagna (+4,8). Il 28,7% degli italiani è considerato in difficoltà, cioè a rischio povertà o esclusione sociale. Infine, viene considerata in stato di «grave deprivazione materiale» ben l’11,5% della popolazione italiana: vuol dire non potersi riscaldare bene in casa, non poter sostenere una spesa imprevista, non poter mangiare proteine almeno una volta in due giorni, non poter fare una settimana di vacanza.
Il governo, con il ministro del Lavoro Giuliano Poletti, rivendica le misure già varate o potenziate per poter fronteggiare il fenomeno povertà. «Nel 2017 partirà il reddito di inclusione, che potrà contare sulle risorse di un fondo specifico: 1 miliardo di euro l’anno», più i 500 milioni stanziati nel recente ddl di bilancio, dice Poletti. «Ma l’impegno per dare un aiuto alle persone in condizioni di difficoltà - continua il ministro - è già stato avviato. Dal 2 settembre è infatti stato esteso a tutto il territorio nazionale il Sia, Sostegno per l’inclusione attiva, una “misura ponte” di cui potranno beneficiare le famiglie in condizioni economiche disagiate con almeno un componente minore, oppure con un figlio disabile o una donna in stato di gravidanza». Sono 750 i milioni disponibili per questo strumento. Dichiarazioni che non soddisfano l’opposizione, che spara a zero sul governo con Arturo Scotto (SI), Mara Carfagna (FI) e i senatori M5S della Commissione Lavoro del Senato.

Un piano per salvare il futuro
Linda Laura Sabbadini Busiarda 18 102016
La povertà è una emergenza sociale del nostro Paese. Il Rapporto Caritas parla chiaro. Nel 2015 la povertà assoluta è ulteriormente cresciuta, 4 milioni e mezzo di persone in totale. I poveri assoluti sono coloro che non riescono ad acquistare un insieme di beni e servizi essenziali per garantirsi una vita dignitosa, una misura definita dall’Istat. Nel 2015, sono più del doppio rispetto al 2007: siamo passati dal 3,1% al 7,6%. E questo grande balzo ha comportato una vera e propria riconfigurazione della mappa dei rischi di povertà.
Non sono più gli anziani il segmento a maggior rischio di povertà assoluta, ma i minori, seguiti dai giovani. La povertà assoluta tra loro è più che triplicata rispetto a nove anni fa: i minori sono arrivati a 1 milione 131 mila, il 10,9% del totale, i giovani fino a 34 anni a 1 milione 13 mila, il 9,9%. 
Nessun cambiamento per gli anziani, stabili al 4,1% per un totale di 538 mila, non pochi: erano i più poveri nel 2007, sono diventati i meno poveri nel 2015. Se si analizza l’andamento della povertà relativa nel tempo, ci si rende conto ancora di più di come siano mutate le posizioni tra i gruppi di popolazione. Nel 1997 la povertà relativa degli anziani era superiore a quella dei minori di 4,4 punti percentuali. 
Quella dei minori ha superato la povertà relativa degli anziani di 11,6 punti nel 2015.Il Sud è sempre in condizioni critiche, i poveri assoluti superano ormai i 2 milioni. Siamo di fronte ad una vera e propria emergenza sociale che tocca, tra l’altro, due segmenti particolarmente vulnerabili, i bambini e i giovani. La povertà è negativa per tutti. Ma chi da piccolo vive in situazione di povertà e questa si protrae nel tempo, ha purtroppo un futuro segnato: con maggiore probabilità vivrà da povero nel corso della vita. Perché non si tratta solo di povertà monetaria, ma di impossibilità a investire adeguatamente in formazione, cultura, nuove tecnologie. Depauperamento, sia sul fronte del capitale umano che sociale, minori opportunità, maggiore esclusione. 
Anche per i giovani la situazione è critica. Ricerche condotte anche a livello internazionale mostrano come la storia lavorativa dei primi anni è fortemente predittiva per la situazione lavorativa futura. L’esclusione dei giovani dal mercato del lavoro prolungata o l’inserimento in lavori marginali e a basso salario, ha un impatto negativo sulle future prospettive di lavoro sia in termini quantitativi che qualitativi. 
Caritas analizza anche i dati raccolti presso i suoi 1.649 Centri di Ascolto, dislocati su 173 diocesi. Nel corso del 2015, le persone incontrate sono state 190.465. Il peso degli stranieri continua ad essere maggioritario, per la prima volta gli utenti si distribuiscono equamente tra uomini e donne, il titolo di studio è molto basso. I bisogni o problemi più frequenti che hanno spinto a chiedere aiuto, neanche a dirlo, sono povertà economica (76,9%) e disagio occupazionale (57,2%). 
La crisi sociale sarà più lunga della crisi economica e particolarmente dolorosa. Ha ragione Caritas quando propone un Piano Pluriennale di contrasto alla povertà, un graduale e progressivo incremento degli stanziamenti e il potenziamento del welfare locale. Di questo c’è bisogno, prima che sia troppo tardi. Attrezziamoci e dotiamoci degli strumenti più adeguati. Abbiamo bisogno anche di un luogo dove si raccolga la voce dei poveri e dove si elaborino proposte e strategie adeguate, grazie all’incontro dei massimi esperti di povertà da un punto di vista scientifico, delle politiche e dell’associazionismo. Prima c’era. Era la Commissione povertà (Cies), fu sciolta. Non è stato un bene. Perché non ricostituirla?  BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

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