domenica 23 ottobre 2016

Sciacalli e battisti si accaniscono sui palestinesi, il popolo martirizzato da Israele e Occidente



Israele-Palestina, la verità del documento dell’Unesco
Moni Ovadia Manifesto 26.10.2016, 23:59
Le parole sono importanti! sentenziava Nanni Moretti in una scena da culto di una sua memorabile pellicola, dando ratifica all’affermazione con un sonoro ceffone vibrato ad una giornalista colpevole di esprimersi con un eloquio mediocre ed improprio.
Dal tempo di quell’accorato grido di dolore del geniale cineasta molta acqua è passata sotto i ponti. Abusare perversamente le parole è diventata pratica comune che non provoca reazioni di sofferenza; in questi giorni, il nostro capo del governo si è prodotto in una tecnica di perversione del senso, sostituendo la parola italiana condono con l’anglicismo di sonorità meno sconcia voluntary disclosure.
L’ordine del discorso e la scelta delle parole possono diventare particolarmente insidiosi quando si parla di Israele, governo israeliano, israeliani, ebrei e via dicendo. A me è capitato di sentirmi apostrofare con il termine “antipatizzante” di Israele per avere definito “colonie” le colonie israeliane della Cisgiordania invece di descriverle con il più neutro “insediamenti”. Gli ultras proisraeliani a prescindere, ma anche coloro che non sono estremisti del campo – potremmo definirli i moderati di ogni schieramento – manifestano un’immediata idiosincrasia nei confronti di un crudo linguaggio di verità, qualora utilizzato nei riguardi di Israele.
Per queste sensibilissime persone, parole accettabili all’indirizzo di qualsiasi altro paese occupante e colonialista del mondo, diventano inascoltabili se utilizzate per criticare gli atti dei governi israeliani.
Questa ipersensibilità ha provocato l’ennesima crociata pro Israele sulla stampa mainstream e nelle piazze, per denunciare l’antisemitismo dell’Unesco a proposito della sua risoluzione sulla Palestina occupata.
Nella traduzione integrale della risoluzione al comma 3 leggiamo: “Affermando l’importanza che Gerusalemme e le sue mura rappresentano per le tre religioni monoteiste, affermando anche che in nessun modo la presente risoluzione, che intende salvaguardare il patrimonio culturale della Palestina e di Gerusalemme Est, riguarderà le risoluzioni prese in considerazione dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e le risoluzioni relative allo status legale di Palestina e Gerusalemme…”
In apertura, la risoluzione riconosce che Gerusalemme e le sue mura sono sacre ai tre monoteismi e ai loro fedeli: ebrei, cristiani musulmani. Non c’era dunque alcuna ragione di gridare all’antisemitismo, di accusare la risoluzione di voler negare il legame degli ebrei con quei luoghi. In realtà a me pare di intuire che la reazione degli ultras pro Israele, senza se e senza ma, dipenda piuttosto dal fatto che nei commi successivi la risoluzione si riferisca ripetutamente ad Israele con la definizione di “potenza occupante” e ne denunci la pratica violenta dei fatti compiuti sul territorio.
Ora, Israele è, piaccia o non piaccia, una potenza occupante e lo è da cinquant’anni e questo secondo le risoluzioni dell’Onu, non secondo i pro palestinesi. Ma attenti a dirlo! Diventereste illico et immediate antisionisti, ovvero antisraeliani, ovvero antisemiti. Guai all’Unesco che osa affermare che Israele è potenza occupante.
Invece, i politici israeliani di governo possono gridare ai quattro venti che Gerusalemme è la sacra ed indivisa capitale dello Stato di Israele nell’assoluto silenzio delle anime belle, e i leader dei partiti religiosi possono sostenere impunemente che tutta la terra di quella che fu la Palestina mandataria appartiene agli ebrei perché fa parte della terra “donata” da Dio.
Gli zeloti che fanno parte dell’elettorato della destra utrareazionaria sostenitrice di Netanyahu, possono farneticare di distruggere le moschee per edificare al loro posto il “Terzo Tempio” e compiere atti aggressivi nei confronti dei palestinesi, nessuno scandalo. È scandalo invece se il documento dell’Unesco non riconosce alle autorità israeliane e ai fanatici di Israele il diritto ad esercitare il proprio arbitrio.
Forse disturba la mancata identificazione di ebrei e governo israeliano in carica. Le anime belle della democrazia a popoli alterni sanno che le due cose sono diverse, ma dà loro un incontenibile fastidio. Eppure il problema di una precisa distinzione fra israeliani ed ebrei è ormai incandescente.
Un recente articolo apparso sul quotidiano israeliano Ha’aretz a firma di Chemi Shalev titolava: “Trump mostra agli estremisti di destra come amare Israele ed odiare gli ebrei” (alcuni estremisti di destra americani disprezzano gli ebrei progressisti con lo stesso veleno con il quale la destra israeliana odia gli ebrei di sinistra).
Eccolo il capolavoro che hanno edificato i nazionalisti e i fanatici religiosi israeliani con la fattiva collaborazione degli ultras pro sionisti e il benevolo sussiego di certi moderati che sono amici di Israele a prescindere.
Grazie a loro, gli eredi degli antisemiti di ogni tipo possono tornare ad odiare gli ebrei cominciando dai maledettissimi rossi e poi… Poi si vedrà.
Massa d’urto religiosa di questa nuova ideologia sono i cosiddetti cristiano/sionisti. Sono milioni, appartengono a chiese evangeliche millenariste e avventiste, sono sostenitori del sionismo integralista, rivendicano il diritto degli ebrei a possedere tutta la Terra Promessa e auspicano il ritorno di tutti gli ebrei in Eretz Israel perché secondo le loro profezie ciò provocherà la seconda parusia di Gesù e l’Armageddon. E gli ebrei? Quelli che riconosceranno il Cristo saranno salvi. E gli altri? Si fotteranno bruciando nelle fiamme dell’inferno! (L’interpretazione è mia).


Unesco: ecco il testo integrale della risoluzione "Palestina Occupata"
globalist.it

«Basta attacchi a Israele» e Tel Aviv ringrazia l’Italia
Gerusalemme. Il presidente del consiglio rimprovera Gentiloni e definisce "allucinante" la risoluzione dell'Unesco sulla Spianata delle Moschee ma l'agenzia dell'Onu ha ribadito ciò che è chiaro da 50 anni: Israele è una potenza occupante a Gerusalemme Est

GERUSALEMME22.10.2016, 23:59
«Ringraziamo e ci felicitiamo con il governo italiano per questa importante dichiarazione». Con queste parole del portavoce del ministero degli esteri, Emmanuel Nahshon, Israele ha applaudito alle parole del presidente del consiglio italiano Matteo Renzi che ha definito «allucinante» la recente risoluzione dell’Unesco sullo status della Spianata delle mosche, risoluzione sulla quale l’Italia si è astenuta, in linea con la posizione europea. Secondo Renzi, che ha addossato ogni responsabilità al ministro degli esteri Gentiloni, accusandolo di aver votato «in automatico», «Non si può continuare con queste mozioni finalizzate ad attaccare Israele». Il premier ha lanciato un avvertimento: «Se c’è da rompere su questo l’unità europea che si rompa».

Renzi si dice addirittura pronto a rompere con l’Ue. Lo farebbe per Israele e non per le politiche scellerate dell’Europa a guida tedesca che penalizzano lo sviluppo, il lavoro, la ripresa economica a danno anche di milioni di essere umani. In realtà non si deve dare peso eccessivo a questo gesto, quasi una boutade, che non ha alcun valore politico concreto e che vuole solo riaffermare l’alleanza con il governo Netanyahu, è un modo per dire «presente, ho fatto la mia parte». Renzi ha segnalato di aver accolto le pressioni che Tel Aviv sta facendo sui principali alleati in Europa – la Repubblica Ceca e, appunto, l’Italia – dopo il voto all’Unesco che Israele descrive come una negazione dei legami tra gli ebrei e la Spianata delle Moschee, il sito religioso islamico che secondo gli ebrei coincide con il Monte del biblico Tempio distrutto duemila anni fa.

Il presidente del consiglio italiano deve sapere che si è accalorato tanto per qualcosa, lo status del luogo santo, che Israele non può mutare, se non vuole andare alla rottura delle relazioni con la Giordania, sua strettissima alleata, e scatenare reazioni ovunque nel mondo arabo-islamico perdendo le amicizie che si è costruito dietro le quinte in questi anni. Quando sul tavolo ci sono le moschee di al Aqsa e della Roccia nessun re, principe e presidente musulmano può mostrarsi compiacente, la difesa del luogo santo è sicura ed automatica. Netanyahu lo sa bene. La monarchia hashemita, discendente dalla famiglia di Maometto, si considera custode di Haram al Sharif, la Spianata delle moschee. E ha già fatto la voce grossa un anno fa di fronte alle “visite” al sito da parte di militanti della destra religiosa israeliana, obbligando Netanyahu a rispettare lo status deciso quasi 50 anni fa, dopo l’occupazione di Gerusalemme est da parte di Israele, che non nega ai fedeli di altre fedi di visitare il sito ma riserva il diritto di pregarvi solo ai musulmani.
A Gerusalemme gli ebrei pregano al Muro del Pianto, i cristiani al Santo Sepolcro e i musulmani alla Spianata. Rompere questo equilibrio scatenerebbe reazioni imprevedibili. E Renzi farebbe bene a domandarsi cosa accadrebbe se i musulmani o i cristiani chiedessero di pregare al Muro del Pianto che pure è parte della Spianata/Monte del Tempio. Lo status quo perciò è la condizione migliore per le tre fedi monoteistiche a Gerusalemme e l’Unesco – al di là del tono del testo e dei toponimi islamici usati nella risoluzione – non ha fatto altro che ribadirlo e richiamare Israele al suo rispetto. La risoluzione dell’agenzia dell’Onu approvata martedì scorso, condanna le presunte visite di preghiera degli attivisti israeliani e chiede al governo Netanyahu di adottare misure per prevenire provocazioni che violano l’integrità delle moschee. Denuncia gli scavi fatti e le infrastrutture costruite unilateralmente Israele nell’area che riguarda anche la Spianata delle Moschee. Più di tutto il documento dell’Unesco ribadisce che Israele è la potenza occupante a Gerusalemme est. Il testo perciò è in linea con il diritto internazionale e le risoluzioni dell’Onu 242 e 338 votate dopo la Guerra dei Sei Giorni.
Le violazioni dello status quo sono sempre sfociate in violenze con morti e feriti. Nell’ottobre 1990 il progetto di una organizzazione messianica israeliana di cominciare la costruzione del Tempio sulla Spianata causò scontri tra dimostranti e polizia che si conclusero con la strage di 20 palestinesi. Nel settembre 2000 la famosa “passeggiata” dell’ex premier israeliano Ariel Sharon sulla Spianata innescò la seconda Intifada palestinese.


La cortina fumogena della paura 

Zvi Schuldiner Manifesto 22.10.2016, 23:59 
È probabile che quando il Nobel verrà assegnato a chi più ha attivamente usato la paura per far avanzare le sue manovre, il premio andrà al premier israeliano Netanyahu. E se dovesse essere assegnato a chi parla senza sapere di cosa parla, molti israeliani e non pochi italiani si disputeranno il titolo. Lo scandalo Unesco, la decisione tanto criticata su Gerusalemme, è un caso molto strano nel quale la maggioranza degli attori crea ad arte una raccapricciante e tragica gran cortina di fumo, che permette di non parlare delle questioni vere, del costo della guerra e del sangue da versare in una crisi che sta solo precipitando. Netanyahu e la leadership israeliana tutta, con quasi nessuna eccezione, hanno elevato un coro contro la decisione dell’Unesco che negava – secondo loro – ogni vincolo ebreo sui luoghi sacri nella Città vecchia di Gerusalemme. Una negazione che sarebbe stata fatta per pura ignoranza, imbecillità o magari per antisemitismo. 
Il problema è che non è questo il contenuto della risoluzione dell’Unesco. Piaccia o no la decisione mette un’altra volta sul tavolo delle discussioni parte del problema, centrato nella Moschea di Al Aqsa, il terzo luogo sacro per i musulmani, costruito nell’anno 705. 
Per gli archeologi, nello stesso luogo sarebbe stato edificato il Secondo Tempio, sacro agli ebrei e distrutto durante la rivolta contro i romani nell’anno 70. 
Dal 1967, l’allora ministro della difesa Dayan e una gran parte dell’élite dominante – anche sotto governi di destra – evitò di convertire la vicenda in una questione di sostanza per i credenti, così che importanti rabbini proibirono la visita al Monte su cui si troverebbe il Tempio, oggi luogo sacro per i musulmani. 
I rabbini intesero bene i pericoli di stimolare i circoli fondamentalisti che oggi, sul Tempio, animano le campagne dell’estrema destra. 
Ora i politici israeliani che reagiscono infuriati vogliono accusare l’Unesco di rivelarsi come un’organizzazione quasi antisemita nel negare che gli ebrei abbiano alcun vincolo con i luoghi sacri. I giornali, in generale, giocano un ruolo assai penoso quando riflettono solo la posizione di Netanyahu e dei suoi compari. Com’è possibile, infatti, una decisione che dica o insinui che gli ebrei non abbiano un vincolo storico con questa terra o con Gerusalemme e i suoi luoghi santi? Una tale decisione sarebbe molto più deplorevole e andrebbe a vantaggio dei demagoghi e razzisti di tutti i colori. Il problema è un po’ più chiaro quando si legge la risoluzione dell’Unesco che afferma, tra le altre cose, l’importanza della città vecchia di Gerusalemme «per le tre religioni monoteiste» e deplora profondamente il rifiuto di Israele di applicare le decisioni precedenti dell’Unesco riguardo a Gerusalemme est. 
La decisione critica vari passi adottati da Israele e invita anche a ritornare all’accordo di status quo che avevano firmato i governi di Israele e Giordania nel passato. Documento che permetteva le visite di ebrei e turisti in generale è considerato positivo ancora oggi dai circoli diplomatici israeliani. Anche uno dei partecipanti alle discussioni di allora ha invitato, su Haaretz la settimana scorsa, a rifarsi a questo documento. 
Già da un anno i fatti di sangue in Israele e specialmente a Gerusalemme si sono aggravati nel segno della «Terza Intifada». La ragione è semplice: la realtà musulmana ha visto nei passi israeliani adottati nell’ultimo anno e nelle provocazioni senza fine della destra fondamentalista, una minaccia reale alla Moschea di Al Aqsa. Forse ad occhi israeliani o europei questo non è importante, ma il moltiplicarsi di passi che accelerano la presenza di circoli israeliani «pro Tempio» che pure violano la proibizione (stabilita negli accordi precedenti) di pregare nella spianata di Aqsa, sicuramente alimenta ogni posssibile teoria, certa o meno, che il pericolo per l’integrità della Moschea sia imminente. 
Il governo israeliano si accontenta di dichiarazioni occasionali in cui dice che non desidera cambiare lo status quo perché teme che questo convertirebbe il conflitto in una guerra infernale con tutto il mondo musulmano. Però allo stesso tempo non frena le aggressioni e le provocazioni dei circoli fondamentalisti. E questi vengono accontentati con decisioni che, al contrario, limitano l’arrivo di credenti musulmani sul luogo. 
Sarebbe conveniente che l’Europa e gli Usa (se non fossero presi da calcoli elettorali), si svegliassero: Netanyahu e i suoi compari ci stanno portando a un conflitto religioso. Un conflitto politico si può risolvere, uno religioso no. 
Il problema oggi non è l’Unesco e le decisioni europee ma l’apatia internazionale di fronte all’aggravarsi dell’occupazione; il consolidarsi di nuovi insediamenti che sono un ostacolo alla pace. 
Quattro milioni di esseri umani sprovvisti dei più elementari diritti non sono ascoltati dai politici irresponsabili che non si preoccupano neanche di leggere le dichiarazioni dell’Unesco e ancor meno capiscono che la lotta per una pace vera è urgente e necessaria.


LA PASSIONE ANTICA DELL’ASTENSIONE 

STEFANO FOLLI Rep 22 10 2016
HA RAGIONE Matteo Renzi nel definire «allucinante » la risoluzione dell’Unesco che nega qualsiasi legame storico fra la spianata delle moschee a Gerusalemme e l’ebraismo. Tuttavia ha ragione con una settimana di ritardo. Questo ritardo ha fatto sì che il rappresentante italiano si sia astenuto nel voto, a differenza dei suoi colleghi di Stati Uniti, Germania e Gran Bretagna, solo per citare i maggiori Paesi occidentali che si sono espressi contro il documento. Con ciò esponendosi a una sconfitta, ma salvando un principio morale prima ancora che politico.
Ora il presidente del Consiglio dice: “basta con le astensioni”, sinonimo a suo avviso di una politica estera ambigua e furbesca. E di nuovo è difficile dargli torto. Da quando è a Palazzo Chigi, Renzi ha interpretato una linea molto più vicina a Israele e comprensiva delle ragioni di Gerusalemme rispetto alla tradizione dei governi della Prima Repubblica, a guida sia democristiana sia socialista craxiana. Si potrebbe dire che egli ha recuperato, tentando di tradurla sul piano politico, una posizione culturale che era propria delle minoranze laiche: repubblicani, radicali, liberali. «Israele non deve solo esistere, deve resistere» ha detto tempo fa il premier in visita nello Stato ebraico. Il che significa che deve resistere per poter esistere. E quindi — sottinteso — è compito della comunità internazionale favorire, nelle forme opportune, tale “resistenza”.
Non è solo questione di toni verbali e di sfumature. A prendere per buone le affermazioni di Renzi, siamo di fronte a una svolta significativa che avvicina la politica italiana in Medio Oriente e nel Mediterraneo a quella degli Stati Uniti e la allontana dalle contraddizioni e dalle incertezze dell’Unione europea. Tuttavia accade poi che nelle scelte concrete l’Italia ricade nei soliti automatismi diplomatici. Sulla risoluzione Unesco ci si è astenuti come la Francia, secondo una certa consuetudine che non sempre ha portato fortuna, visto che Parigi ha spesso dimostrato di perseguire in Nord Africa e altrove interessi molto diversi da quelli italiani.
Ora la domanda è: la vera linea di Roma è quella di Renzi o quella che si traduce nella politica delle astensioni ogni volta che nelle sedi internazionali c’è da affrontare una scelta scomoda? Volendo escludere che sia in atto un gioco delle parti fra Palazzo Chigi e la Farnesina, dal momento che nessuno dei protagonisti della vicenda merita un tale sospetto, occorrerà affrontare un chiarimento che non sia solo mediatico. Anche perché è evidente che il presidente del Consiglio intende alzare il suo profilo in politica internazionale. Ieri non si è limitato al duro giudizio sul caso Unesco: ha fatto sapere che in sede europea l’Italia si è espressa contro le nuove sanzioni alla Russia di Putin, il che rappresenta un gesto forte, polemico contro tedeschi e francesi.
C’è il desiderio di non danneggiare le esportazioni delle imprese italiane, ma anche la volontà di marcare l’irritazione crescente verso l’Unione che non aiuta l’Italia sui migranti e rimane scettica, per non dire ostile, sui criteri della manovra finanziaria. Da Bratislava in poi Renzi tenta di prendere le distanze da un condominio franco-tedesco dal quale si sente escluso. È in parte una novità, soprattutto per il clamore con cui queste lacerazioni vengono comunicate all’esterno. Il referendum di dicembre c’entra senza dubbio in qualche misura, ma ancor più è in gioco il consenso di lungo termine che Renzi teme di perdere se seguisse senza un sussulto le direttive dell’Unione.
Ovvio che il nervosismo italiano non fa che mettere in luce tutto quello che non va nell’Europa di oggi, senza peraltro che sia alle viste una soluzione alternativa. Quanto all’Unesco, coincidenza vuole che il caso sia esploso nelle stesse ore della polemica sulle sanzioni a Putin. Esploso con una settimana di ritardo, abbiamo visto. Anche qui Renzi, che pure stima Gentiloni e lo ha voluto alla Farnesina, dimostra di non voler delegare la politica estera ad altri. Certo non a chi agisce secondo vecchi riflessi condizionati quando sono in gioco problemi di fondo come il rapporto con Israele.


L’affondo di Renzi sul voto all’Unesco: basta no a Israele si rompa il fronte Ue 

“Allucinante l’Italia astenuta su Gerusalemme” A rapporto Gentiloni, che dice: “Ora si cambia”

VINCENZO NIGRO Rep 
ROMA. Matteo Renzi porta il governo italiano a rivedere il suo voto di astensione sulla risoluzione dell’Unesco contro Israele. Una risoluzione che il premier adesso rifiuta, definendola semplicemente «allucinante».
Il voto del 12 ottobre della Commissione cultura dell’Unesco condannava Israele per la gestione di Gerusalemme Est. Le contestazioni più gravi contenute dal documento sono due: innanzitutto il mancato rispetto dei luoghi sacri dell’Islam. Secondo, il crescendo di aggressioni e di misure illegali contro la libertà di preghiera dei musulmani palestinesi. Questa “decisione” viene messa periodicamente in voto all’Unesco, e ogni volta viene votata perché i Paesi arabi e i loro alleati hanno la maggioranza; e in più non c’è un meccanismo di veto come quello che può bloccare i voti al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Ma nel testo votato (e confermato il 19) erano anche stati cancellati i riferimenti ai nomi ebraici del “Monte del Tempio”, mentre viene usata solo la dizione araba “Haram Al Sharif”, il nobile santuario.
Sul pronunciamento dell’Unesco, come molte altre volte, il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni aveva accettato la proposta degli Affari politici del suo ministero di far astenere l’ambasciatrice italiana Vincenza Lomonaco. Una posizione che permetteva all’Italia di non approvare questa offesa alle ragioni ebraiche, ma non bocciava apertamente i richiami a favore dei diritti dei palestinesi.
A qualche giorno dalla decisione, Renzi impone però il cambio di linea. E lo stesso Gentiloni spiega che «fino ad oggi abbiamo seguito questo voto quasi in automatico, da adesso cambieremo». Ma cosa è accaduto per convincere il premier alla svolta? Per due volte, prima della seduta dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura che ha sede a Parigi, l’ambasciata di Israele a Roma era intervenuta sulla Farnesina, prima per chiedere di votare “no” e poi per protestare per la scelta di astenersi. Senza successo. A scuotere Renzi sono stati i titoli dei giornali, le proteste della comunità ebraica italiana, che si è rivolta con forza al governo, ai suoi ministri e anche al capo dello Stato, Sergio Mattarella.
La presa di posizione di Renzi fa effetto perché smentisce una scelta che poteva tranquillamente essere valutata e gestita diversamente in anticipo, una scelta che gli Affari politici della Farnesina avevano elaborato tenendo conto delle regioni dei palestinesi ma anche di Israele.
Non è un cambio di linea epocale per la nostra politica estera: l’Italia non è isolata, ma è assieme a Paesi come Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania, Olanda, Lituania ed Estonia.
Ritornando alla ricostruzione delle tappe che hanno portato al cambiamento, ieri mattina la presidente delle Comunità ebraiche italiane, Noemi Di Segni, aveva scritto una lettera aperta alla Stampa. Il presidente Sergio Mattarella a fine novembre farà una visita in Israele, e a questo viaggio ha fatto riferimento la Di Segni, invitando il capo dello Stato a rendersi conto della realtà di Gerusalemme. Sicuramente non sarebbe stato agevole per Mattarella visitare Gerusalemme con il timore di contestazioni degli israeliani o, quasi certamente, della comunità ebraica di origine italiana che vive a Gerusalemme.
Ieri Israele si è congratulato con Renzi. Prima il portavoce del ministero degli Esteri Emmanuel Nahshon, secondo il quale «la reazione di Renzi mostra che comprende il significato della verità storica e del tentativo fatto di cancellare parte della storia del giudaismo e della cristianità a Gerusalemme ». Ma poi in serata da Gerusalemme al premier italiano è arrivata la telefonata del premier israeliano Bibi Netanyahu: il grazie di Israele per la svolta.


La battaglia sui luoghi santi e la cultura della propaganda che impediscono la pace 

La decisione dell’agenzia Onu non serve a proteggerli Peres disse: “L’intero chilometro quadrato va posto sotto la sovranità di Dio”

SIEGMUND GINZBERG
LA RISOLUZIONE dell’Unesco è una provocazione. Che non ha niente a che fare con la cultura. Non serve al dialogo, anzi distrugge le possibilità di dialogo. Non serve a proteggere i luoghi santi di Gerusalemme, nemmeno quelli santi all’Islam. Non serve a criticare la politica dura del governo Netanyahu. Non serve a fermare gli estremisti israeliani. Non serve a dar ragione ai palestinesi in cerca della propria dignità di popolo. Vale solo come propaganda. Ma come propaganda boomerang, da zappa sui piedi, che ottiene effetti opposti a quelli dichiarati dai proponenti.
La cultura, ragione sociale dell’Unesco, non c’entra. E c’entra poco anche la storia. Tanto per fare un esempio opposto: in coincidenza con il trambusto della risoluzione si apre al Metropolitan di New York una esposizione che tratta proprio della continua compresenza a Gerusalemme di tutte e tre le grandi religioni monoteiste. “Gerusalemme 1000-1400: Tutti i popoli insieme sotto il Cielo”, si intitola. Scopo dei curatori mostrare che «se qualcosa accomunava le diverse comunità religiose, era il rispetto, la reverenza condivisa verso la parola scritta». Parole per convivere, non per odiarsi.
Wlodek Goldkorn ricorda che quando nel 1993 chiese a Shimon Peres, dopo gli accordi di Oslo, che cosa bisognasse fare di quel chilometro quadrato, santo e maledetto, quello rispose: «Porlo sotto la sovranità di Dio». Forse non era solo una battuta. Anni dopo, facevo il corrispondente in America quando Arafat e Barak vennero a Camp David. Sembrava stessero per concludere la pace iniziata con Rabin. Ricordo che mi venne da piangere quando un vecchio amico rabbino e progressista, ben addentro nei colloqui, mi anticipò che non se ne sarebbe fatto nulla. Ruppero su Gerusalemme e sul “diritto al ritorno” dei palestinesi. Gli interlocutori chiesero ad Arafat, durante incontro ravvicinato nei corridoi, perché insisteva su due argomenti chiaramente propagandistici, che messi così non avrebbero portato da nessuna parte. Lui rispose: «Volete che mi ammazzino?».
È evidente che una risoluzione che già nel titolo si riferisce ai “Luoghi santi occupati”, e ne parla come se fossero cari solo all’Islam, serve solo a fare propaganda. Non serve a riavvicinare, discutere, dialogare, ma solo ad esacerbare le contrapposizioni. Non serve a difendere i monumenti e l’accesso ai luoghi di culto o a preservare i siti storici. C’è chi denuncia che l’intera Gerusalemme vecchia, patrimonio dell’Umanità, iperaffollata, si sta sgretolando, mentre procede incurante la rissa su a chi spettano i luoghi santi. Non serve a dar voce a quella parte di ebraismo che in Israele e nel mondo vorrebbe fermare gli eccessi del governo di destra, la provocazione continua di nuovi insediamenti ebraici, l’umiliazione continua e deliberata dei palestinesi. Le provocazioni, per definizione, provocano reazioni, non soluzioni.
L’effetto immediato di quella dell’Unesco è stato distrarre l’attenzione da chi si dà da fare per il dialogo. Ha dato argomenti a Netanyahu contro gli ebrei «traditori » che si sarebbero uniti al «coro di calunnie contro Israele». Gli ha consentito di tuonare contro quelli di B’Tselem, il “Centro di informazione israeliano per i diritti umani nei territori occupati”, andati qualche giorno a fa a portare la propria testimonianza critica dinanzi al Consiglio di sicurezza dell’Onu a New York. E come non bastasse, ha dato fiato alle altre Ong israeliane, quelle di destra, che all’opposto inventano sempre nuove provocazioni, vorrebbero impedire l’accesso alla spianata agli islamici, scavare sotto la spianata in cerca del Tempio di Salomone, e così via.
Se qualcosa non serve e fa danno a tutti, bisognerebbe saper dire di no, anche se si finisce in minoranza, anche se si scontenta qualcuno. Quindi non è senza senso che l’Italia, che si era astenuta, ci ripensi. Contro avevano già votato Germania, Olanda, Regno Unito e Stati Uniti. La risoluzione era sponsorizzata da Algeria, Egitto, Libano, Marocco, Oman, Qatar e Sudan, non tutti campioni di democrazia. In favore hanno votato Russia, Nicaragua, Mozambico e Sud Africa e Messico e Brasile, che però nel frattempo ci hanno ripensato. Ieri si è pronunciato duramente contro il Parlamento ceco. Si tratta comunque di scelte politiche. Non religiose. Sarebbe altrettanto propagandistico esasperare la critica alla sfortunata risoluzione dell’Unesco sostenendo che metterebbe in discussione il diritto di Israele ad esistere, la legittimità della presenza israeliana a Gerusalemme e in uno dei luoghi più sacri dell’ebraismo. Se proprio si volessero accampare diritti religiosi su quelle vetuste pietre sarebbe dovuto intervenire anche il Papa, a rivendicare quelli dei cattolici. Anche se, a dire il vero, erano stati in un passato neanche tanto remoto, sanguinosamente contestati non tanto dai musulmani o degli ebrei, ma da altri cristiani, ortodossi in testa. Su questo si erano fatte anche guerre tra cristiani. Ma Francesco è uomo di pace, non di recriminazioni ed esasperazioni.


“Ma da ebreo dico: bene restituire dignità ai palestinesi” 

L’INTERVISTA/ L’ATTORE MONI OVADIA: IL PREMIER ISRAELIANO FA POLITICA NAZIONALISTA PARLANDO DI “DIRITTO DIVINO” SU QUELLA TERRA

MATTEO PUCCIARELLI
MILANO. «A me dispiace perché Matteo Renzi sta facendo il solito gioco poco intelligente che in realtà fa molto male proprio a Israele», dice Moni Ovadia, attore, drammaturgo, uomo di sinistra e soprattutto ebreo appassionato alle vicende legate al proprio popolo.
Il premier ha detto che quella risoluzione dell’Unesco era finalizzata ad attaccare Israele, cosa ne pensa?
«Sta per caso ricambiando gli Stati Uniti per lo spot di Obama al Sì al referendum? Scherzi a parte, la cosa opportuna da fare sarebbe invece convocare una conferenza di pace in Europa. Perché fu proprio in Europa che avvenne l’Olocausto: il nostro Continente ha un debito morale in questo senso».
Ma la questione di non aver nominato il Muro del Pianto nella risoluzione, utilizzando la dizione araba, per lei è importante?
«Attaccarsi a queste cose, come fa Netanyahu, è propaganda nazionalista. Lui è un uomo di destra che parla di un presunto “diritto divino” degli ebrei su quella terra, e in nome di ciò mette in discussione la legittimità di esistere dei palestinesi. I quali sono stati vessati, espropriati delle proprie terre, vivono in una prigione a cielo aperto, isolati dalla comunità internazionale. Ad oggi ci sono 500mila coloni che si sono insediati illegalmente in territori che non gli spettano. Si chiama occupazione. Ci rendiamo conto?».
Però esiste il “legame millenario” tra ebrei e Gerusalemme? Legame che non sarebbe stato tenuto di conto dall’Unesco, sempre secondo Israele.
«Naturalmente c’è ma qui siamo di fronte alla strumentalizzazione politica di un premier che, di fatto, non vuole riconoscere dignità alla Palestina. Ben venga invece che l’Unesco abbia avuto questa sensibilità».
È possibile contestare la politica di Israele senza passare per antisemiti?
«Sta diventando sempre più difficile. Io per anni ho criticato Silvio Berlusconi, per caso ero anti-italiano? Allora, da ebreo, so e dico che nel Talmud il nazionalismo è considerato idolatria. Aggiungo che la retorica della terra e del sangue, di un passato sacrale, è la stessa che poi ha generato il nazismo. E infine l’etica ebraica rifiuta ogni oppressione. Chi oggi più o meno direttamente spalleggia il governo israeliano non vuole il bene del Paese».
Lo Stato di Israele invece, secondo lei, ha una legittimità oppure no?
«Ce l’ha e trae origine dalla risoluzione 181 del ‘47 dell’Onu. Quando David Ben Gurion ne annunciò la firma fu un tripudio di felicità per tutto gli ebrei del mondo. Adesso chi governa Israele non può atteggiarsi come un organismo al di sopra delle regole internazionali».

Gerusalemme, l’invasione degli ultracristiani

I cristiani sionisti, in prevalenza evangelici, sono sempre di più decisivi per negare i diritti dei palestinesi e per sostenere il governo Netanyahu e il movimento dei coloni

di Michele Giorgio il manifesto 22.10.16
GERUSALEMME «E ora salutiamo con un applauso il Paese che amiamo e ammiriamo: Israele». Esplode la gioia dei cinquemila stipati nella Pais Arena, il palazzo dello sport di Gerusalemme, accompagnata da musica sparata a tutto volume. Sulle tribune è un tripudio di colori, di bandiere diverse. Chi le sventola è giunto dalla Cina, dal Perù, dal Brasile, dalle isole Fiji, da Taiwan, dall’Africa, dall’Europa, dagli Stati Uniti. In lontananza si scorgono anche un paio di bandiere italiane. Tanti alzano le braccia al cielo tenendo gli occhi chiusi. Altri danzano, sorridono, si abbracciano catturati dall’estasi. Poi scende il silenzio quando sull’ampio paloscenico prende la parola Jurgen Buhler. Tedesco, scienziato prestato alla fede e da alcuni anni direttore esecutivo dell’Ambasciata Cristiana Internazionale a Gerusalemme (Acig), Buhler per una trentina di minuti rivolge ai presenti un discorso, quasi un appello, a sostegno di Israele, della coppia «che è fatta di un uomo e di una donna» ripete più volte, della centralità della famiglia e di una copiosa procreazione e della fede in Dio e in Gesù Cristo «che possono salvarci dalle malattie e donarci la vita eterna». A questo punto sul palcoscenico salgono altri predicatori. Insieme a Buhler invitano gli ammalati gravi ad avvicinarsi. Inizia una processione di decine di persone con la disperazione dipinta in volto, in lacrime, alcuni giovani, che avanzano lentamente verso i predicatori che a turno afferrano il microfono e scandiscono urlando «Credi in Dio, credi in Cristo, ti stanno già guarendo, tu stai già meglio grazie alla tua fede».
Anche quest’anno è stata un successo la settimana di iniziative, dibattiti, tour, preghiere collettive, organizzata a Gerusalemme dall’Ambasciata Cristiana Internazionale, in occasione della festa ebraica dei Tabernacoli. Le presenze aumentano di anno in anno grazie al lavoro delle 18 sedi aperte dall’Acig in altrettante parti del mondo (una anche in Italia). E se prima a mobilitarsi in questa occasione erano esclusivamente gli evangelici, ora a questa folta schiera si uniscono anche tanti cattolici e qualche ortodosso. Tutti insieme giovedì hanno sfilato per le strade di Gerusalemme sventolando le loro bandiere e quelle di Israele, per sollecitare i vertici delle Chiese e i leader politici cristiani a rinunciare alla diplomazia per abbracciare senza esitazioni le posizioni Israele, così da respingere «la minaccia islamica» e negare le rivendicazioni territoriali dei palestinesi. In questo quadro Gerusalemme è solo di Israele e la recente risoluzione dell’Unesco sulla Spianata delle Moschee è vista come una «vergognosa negazione» dei diritti degli ebrei sul Monte del Tempio, distrutto duemila anni fa e che dovrà essere ricostruito.
Un tempo si sarebbe parlato un fenomeno riconducibile soltanto a correnti all’interno delle chiese evangeliche. In particolare negli Stati Uniti, alla Christian Coalition of America, l’organizzazione che include esponenti del mondo cristiano fondamentalista e neo-evangelicale, fondata da Pat Robertson. Oppure si sarebbe fatto riferimento al pastore americano John Hagee, notissimo, che da anni annuncia la seconda venuta di Cristo a difesa di Israele e la distruzione dell’Anticristo (l’Islam) che in un suo video propagandistico è raffigurato come un cavallo di colore verde che sta per travolgere l’umanità. E non si può dimenticare il reverendo Tim LaHaye, morto qualche mese fa, coautore con Jerry Jenkins della serie di bestseller apocalittici “Left Behind”: 16 romanzi, scritti tra 1995 e 2007, basati sui libri di Isaia, Ezechiele e dell’Apocalisse che hanno venduto 65 milioni di copie nella cosiddetta “cintura della Bibbia” spodestando autori del calibro di John Grisham. Oggi però è più giusto parlare di cristiani sionisti, una galassia di persone ed organizzazioni in tutto il mondo, spesso in contrasto con le Chiese protestanti tradizionali, che ha un bacino di militanti e simpatizzanti intorno ai 30 o 40 milioni solo negli Usa, che abbina ad obiettivi politici molto concreti, come il sostegno allo Stato di Israele e al suo controllo territoriale tra il Mediterraneo e il fiume Giordano, al messianesimo che vede nel ritorno degli ebrei nella Terra Promessa il segno del progressivo compimento delle profezie bibliche e del nuovo avvento di Cristo.
In questi ultimi anni tra i cristiani sionisti ha preso sempre più piede “l’ala politica” che proponendo, di fatto, la sostituzione e applicazione sul terreno del testo biblico al diritto internazionale, mira ad annullare le rivendicazioni dei palestinesi sotto occupazione e a cancellare definitivamente la soluzione dei “Due Stati”, Israele e Palestina. Non a caso si sono fatti sempre più stretti i rapporti di questi cristiani con la destra israeliana e il movimento dei coloni ebrei in Cisgiordania. Mercoledì è stato Naom Arnon, uno dei rappresentanti più noti del movimento dei coloni, a guidare nelle strade di Hebron una delegazione di 18 parlamentari cristiani giunti da tutto il mondo per «verificare di persona le bugie che raccontano i media sulla condizione della città». Lungo le sale della Tomba dei Patriarchi, Arnon, presentato con un esperto di religioni forte di un dottorato, ha spiegato ai parlamentari e ai giornalisti presenti che «Abramo comprò il sito di Hebron in modo che venisse consegnato migliaia di anni dopo allo Stato di Israele e al popolo ebraico». Nonostante si tratti di un racconto religioso e la stessa esistenza e la storicità di Abramo (ritenuto il padre del monoteismo anche da musulmani e cristiani) non siano mai state confermate da testimonianze indipendenti dalla Genesi, molti dei presenti hanno annuito ascoltando le parole di Arnon. Una conferma di quanto stia prevalendo anche in settori del mondo politico occidentale l’idea di una supremazia del testo biblico sulla storia e il diritto internazionale.
Il sostegno dei cristiani sionisti alla colonizzazione si è moltiplicato. «Raccolgono fondi ingenti per gli insediamenti coloniali – ci dice Liat Schlesinger, una ricercatrice del Centro per la Democrazia “Molad” di Tel Aviv, che da anni tiene sotto osservazione queste attività – ci sono Ong cristiane che mettono centinaia di volontari a disposizione delle attività dei coloni e finanziano generosamente un numero crescente di progetti nelle colonie». Negli ultimi dieci anni, spiega Schlesinger, i cristiani sionisti leader hanno sviluppato stretti legami con importanti politici e parlamentari in Israele ai quali talvolta offrono favori e vacanza pagate. Dal 2006 al 2014, una ventina di parlamentari israeliani hanno goduto di 69 viaggi in varie destinazioni in tutto il mondo per gentile concessione di organizzazioni cristiane che in cambio otterrebbero facilitazioni per l’apertura chiese e centri di teologia in Galilea. «Soprattutto questi cristiani hanno stretto i legami con i coloni con i quali condividono una agenda sociale conservatrice e una profonda ostilità verso l’Islam», aggiunge la ricercatrice di Molad «negli ultimi anni, decine di milioni di dollari, sono affluiti negli insediamenti per progetti che vanno dalla costruzione di edifici pubblici alla quella dei serbatoi dell’acqua. Le organizzazioni cristiane sioniste offrono un gran numero di volontari per gli agricoltori nelle colonie, anche negli avamposti illegali». All’interno di Israele, conclude Schlesinger, «queste organizzazioni svolgono campagne contro l’aborto e i gay assieme alla destra locale. Dicono di essere cristiani che amano gli ebrei mentre in realtà amano solo la destra e i coloni».
I vertici della politica israeliana hanno un doppio atteggiamento verso i cristiani sionisti. Da un lato ricercano e ottengono il loro appoggio, specie negli Stati Uniti e in Europa, e contano sempre di più sulle loro attività a sostegno “diplomatico” di Israele. Da qualche tempo esiste un coordinamento tra le due parti volto a combattere il Bsd, la campagna di boicottaggio di Israele avviata in molti Paesi occidentali in reazione alla negazione dei diritti dei palestinesi e dell’occupazione di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est. Gruppi cristiani sionisti hanno contribuito a mobilitare un po’ ovunque governi e parlamenti contro il Bds nonchè a bloccare iniziative, anche culturali, di enti locali e istituzioni pubbliche a sostegno dei palestinesi facendole passare come attività fiancheggiatrici del terrorismo e antisemite. Dall’altro l’establishment politico israeliano mantiene all’interno del Paese un atteggiamento prudente. Sul piano religioso questa corrente cristiana crea non pochi imbarazzi, poichè vede nel compimento delle profezie il momento in cui gli ebrei accetteranno Gesù Cristo come il loro messia.
Le autorità religiose da parte loro guardano con occhi diversi ai cristiani sionisti. «I rabbini che fanno capo alla destra religiosa e al movimento dei coloni, pensano che questi gruppi vadano usati tatticamente a beneficio di Israele» ci spiega l’analista Michael Warshawski «allo stesso tempo sono diffidenti, sanno che il fine ultimo di questi cristiani non è il bene degli ebrei. I rabbini della comunità ultraortodossa invece non hanno alcun contatto con questi sionisti non ebrei e, a mio avviso, molti di essi neppure conoscono questa corrente, fuori dai loro interessi e campo di studio». 

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