sabato 8 ottobre 2016

Sconfitte e sconfitti nella politica italiana dal dopoguerra




L’eterno ritorno di chi non sa uscire di scena 
Mirella Serri Busiarda 13 10 2016
«Perbacco, come resiste», osservò il responsabile del Partito liberale, Leone Cattani. Il segretario del Pci, Palmiro Togliatti, ribatté ironico: «Non è stato forse il capo della Resistenza?». I due leader erano stupefatti di fronte alla virulenza del carismatico ex partigiano alla testa del Partito d’Azione, Ferruccio Parri: il 24 novembre 1945 aveva convocato una conferenza stampa nella quale avrebbe dovuto annunciare le dimissioni da premier del primo governo nato dopo la fine della Seconda guerra mondiale. All’improvviso, invece, dichiarò di non voler lasciare ma di esser pronto a denunciare l’esistenza di «un colpo di Stato».
Questa riluttanza di Parri ad abbandonare il gabinetto da lui presieduto farà scuola: inaugurò la tradizione, che arriva fino ai nostri giorni, dei politici mai disponibili ad accettare che Bisogna saper perdere, come si intitola il divertente excursus di Filippo Maria Battaglia e Paolo Volterra appena pubblicato da Bollati Boringhieri. 
Da De Gasperi a De Mita, Togliatti, Fanfani, Nenni, Fini, Berlusconi, Occhetto, Bersani, Prodi, Veltroni e D’Alema: nessuno di questi illustri esponenti dei più importanti partiti italiani ha mai saputo rassegnarsi alla sconfitta. Al contrario dei loro omologhi europei, da Kohl alla Thatcher, Blair, Aznar, Zapatero, Jospin e tanti altri che, una volta battuti, hanno salutato definitivamente la politica. 
In Italia, all’opposto, si cerca di rinviare l’addio: capitò, per esempio, persino a De Gasperi che, costretto a dimettersi da palazzo Chigi, nell’agosto del 1953 affermava: «Sono pronto a piegarmi allo spirito di servizio» e a settembre si candidò alla segreteria dello scudocrociato. Non a caso Amintore Fanfani fu soprannominato da Montanelli, per il suo presenzialismo nei posti di potere, «Rieccolo»; mentre a Ciriaco De Mita spetta il primato delle dimissioni più brevi, durate solo otto ore. 
Comunque i «peones», assicurano gli autori, rimangono sugli scranni parlamentari per poco più di nove anni, con una media simile a quella dei colleghi europei. Assai resistenti a farsi da parte sono invece i capi di Stato e di governo, che non mollano mai. E oggi? Il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha garantito: «Non sono un politico vecchia maniera che resta attaccato alla poltrona», aggiungendo che riterrà conclusa la sua esperienza politica nove anni dopo l’inizio del suo primo governo. Mettendo così (si spera) la parola fine all’eterno ritorno di quelli che non sanno uscire di scena.
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