mercoledì 19 ottobre 2016

Sottomissione del lavoro e della dignità umana: missione compiuta




Gli effetti invisibili del senso di colpa nella crisi più lunga
Effetti collaterali. La crisi economica ha avuto un profondo effetto disciplinante
Ha abbassato difese e aspettative permettendo di ridurre i diritti sociali senza grandi rivolte
di Tonino Perna il manifesto 20.10.16
Quasi dieci anni fa scoppiava la crisi dei mutui subprime negli Usa. Il re era nudo, il ruolo nefasto della finanza ormai evidente, gli stipendi dei manager diventati improvvisamente intollerabili e scandalosi. Nel 2007, l’anno della crisi e del crollo della Borsa di Wall Street, la remunerazione dei bancari delle quattro principali banche statunitensi era aumentata del 9% arrivando a 66 miliardi di dollari, mentre le rispettive banche perdevano 50 miliardi di capitalizzazione in Borsa. I dipendenti venivano pagati in media 350 mila dollari a testa per bruciare ognuno 274mila dollari. Con centinaia di milioni di dollari per ciascun banchiere al momento della liquidazione.
Stan O’ Neal, Ceo della Merill Lynch licenziato nell’autunno del 2007 in seguito al crollo in borsa della società, ricevette una liquidazione di 161 milioni di dollari. Charles Prince capo della potente City Group costretto alle dimissioni dopo aver portato la società vicina al fallimento, ricevette una liquidazione di 140 milioni di dollari.
Molti di noi hanno pensato che con il crollo delle Borse, con il licenziamento in massa degli operatori finanziari (150mila solo a New York), con gli evidenti effetti collaterali sull’economia reale, il sistema capitalistico mondiale dovesse cambiare rotta. Invece dopo 10 anni osserviamo che la capitalizzazione nelle principali Borse del mondo è tornata a livelli superiori al 2007, il debito pubblico e privato (Stato, famiglie e imprese) è arrivato al 265% del Pil mondiale (con un incremento del 35%) ed in particolare cresce il debito statale, impropriamente chiamato “sovrano”, di oltre 20 mila miliardi di dollari. Insomma, tutto è tornato come prima e peggio di prima nel mondo della finanza.
Come è ormai evidente questa crisi non è paragonabile a quelle precedenti: ha provocato una accelerazione nella diseguale distribuzione di redditi, patrimoni, potere; ha impoverito una buona parte della popolazione mondiale, compresi i paesi occidentali industrializzati che hanno visto per la prima volta una forte riduzione dei ceti medi.
Conosciamo gli effetti nefasti sull’occupazione, sulla crescita del disagio sociale, sul taglio dei servizi pubblici, sul crollo degli investimenti, ma non abbiamo ancora preso atto dei segni profondi che questa crisi ha lasciato, «segni invisibili» che le statistiche non registrano, ma che possiamo cogliere nei mutamenti culturali, nelle visioni del mondo, nell’agire quotidiano. Ha ragione Roberto Esposito quando afferma che «la crisi economica degli ultimi anni è diventata biopolitica nel senso che impatta fortemente con la vita delle persone».
Come docente universitario ho vissuto sia nel contatto con i miei studenti, sia attraverso delle ricerche sul campo, il dramma della inoccupazione giovanile, dei Neet (Not employement, education, training) ed ho percepito come prima cosa che i giovani laureati, ed anche “masterizzati” o “dottorati”, abbassavano di anno in anno le loro aspettative. Anche a livello nazionale, in alcune ricerche sulla condizione giovanile, emerge come i giovani ( dai 18 ai 35 anni) tendano ad accontentarsi quando riescono ad avere un lavoro, magari malpagato, e che alcuni si sentono dei fortunati e privilegiati solo perché sono riusciti a vincere un concorso pubblico, magari per una mansione dequalificante e con uno stipendio, che in una grande città, ti consente appena di sopravvivere. In questo senso si può dire che la crisi economico-finanziaria ha avuto un carattere “disciplinante” nell’accezione di Foucault, ha abbassato le aspettative e quindi ha permesso di ridurre i diritti sociali senza che ci fossero delle grandi rivolte popolari (eccetto che in Francia, dove questi diritti erano storicamente più radicati). Chi viene sfruttato e maltrattato sul luogo di lavoro si lamenta, ma poi aggiunge «meglio di niente: almeno io un lavoro ce l’ho».
Ho visto una condizione simile, per la prima volta in vita mia, nel Cile di Pinochet nel 1986, quando ero in quel paese. Una sera un taxista che mi accompagnava a casa di compagni cileni mi raccontò il fallimento della azienda dove lavorava: «Ero un lavoratore superfluo ed ho dovuto trovarmi un altro lavoro e per fortuna ho trovato un padrone che mi affitta il suo taxi». Mi è rimasto impresso il suo senso di colpa , si era convinto che il licenziamento fosse giusto, che lui fosse il colpevole, come nelle culture premoderne lo erano ( e lo sono ancora in alcune aree del mondo) le persone disabili che vivevano l’handicap come l’espiazione per un peccato commesso.
I «segni invisibili» della crisi li possiamo cogliere anche in una maggiore indifferenza verso i migranti e le guerre. E’ quella «indifferenza globalizzata» denunciata da papa Francesco. Cammina nei discorsi sul treno, al bar, o al ristorante, tra persone estranee quanto tra gli amici più cari. E’ il frutto di un profondo senso di impotenza che questa crisi ha rafforzato. Dalla finanza è transitata all’economia reale, segnando paradossalmente il trionfo del pensiero unico: il mercato è l’unica salvezza; non è possibile modificare questo modello di sviluppo capitalistico; i paesi del socialismo reale sono crollati e i comunisti cinesi e vietnamiti si sono salvati dal crollo e dalla perdita del potere convertendosi al turbo capitalismo.
Aldilà di una possibile ripresa economica (piuttosto improbabile) i segni della crisi resteranno per molto tempo, a segnare la forza del neoliberismo trionfante. Non è tanto e solo la concorrenza che ha scatenato tra lavoratori sempre più precarizzati, tra disoccupati ed immigrati, è il processo di interiorizzazione e di colpevolizzazione. L’idea che abbiamo vissuto per troppo tempo al di là delle nostre possibilità, che abbiamo esagerato nel welfare, nella spesa pubblica, nello Stato sprecone (vedi la necessità strombazzata di una spending review). Pertanto il debito insostenibile dello Stato- che è cresciuto iperbolicamente per salvare le grandi banche- è colpa nostra, la perdita di competitività delle nostre imprese è colpa nostra, dei lacci e lacciuoli che le leggi impongono (come lo Statuto dei lavoratori).
Chi vuole costruire un’alternativa economica e politica, non può non fare i conti con «i segni invisibili» della crisi penetrati nelle nuove generazioni, insieme alla paura del futuro. Una visione del mondo che è antitetica all’idea di progresso sociale, alla inevitabile evoluzione sociale positiva dell’umanità, che ha accompagnato il pensiero socialista, marxista, anarchico per due secoli.
Invisibili e senzatetto In aumento gli italiani curati da Emergency
L’ong a dieci anni dal primo ambulatorio nel nostro Paese “All’inizio solo migranti, oggi aiutiamo anche connazionali” di Alberto Mattioli La Stampa 20.10.16
Non solo guerre, epidemie e carestie. La nuova frontiera dell’emergenza è l’Italia. Emergency lancia una raccolta di fondi (fino al 17 aprile, donazioni via sms o chiamata al 45565) per il suo Programma Italia. Sorpresa generale: l’ong di Gino Strada chiede aiuto per intervenire in Italia dove 11 milioni di persone, stranieri ma anche italiani, non hanno accesso alle cure. Una su sei, secondo il Censis.
Sorpresa in realtà ingiustificata, perché Emergency lavora «in casa» già da dieci anni. Iniziò con il Poliambulatorio aperto a Palermo nel 2006 per garantire l’assistenza sanitaria ai migranti. Poi sono venute le strutture di Marghera, Napoli, Castel Volturno, Brescia, Polistena, Bologna, Sassari e i centri di accoglienza della Sicilia. E Milano, la ricca, civile, moderna Milano, motore del Paese? Qui dall’agosto 2015 funziona un ambulatorio mobile. Era stato pensato per gli immigrati, ma con il tempo si è scoperto che gli si rivolgevano anche gli italiani.
L’ambulatorio gira per la aree più disagiate della metropoli (Lorenteggio, piazza Prealpi, la Centrale, San Siro) con una media di 40 prestazioni al giorno. Nella classifica degli assistiti per nazionalità, gli italiani sono quarti dopo egiziani, marocchini e romeni. Adesso servono un altro ambulatorio mobile e un centro di orientamento sociosanitario, per spiegare a gente tagliata fuori anche dall’informazione a chi rivolgersi. «Ci sono prestazioni che possono essere già fatte da noi, come misurare la pressione o la glicemia o le iniezioni - spiega la presidentessa Cecilia Strada, figlia di Gino -. Per altre è invece necessario approfondire, orientando il paziente e accompagnandolo fisicamente alle visite».
«Gli italiani? Con la crisi, sono in continuo aumento», constata Marta Carraro, responsabile del Poliambulatorio di Marghera aperto nel ’15, con quattro mediatori e due assistenti alla poltrona stipendiati e circa 150 volontari fra medici, infermieri e odontoiatri che si organizzano per i turni, «adesso abbiamo un dentista che è venuto apposta da Palermo a passare tutta la settimana qui».
Gli italiani assistiti da Emergency sono divisi in due categorie. Nella prima ci sono i quelli che la tessera sanitaria l’hanno ma che sono in situazione «di fragilità economica», come la chiama Carraro. Il loro Indicatore della Situazione Economica inferiore agli 8.500 euro l’anno li rende, secondo i parametri della Regione Veneto, «vulnerabili». «A loro procuriamo gratuitamente gli occhiali, che il Ssn non passa, e la dentiera, che il Ssn passa ma facendosi rimborsare il costo del materiale, almeno 700 euro». Poi c’è la seconda categoria, quella cui vengono offerte tutte le prestazioni. Sono quelli che non sono coperti dal Ssn perché non hanno più la residenza, e magari vivono in strada.
Le storie sono terribili, da romanzo di Steinbeck. C’è il mastro vetraio che ha dovuto chiudere l’attività che la famiglia aveva da generazioni, che ha trovato un altro lavoro, che l’ha perduto perché la fabbrichetta ha chiuso e che da allora non ha più lavorato. C’è il 35enne gravemente cardiopatico che ha perso i genitori e il fratello, non poteva più pagare l’affitto, «e dopo tre anni che era per la strada siamo finalmente riusciti a fargli assegnare una residenza fittizia dal Comune di Venezia, così almeno ha la tessera e può ricorrere ai servizi sociali». Ci sono i divorziati sbattuti fuori di casa, ma che non possono permettersi di pagare un affitto perché nel frattempo magari hanno perso il posto. È un popolo di invisibili, gente che aveva un lavoro, una famiglia, una casa, poi ha perso tutto ed è sparita per la burocrazia, quindi non compare neanche nelle statistiche. «Spesso si vergognano, non vogliono che contattiamo i famigliari, non vogliono che si sappia. È terribile, perché capisci che può davvero capitare a chiunque».
I costi, non solo sociali, sono altissimi. Spiega Carraro: «Noi non vogliamo sostituirci al Ssn, ma aiutare la gente ad accedervi. Anche perché la situazione sanitaria di chi è senza cure ovviamente peggiora e alla fine spesso l’unica possibilità è il pronto soccorso. Quindi alla fine il danno è doppio: sta peggio il malato e curarlo costa di più».

Frena l’occupazione giù i posti stabili boom dei licenziati per motivi disciplinari
L’Osservatorio dell’Inps: nei primi otto mesi dell’anno manca l’effetto degli incentivi. Crescono i voucher di R. M. Repubblica 19.10.16
ROMA. Indietro tutta. Diminuiscono le assunzioni, in particolare quelle a tempo indeterminato, e aumentano i licenziamenti. Tra gennaio e agosto, registra l’Osservatorio sul Precariato dell’Inps, i licenziamenti sui contratti a tempo indeterminato sono passati dai 290.656 del 2015 a 304.437, con un aumento del 4,7 per cento. In particolare quelli per giusta causa e giustificato motivo soggettivo passano da 36.048 a 46.255, con un aumento del 28 per cento: potrebbe aver giocato un ruolo importante l’attenuazione dell’art.18 e la quasi impossibilità di ottenere il reintegro del posto di lavoro nel caso di licenziamento ingiusto.
Dopo il picco del dicembre 2015, quando il 67 per cento delle nuove assunzioni era a tempo indeterminato, ad agosto la percentuale è scesa al 24,9 per cento, molto più bassa del 30 per cento “preincentivi”. Nei primi 8 mesi del 2016 le assunzioni a tempo indeterminato sono state 805.168, con un calo del 32,9 per cento rispetto allo stesso periodo del 2015. Ma si registra un calo del 7 per cento anche rispetto al 2014, quando ancora non erano in vigore gli incentivi. A conferma dell’inversione di tendenza, tornano a crescere le assunzioni a termine: nei primi otto mesi del 2016, si registrano 2.385.000 assunzioni, in aumento sia sul 2015 (più 2,5%), che sul 2014 (più 5,5%). E si conferma anche lo straripamento dei voucher, quelli da 10 euro venduti fino ad agosto arrivano a 96,6 milioni, con un aumento del 35,9% rispetto allo stesso periodo del 2015.
Il risultato complessivo è quello di un arretramento: le assunzioni totali effettuate nei primi otto mesi del 2016 (comprese quelle a termine) nel settore privato sono state 3.782.043, con un calo dell’8,5 per cento sullo stesso periodo del 2015. Più che di fallimento del Jobs Act sembra il retroeffetto degli incentivi sul lavoro, che quest’anno si limitano al 40% con un tetto di 3.250 euro.
Gli esponenti politici dell’opposizione accusano il governo di aver sbagliato tutte le politiche del lavoro, qualcuno parla di “Flops Act”. «Molti ci avevano accusato di essere gufi. Le nostre preoccupazioni si stanno però concretizzando. In assenza di investimenti, diritti e ammortizzatori si sta verificando un picco di licenziamenti», accusa la leader della Cgil Susanna Camusso, che osserva anche come «si inizino a vedere gli effetti concreti dell’aver abolito la tutela nei confronti del licenziamento, con particolare riferimento a quelli individuali o disciplinari».
Il governo difende il Jobs Act e prova a dare una lettura diversa dei dati: «È una buona legge, - dice il ministro del Lavoro Giuliano Poletti - perché a fronte del meno 32% di oggi bisogna considerare che l’anno scorso è stato registrato un più 100%». Mentre il responsabile Economia del Pd Filippo Taddei invita alla consultazione dei dati Istat, che mostrano l’aumento di occupazione stabile più alto dal 2009. E ricorda che «non sappiamo come si distribuiscano i licenziamenti per giusta causa o giustificato motivo soggettivo tra le imprese sotto e quelle sopra i 15 addetti, quelle cioè in cui valeva l’articolo 18».

«Meno contratti stabili e più licenziamenti»
L’Inps: uscite per «giusta causa» in crescita del 28% sul 2015 e come nel 2014. Boom dei voucher di Andrea Ducci Corriere 19.10.16
ROMA Il Jobs act perde smalto se sprovvisto di forti incentivi. Il dato emerge dalle cifre sull’andamento dei nuovi rapporti di lavoro nel corso dei primi otto mesi dell’anno. Rispetto al periodo gennaio-agosto del 2015 le assunzioni a tempo indeterminato sono diminuite del 32,9%. Tradotto vuol dire una variazione assoluta di 395 mila persone in meno ad avere trovato lavoro con un contratto a tempo indeterminato. A certificarlo è l’Inps nell’Osservatorio sul precariato. La flessione investe anche le assunzioni stagionali, che scendono del 7,4% nei primi otto mesi dell’anno. Segni negativi che finiscono per ripercuotersi sul dato complessivo del reclutamento nel mondo del lavoro. Da gennaio ad agosto sono stati assunti 3,78 milioni di lavoratori, a fronte dei 4,13 milioni dello stesso periodo del 2015. La spiegazione del trend la fornisce l’Inps, «il calo va considerato in relazione al forte incremento delle assunzioni a tempo indeterminato registrato nel 2015, anno in cui dette assunzioni potevano beneficiare dell’abbattimento integrale dei contributi previdenziali per un periodo di tre anni». Vale ricordare, infatti, che per tutto il 2015 i datori di lavoro del settore privato hanno potuto utilizzare l’incentivo che garantiva uno sconto fiscale di 24 mila euro in tre anni per ogni nuova assunzione. A partire dal 2016 il beneficio della cosiddetta decontribuzione si è ridotto a poco più di 9 mila euro.
L’introduzione del Jobs act ha generato un ulteriore aspetto sul fronte dei licenziamenti. Nella casistica delle cessazioni di lavoro «per giusta causa e per giustificato motivo soggettivo» il dato dell’ultimo anno registra un aumento del 28,3%, evidenziando che i licenziamenti sono passati da 36 a 46 mila. Un effetto delle nuove regole, che non prevedono l’applicazione dell’articolo 18 per gli assunti dopo l’entrata in vigore della riforma varata dal governo Renzi. Tanto che il leader della Cgil, Susanna Camusso, sottolinea: «Si sta verificando quel che temevamo, l’assenza di diritti, ammortizzatori e investimenti ha determinato un picco di licenziamenti». Altrettanto secco Renato Brunetta, capogruppo di Forza Italia alla Camera dei deputati, che dice «scoppia la bolla Jobs act». Dal versante governativo interviene il responsabile economia del Pd, Filippo Taddei, specificando: «I dati Istat al 30 settembre registrano un rialzo dell’occupazione stabile che raggiunge i 14 milioni e 920 mila lavoratori. Il dato più alto dall’agosto 2009».
Resta che l’andamento delle assunzioni nel mese di agosto evidenzia come solo il 25% dei nuovi rapporti di lavoro sia a tempo indeterminato. Il dato peggiore degli ultimi due anni. A preoccupare è, infine, il boom dei voucher: nel periodo gennaio-agosto sono stati venduti 96,6 milioni di buoni destinati al pagamento delle prestazioni di lavoro accessorio. L’incremento rispetto al 2015 e del 35,9%.

L’Inps: crollano le assunzioni E volano i licenziamenti, +28%
Scatta l’allarme lavoro. Secondo i dati dell’Inps, crollano le assunzioni a tempo indeterminato, mentre l’abolizione dell’articolo 18 contenuta nel Jobs Act ha fatto impennare il numero dei licenziamenti di Roberto Giovannini La Stampa 19.10.16
Assunzioni giù, balzo dei licenziamenti
La fine degli incentivi fa tirare il freno alle imprese: tra gennaio e agosto contratti in calo dell’8,5% Dopo l’abolizione dell’articolo 18 sale il numero di rapporti lavorativi cessati per giusta causa: +28%
Nel 2016 si è ridotto il numero dei contratti di lavoro stabili avviati dalle aziende. Peggio: tra gennaio e agosto il mercato del lavoro ha offerto meno contratti stabili rispetto a quanto avveniva nel 2014. Così, il depotenziamento del superbonus per le assunzioni ha indotto le imprese a tirare i freni. Ma quel che preoccupa è che nell’anno in corso le aziende hanno finora firmato quasi lo stesso numero di assunzioni del 2014 (4.020.218 allora, 4.036.709 oggi). Un 2014 in cui non c’erano incentivi, e soprattutto non c’era il Jobs Act. Una riforma che, come rivela l’Osservatorio Inps sulla precarietà, con l’abolizione dell’articolo 18 ha fatto impennare il numero dei licenziamenti disciplinari.
Toccherà agli economisti chiarire gli eventi. Certo è che a guardare i numeri diffusi ieri dall’Inps, sembra che la riforma del lavoro Renzi-Poletti non abbia dato i risultati attesi. Non appena è venuta meno in modo significativo la convenienza ad assumere, il numero di assunzioni e trasformazioni è tornato ai livelli di due anni fa. E invece, come si temeva, le imprese cominciano gradualmente a usufruire della maggiore libertà garantita dal Jobs Act nell’eliminare il personale. Cominciando dai licenziamenti «per giusta causa», aumentati del 28,3% in un anno.
I dati Inps non fotografano l’occupazione, ma solo il numero effettivo dei contratti di lavoro nel settore privato. Le assunzioni nel periodo gennaio-agosto 2016 sono risultate dunque 3.782.000, con una riduzione di 351.000 unità rispetto al corrispondente periodo del 2015 (-8,5%). La frenata più netta è quella che riguarda i contratti a tempo indeterminato: 395.000 in meno, con un calo del 32,9% rispetto ai primi otto mesi del 2015, ma in discesa persino rispetto al 2014. Ovviamente, dice la nota Inps, ha pesato il boom del 2015, quando chi assumeva aveva per tre anni uno sconto di 8060 euro dei contributi previdenziali. Per la precisione, nel 2015 il 60,8% delle assunzioni e trasformazioni a tempo indeterminato godettero dell’agevolazione; oggi lo sconto è minore e biennale, e ne risultano agevolate solo il 32,8%. In calo drastico, dunque, anche le trasformazioni a tempo indeterminato di contratti a termine (-35,4% in un anno). Più o meno stabili i valori per contratti a tempo determinato, in apprendistato e stagionali. «Il jobs act è una buona legge perché a fronte del meno 32% di oggi - commenta il ministro Giuliano Poletti - bisogna considerare che l’anno scorso è stato registrato un +100%, quindi quel meno 32% parte da più 100% ed è quindi una discesa fisiologica».
Intanto però aumentano i licenziamenti. Se anche senza articolo 18 restano prossimi ai valori del 2014 i licenziamenti «economici» dei lavoratori a tempo indeterminato, i licenziamenti «per giusta causa o giustificato motivo soggettivo» (sostanzialmente quelli per ragioni disciplinari o assimilabili, resi più facili dal Jobs Act) nei primi 8 mesi del 2016 sono passati da 36.048 a 46.255, con un balzo di 11.020 unità in più, che corrisponde a un aumento su base annua del 28,3%. Infine, i voucher: nel periodo gennaio-agosto 2016 ne sono stati venduti 96,6 milioni (+35,9% sul 2015).
A oggi la differenza tra assunzioni e cessazioni (tutto compreso) negli ultimi dodici mesi è positiva (+514.000 unità). Anche per questo Matteo Renzi dagli Usa rivendica la bontà della sua riforma. Critici i sindacati: per Carmelo Barbagallo (Uil) il Jobs Act ha fatto «riciclaggio dei posti», mentre la Cgil Susanna Camusso afferma che «l’assenza di diritti, ammortizzatori e investimenti ha determinato un picco di licenziamenti». 

In Italia vince il cash l’87% degli scambi avviene in banconote 

L’economia sommersa produce 200 miliardi l’anno che sfuggono all’erario e finiscono nascosti nei posti più strani

ETTORE LIVINI Rep 19 10 2016
MILANO LA CACCIA al tesoro (in nero e in contanti) nascosti al Fisco dagli italiani è ufficialmente iniziata. Gli 1,7 milioni in banconote sequestrate nel controsoffitto di Fabrizio Corona sono solo l’antipasto. Il Belpaese degli evasori galleggia su un mare di banconote “fantasma”, sfuggite da sempre agli occhi dell’erario.
E IL governo vuol convincere questo esercito di contribuenti infedeli a svuotare i materassi – e non solo quelli – per firmare un armistizio destinato a portare un paio di miliardi nelle casse dello Stato. La posta in gioco è altissima. L’economia sommersa tricolore vale il 12,9% del Pil, qualcosa come 205 miliardi. Dove è finita questa montagna d’oro? Depositarla in banca senza entrare nel radar dell’Agenzia delle entrate è praticamente impossibile. Ma la geniale creatività tricolore non si è fatta scoraggiare. E ha trovato decine di canali alternativi per stravincere la partita a nascondino con lo Stato. Almeno 150 miliardi in contanti – stima il procuratore capo di Milano Francesco Greco – «sono nascosti in cassette di sicurezza». Un terzo, secondo le stime, nel nostro paese. Il resto parcheggiato all’estero, in buona parte negli accoglienti caveau delle banche e delle fiduciarie elvetiche.
La criminalità organizzata («la voluntary non coprirà i reati penali», garantisce il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan) gestisce la logistica di questo fiume di valuta con l’efficienza di una multinazionale.
Gli evasori fai-da-te - o i ladri di polli alla Corona - si arrangiano come possono, facendo sparire un gruzzoletto per volta. Un anziano imprenditore del Nord è stato fermato poche settimane fa al valico di confine di Chiasso Brogeda con 61mila euro nascosti nelle scarpe. Un altro ne aveva cuciti coscienziosamente 300mila nei tappetini dell’auto, sperando di farla franca. Il “Biscio”, al secolo Fabrizio Garratti, commerciante di Costa Volpino (Bergamo) con qualche precedente per narcotraffico, ha parcheggiato un milione di euro nel pavimento sotto il pollaio del padre, senza riuscire a ingannare la polizia.
L’Italia, del resto, è un paradiso per chi vuole ammucchiare fortune in contanti. Ben 87 transazioni su 100 coinvolgono ancora il passaggio di mano di banconote.
L’obbligo del Pos per esercenti, il tetto a 3mila euro per le operazioni in moneta e il boom degli acquisti online non sono bastati a incrinare la storica diffidenza tricolore per la moneta elettronica: carte di credito, bancomat & c. hanno il difetto di lasciare le impronte digitali di venditore e acquirente su ogni transazione, trasformandola in un libro aperto per gli occhiuti ispettori del fisco. E così, non a caso, siamo la Cenerentola d’Europa per l’uso di questo strumento di pagamento con la miseria di 30,1 operazioni pro-capite l’anno.
Il risultato sono stati fenomeni al limite del paranormale valutario come l’incredibile vicenda delle banconote da 500 euro. Bandite dalla Bce dal 2018 perché arma segreta di delinquenza organizzata ed evasori (in un solo pacchetto di sigarette ce ne stanno per un totale di 22mila euro). L’Italia del nero diffuso sembrava disporre di una sorta di stamperia clandestina delle monete di questo taglio. Nel 2014 – l’ultimo anno per cui ci sono dati disponibili – le banche hanno consegnato ai loro clienti 83 milioni di controvalore in banconote da 500. Negli stessi 12 mesi gli italiani ne hanno depositate per 9 miliardi. Da dove arrivavano? «Afflussi da paesi esteri», ha spiegato Banca d’Italia. Come dire proventi di evasione e attività illecite. L’obiettivo ora è convincere i titolari di questi tesoretti a firmare la pace con l’erario. Convincendoli magari che è l’ultima occasione per mettersi in regola (non sarà facile, visto il rosario di scudi e voluntary disclosures degli ultimi anni) prima di rischiare di pagare un conto molto più salato.
I furbetti del contante, per quanto fantasiosi, non riescono però a farla sempre franca. Nemmeno quando sono invisibili al fisco. Le Fiamme Gialle qualche mese fa hanno scoperto un bunker dietro l’ascensore di un imprenditore di Mezzago (Monza). Dentro c’erano 54mila banconote impilate una sull’altra con cura certosina, per un totale di 1,4 milioni di dollari. L’uomo, dicono le carte, risultava nullatenente.


“Nella manovra nessun condono” 

Padoan e Nannicini respingono gli attacchi alla voluntary disclosure: “Chi commette reati andrà in galera” Critiche dall’opposizione e dalla Cgil. E il presidente dell’Inps Boeri avverte: così si dà un segnale di lassismo

VALENTINA CONTE Rep
ROMA. «Nessun condono». Il ministro dell’Economia stende un cordone di sicurezza attorno alle due misure regine, quanto a coperture, della manovra appena varata. Da una parte, la rottamazione delle cartelle esattoriali (multe auto comprese, secondo l’ultima versione), per recuperare 4 miliardi. Dall’altra, la seconda edizione della voluntary disclosure, l’emersione dei capitali detenuti all’estero o in Italia, ma occultati al fisco e da cui si attendono altri 2 miliardi. Sei miliardi in tutto, centrali per il finanziamento della legge di bilancio. Ebbene, in nessuno dei due casi - ripete Pier Carlo Padoan a più riprese in tv si tratta di un condono. «Assolutamente no». Non solo. La voluntary rafforzata e semplificata, con un occhio speciale ai contanti, «non copre i reati, perché se quei soldi sono frutto di una attività illecita dal punto di vista penale, non si potrà aderire alla voluntary, ma si andrà in galera».
Un concetto non proprio acquisito, considerata la polemica scatenata dal solo annuncio dell’abolizione di Equitalia e di queste nuove misure fiscali. Anche il presidente Inps Tito Boeri sembra perplesso: «Temo effetti negativi sulla compliance dalla rottamazione delle cartelle». Ovvero che i contribuenti smettano di pagare, se un colpo di spugna è alle viste. Atteggiamento, per la verità, già riscontrato dai tecnici dell’Agenzia delle entrate negli ultimi giorni. «Dare un segnale di lassismo è pericoloso », insiste Boeri. «Dobbiamo evitare di premiare l’evasore ». Le misure sul fisco collegate alla manovra «destano molte perplessità», dice la leader della Cgil Susanna Camusso. E Stefano Fassina, di Sinistra italiana, bolla le misure come «un condono».
Osservazioni respinte con forza da Palazzo Chigi. L’idea che la nuova voluntary sia una sanatoria per evasori e trafficanti non solo «è del tutto infondata», dice il sottosegretario Tommaso Nannicini. «Ma anche la notizia che si allargherà al contante senza nessun controllo, favorendo chi ha accumulato fondi neri con attività opache o addirittura criminali, è priva di fondamento ».
Gli esperti del governo lamentano una cattiva comprensione della norma, annunciata dal premier Renzi sabato scorso. Di cui però non si ha ancora un testo. La prima voluntary disclosure ha fatto emergere 60 miliardi (e 4 miliardi di incasso, tra imposte e sanzioni). Ma di questi - è il ragionamento - appena un miliardo dall’Italia. Come mai? Per paura. Gli italiani non hanno aderito alla voluntary perché mal consigliati da commercialisti e avvocati sulla non convenienza dell’operazione. Ecco perché stavolta il governo cala l’asso della forfettizzazione: chi si autodenuncia, paga solo il 35% sulle somme depositate o il 15% su quelle ritirate. E il nuovo prelievo non vale solo per i contanti nascosti sotto il materasso o stipati nelle cassette di sicurezza. Ma si estende a tutto: conti correnti o di deposito, in Italia ma pure all’estero. Una voluntary disclosure bis a tutto tondo. Qual è dunque l’argine ad una sanatoria de facto? Secondo Palazzo Chigi, almeno in due punti. Primo, il commercialista che presenta l’istanza all’Agenzia delle entrate deve fare un controllo anti-riciclaggio. E se lui o il cliente mentono, rischiano sei anni di galera. Secondo, l’Agenzia può negare la forfettizzazione, aprire un contenzioso o anche segnalare il caso alla procura della Repubblica, se ritiene quel denaro “sporco”, frutto di evasione o reati. L’obiettivo del governo rimane quello di «prendere i cattivi, non aiutare i cattivi», ripetono gli esperti. E far emergere le persone perbene, i vecchietti con le eredità sotto la mattonella di casa, quelli che non hanno nulla da temere. Su 150 miliardi cash nascosti nelle cassette di sicurezza, come calcola il procuratore Greco, «ce ne saranno almeno 6 di miliardi che le persone vogliono regolarizzare pagando il 35% secco». Così da mettere in cascina i 2 miliardi di copertura. E tranquillizzare i vecchietti.

Assunzioni giù, balzo dei licenziamenti 

La fine degli incentivi fa tirare il freno alle imprese: tra gennaio e agosto contratti in calo dell’8,5% Dopo l’abolizione dell’articolo 18 sale il numero di rapporti lavorativi cessati per giusta causa: +28% 

Roberto Giovannini Busiarda 
Nel 2016 si è ridotto il numero dei contratti di lavoro stabili avviati dalle aziende. Peggio: tra gennaio e agosto il mercato del lavoro ha offerto meno contratti stabili rispetto a quanto avveniva nel 2014. Così, il depotenziamento del superbonus per le assunzioni ha indotto le imprese a tirare i freni. Ma quel che preoccupa è che nell’anno in corso le aziende hanno finora firmato quasi lo stesso numero di assunzioni del 2014 (4.020.218 allora, 4.036.709 oggi). Un 2014 in cui non c’erano incentivi, e soprattutto non c’era il Jobs Act. Una riforma che, come rivela l’Osservatorio Inps sulla precarietà, con l’abolizione dell’articolo 18 ha fatto impennare il numero dei licenziamenti disciplinari. 
Toccherà agli economisti chiarire gli eventi. Certo è che a guardare i numeri diffusi ieri dall’Inps, sembra che la riforma del lavoro Renzi-Poletti non abbia dato i risultati attesi. Non appena è venuta meno in modo significativo la convenienza ad assumere, il numero di assunzioni e trasformazioni è tornato ai livelli di due anni fa. E invece, come si temeva, le imprese cominciano gradualmente a usufruire della maggiore libertà garantita dal Jobs Act nell’eliminare il personale. Cominciando dai licenziamenti «per giusta causa», aumentati del 28,3% in un anno.
I dati Inps non fotografano l’occupazione, ma solo il numero effettivo dei contratti di lavoro nel settore privato. Le assunzioni nel periodo gennaio-agosto 2016 sono risultate dunque 3.782.000, con una riduzione di 351.000 unità rispetto al corrispondente periodo del 2015 (-8,5%). La frenata più netta è quella che riguarda i contratti a tempo indeterminato: 395.000 in meno, con un calo del 32,9% rispetto ai primi otto mesi del 2015, ma in discesa persino rispetto al 2014. Ovviamente, dice la nota Inps, ha pesato il boom del 2015, quando chi assumeva aveva per tre anni uno sconto di 8060 euro dei contributi previdenziali. Per la precisione, nel 2015 il 60,8% delle assunzioni e trasformazioni a tempo indeterminato godettero dell’agevolazione; oggi lo sconto è minore e biennale, e ne risultano agevolate solo il 32,8%. In calo drastico, dunque, anche le trasformazioni a tempo indeterminato di contratti a termine (-35,4% in un anno). Più o meno stabili i valori per contratti a tempo determinato, in apprendistato e stagionali. «Il jobs act è una buona legge perché a fronte del meno 32% di oggi - commenta il ministro Giuliano Poletti - bisogna considerare che l’anno scorso è stato registrato un +100%, quindi quel meno 32% parte da più 100% ed è quindi una discesa fisiologica». 
Intanto però aumentano i licenziamenti. Se anche senza articolo 18 restano prossimi ai valori del 2014 i licenziamenti «economici» dei lavoratori a tempo indeterminato, i licenziamenti «per giusta causa o giustificato motivo soggettivo» (sostanzialmente quelli per ragioni disciplinari o assimilabili, resi più facili dal Jobs Act) nei primi 8 mesi del 2016 sono passati da 36.048 a 46.255, con un balzo di 11.020 unità in più, che corrisponde a un aumento su base annua del 28,3%. Infine, i voucher: nel periodo gennaio-agosto 2016 ne sono stati venduti 96,6 milioni (+35,9% sul 2015). 
A oggi la differenza tra assunzioni e cessazioni (tutto compreso) negli ultimi dodici mesi è positiva (+514.000 unità). Anche per questo Matteo Renzi dagli Usa rivendica la bontà della sua riforma. Critici i sindacati: per Carmelo Barbagallo (Uil) il Jobs Act ha fatto «riciclaggio dei posti», mentre la Cgil Susanna Camusso afferma che «l’assenza di diritti, ammortizzatori e investimenti ha determinato un picco di licenziamenti».  BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

Il contraddittorio balletto sulle cifre dei disoccupati Il conteggio dei voucher falsa le statistiche e i dati sul lavoro Linda Laura Sabbadini Busiarda 20 102016
Assunzioni e dimissioni in calo, licenziamenti e voucher in crescita: sui dati Inps c’è un allarme generale ma la mia opinione è che in questo momento abbiamo tutti bisogno di più analisi e di meno allarmismo. Cerchiamo di fare chiarezza. I voucher sono effettivamente cresciuti molto. 
Sono passati da 15 milioni nel 2011 a 115 milioni nel 2015 e a 96,6 milioni nei primi 8 mesi del 2016. Il numero di persone che ha utilizzato i voucher è stato 1 milione 400 mila nel 2015, con un numero di voucher medio di 60 e un reddito medio da voucher inferiore a 500 euro netti nell’anno. Ebbene, se queste persone avessero lavorato solo il numero di ore registrate dai voucher, avremmo dovuto trovarne un riscontro nei dati Istat, attraverso una percentuale più alta del passato di occupati che lavorano poche ore. Invece non è successo. Nonostante diminuisca il numero complessivo di ore lavorate rispetto a inizio crisi, la percentuale di occupati che lavorano poche ore nella settimana è rimasta stabile. Sono infatti l’1,6% quelli che lavorano fino a 8 ore e il 3,7% da 9 a 16 ore. Come si concilia questo dato con il «boom dei voucher» di cui tanto si è parlato? I voucher, probabilmente, sono andati a coprire, per una parte importante, una porzione di lavoro sommerso di lavoratori che, nella rilevazione Istat, venivano intercettati con il loro effettivo numero di ore lavorate e sono regolarizzati solo per una minima parte di queste. 
Il dato dell’Istat quindi, potrebbe confermare l’ipotesi, riportata dalla interessante ricerca dell’Inps e di Veneto Lavoro sui voucher, secondo la quale assistiamo a una «regolarizzazione minuscola (parzialissima) in grado di occultare la parte più consistente di attività in nero». Una porzione di lavori di poche ore e a basso reddito ci sarà, specie tra i giovani, ma probabilmente sarà minoritaria. Inoltre, stando all’Inps, circa la metà degli utilizzatori si muove sul mercato del lavoro «tra diversi contratti a termine o cercando di integrare rapporti di lavoro a part time o indennità di disoccupazione» e anche questo spiega perché la percentuale di occupati che lavorano poche ore non cresce.
L’altra metà risulta formata soprattutto da giovani, donne in età centrale e pensionati. I voucher sono forniti da piccole imprese, restano escluse le famiglie, che non li utilizzano perché non possono permetterselo o perché non ne sono informate, più probabilmente perché tutto rimane nel sommerso, e non è conveniente alla famiglia stessa e/o al lavoratore l’emersione con il voucher. Quanto all’aumento dei licenziamenti, altro argomento «caldo», non possiamo affermare che sono dovuti alla soppressione dell’ articolo 18, prima di sapere quanti sono relativi a imprese sopra o sotto la soglia dei 15 dipendenti. Inoltre, dobbiamo tenere conto della nuova legge contro le dimissioni in bianco. Una parte dei licenziamenti potrebbe essere riferita all’emersione di ex dimissioni in bianco e in questo caso si tratterebbe di un dato con un aspetto «positivo», dal momento che ci sarebbero almeno tutele e diritti per i lavoratori licenziati. Bisogna verificare quanti tra i licenziati sono donne e immigrati, i segmenti più vulnerabili e ricattabili, l’informazione faciliterebbe una lettura chiara del dato. 
Infine: la diminuzione delle assunzioni era un risultato prevedibile e atteso. Se diminuisce per le imprese l’incentivo economico ad assumere, poi non possiamo certo meravigliarci che si assuma di meno. Le imprese hanno già assunto nell’anno precedente, e difficilmente avranno iniziato a licenziare questi assunti, poiché così facendo, perderebbero i benefici acquisiti. Un’ultima considerazione: i dati dell’Istat sull’occupazione segnalano nel secondo trimestre una crescita, soprattutto per l’occupazione dipendente a tempo indeterminato. A differenza del passato non si tratta solo di ultracinquantenni (in gran parte effetto delle mancate uscite per pensione) ma anche di giovani fino a 34 anni. Il ritmo di crescita dell’occupazione non è elevato, tuttavia il segno è positivo e non solo per l’aumento della permanenza nell’occupazione. Certo luglio ha segnato una diminuzione, con un lieve recupero in agosto. Abbiamo molta strada da fare per recuperare i dolorosi colpi di questa crisi lunga e intensa. Cerchiamo di concentrarci su una lettura seria dei dati non influenzata da interessi di schieramento. I numeri servono per capire la realtà e agire meglio e con più efficacia per cambiarla.  BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

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