venerdì 21 ottobre 2016

Torna "La divisione del lavoro sociale" di Durkheim

La divisione del lavoro sociale
Émile Durkheim: La divisione sociale del lavoro, Il Saggiatore, pp. 420, euro 35

Risvolto
Con La divisione del lavoro sociale il Saggiatore riporta in libreria la prima opera di Émile Durkheim, padre della sociologia. Al centro di questo grande classico c’è uno dei temi più dibattuti e fertili per gli studi sulla modernità: la relazione tra individui e collettività. La società moderna comporta una differenziazione estrema di funzioni e mestieri: come può mantenere la necessaria coerenza intellettuale e morale? E, in generale, come può un gruppo di individui costituire una società?

Le categorie che Durkheim ha forgiato per rispondere a questi interrogativi – dal concetto di coscienza collettiva alle distinzioni tra solidarietà meccanica e solidarietà organica, e tra società segmentarie e società in cui compare la distinzione del lavoro – concorrono a delineare un innovativo punto di vista olistico sui fatti sociali: la sociologia si fonda sulla priorità del tutto sulle parti, e il sistema sociale è irriducibile alla somma dei suoi elementi. È l’individuo a nascere dalla società, non la società dagli individui, poiché l’individuo è espressione della collettività.
Per Durkheim, dunque, la divisione del lavoro struttura tutta la società, e non può essere ridotta alla mera organizzazione tecnica o economica delle attività produttive, come sembrano credere gli economisti. La differenziazione sociale, fenomeno caratteristico delle società moderne, è la condizione creatrice della libertà individuale. Ma è ingenuo credere che il progresso economico sia fonte di felicità: anche nei momenti di crescita la divisione del lavoro sociale può manifestarsi in forme patologiche. Insorge allora l’anomia, quello stato di dissonanza tra le aspettative di ciascuno e la realtà vissuta che ben presto si diffuse nelle società industriali: un concetto che – coniato da Durkheim per descrivere le contraddizioni della modernità – resta tra i più utili per indagare anche i malesseri della società del XXI secolo.
Le forme di vita sbarcano planano sulla modernità 
Saggi. Nuova edizione per il Saggiatore de «La divisione sociale del lavoro», un classico da decenni assente nelle librerie 
Massimiliano Guareschi Manifesto 21.10.2016, 0:20 
Nel 1962 le olivettiane Edizioni di Comunità, all’interno del loro progetto di introdurre in Italia i testi chiave della tradizione sociologica, nei confronti dei quali fino ad allora si era manifestata nel nostro paese scarsa attenzione, pubblicarono la traduzione di La divisione del lavoro sociale di Émile Durkheim. Il testo, dopo qualche ristampa, è stato poi per decenni assente dalle nostre librerie. Per questo non si può che guardare con favore alla scelta del Saggiatore di ripubblicare l’attenta traduzione di Fulvia Airoldi Namer della prima grande opera di Durkheim (pp. 420, euro 35). Alla stessa maniera, risulta del tutto condivisibile l’idea di riproporre l’ottima introduzione stesa da Alessandro Pizzorno in occasione dell’edizione del 1962, anche se sarebbe stato opportuno segnalare l’anno in cui è stata scritta. 
I CLASSICI, tuttavia, hanno una loro vita in cui vengono continuamente reinventati dalle glosse che si depositano sul loro dettato. Li si legge e rilegge attraverso le lenti delle interpretazioni che si susseguono, delle mutevoli sensibilità culturali, delle problematiche che, di volta in volta, spingono l’attenzione nella loro direzione. Di conseguenza, riproporre fedelmente l’edizione del 1962 presenta senza dubbio dei limiti. Per chi oggi voglia fare i conti con quel testo, si sente la mancanza di un apparato critico che faccia il punto sulle molteplici prospettive in cui nell’ultimo mezzo secolo si è guardato a Durkheim, problematizzando la sua iscrizione al canone struttural-funzionalista, e sulle diverse interpretazioni della sua opera avanzate da autori quali, per citare qualche nome, Anthony Giddens, Peter Berger, Jeffrey Alexander, Pierre Bourdieu, Steven Lukes o Charles Taylor. 
La divisone del lavoro sociale esce nel 1893. Forte appare nel testo l’impronta di un certo biologismo, assunto esplicitamente non come modello esplicativo ma come metafora. Al di là del tributo allo spirito del tempo, tuttavia, nel libro è possibile ravvisare, talvolta allo stato embrionale, i temi che avrebbero trovato più ampi sviluppi nei lavori successivi – dallo statuto della sociologia al ruolo della religione o alla questione dell’anomia – ma anche la cifra dell’ossessione teorica e politica intorno a cui avrebbe ruotato la ricerca del sociologo francese, ossia l’articolazione fra individualità e appartenenza collettiva e lo statuto della società come «realtà» sui generis sfuggente ma non per questo meno concreta e fattuale. 
SI ENUCLEA così il tema della coscienza collettiva, vero e proprio marchio di fabbrica della sociologia durkheimiana, che «non ha per substrato un organo unico» ma «è per definizione diffusa in tutta l’estensione della società ma non per questo manca dei caratteri specifici che ne fanno una realtà distinta». E in tal senso, La divisione del lavoro sociale costituisce il punto di avvio di un percorso che condurrà Durkheim a Le forme elementari della vita religiosa, a quel «viaggio in una stanza» presso gli aborigeni australiani alla ricerca, nell’effervescenza dei riti, di quelle esperienze del sacro in cui gli attori sperimentano la trascendenza della società rispetto a loro stessi in termini ormai inaccessibili alla modernità. 
Ci si può amare per due motivi, perché si è uguali o perché si è diversi. Questa, ridotta a formula sentimentale, l’alternativa a cui La divisone del lavoro sociale ricorre per caratterizzare le due forme di solidarietà che rendono possibile la società. Nella prima forma, caratteristica dei gruppi primitivi, la solidarietà fra i membri si basa sulla loro somiglianza, sulla piena condivisione da parte di tutti di una medesima «coscienza sociale», su una strutturazione delle soggettività in cui la coscienza individuale è completamente assorbita da quella collettiva. Abbiamo quindi a che fare con una solidarietà detta «meccanica». 
DINAMICHE di tipo ecologico, l’incremento della quantità e della frequenza delle interazioni su un dato territorio, con le ricadute competitive che innesca, possono spingere verso le prime forme di specializzazione e divisione del lavoro, aprendo un processo che si dispiega pienamente nelle società moderne. A quel punto, iniziano ad affermarsi le forme della solidarietà organica, in cui a stringere le maglie della società è la reciproca dipendenza di funzioni diverse. È in tale contesto che la divisione del lavoro e la differenziazione delle forme di vita conducono alla progressiva contrazione della coscienza condivisa fino alla sua riduzione a fede nella libertà e autosufficienza dell’individuo. 
Ma in tali condizioni, il rischio è l’anomia. Con quella formula, che sarà sviluppata nel successivo Il suicidio, Durkheim allude non alla mancanza di norme in sé quanto a un deficit di regolazione sociale e di integrazione morale che consegna le dinamiche interattive alla instabile logica degli interessi e delle convenienze. 
Per Durkheim, l’individuo non costituisce l’elemento originario dalla cui aggregazione deriverebbe la società, quanto un suo prodotto, a un determinato livello di sviluppo della divisione del lavoro. Sulla sua base non è possibile costruire l’universalità che rimpiazzi le declinanti forme di solidarietà meccanica. L’interesse, diversamente da quanto pensano gli economisti, non è sufficiente per fare società in quanto troppo episodico e intermittente. 
Lo stesso vale per le morali settoriali, che sorgono all’interno dai gruppi parziali generati dalla sempre più intensa divisione del lavoro. Si potrebbe chiamare in causa il conflitto, ma a esso Durkheim non riesce mai a riconoscere una valenza positiva, costituente, relegandolo al rango di patologia alla quale può essere attribuita una funzione sintomatica, di segnalazione di esigenze a cui non si riesce a dare risposta. 
LA DIVISIONE del lavoro sociale appare così percorsa da un particolare senso di lutto, dalla consapevolezza di una perdita, l’integrazione garantita da un’ampia partecipazione dei singoli alla coscienza collettiva, e dell’impossibilità di sanarla attraverso un semplice ripiegamento antimoderno o affidandosi alle virtù del mercato o alla mistica dello stato o del progresso. Da qui l’opzione di Durkheim a favore di una velleitaria scommessa a favore del rilancio delle associazioni di mestiere, ampiamente tematizzato nell’introduzione alla riedizione di La divisone del lavoro sociale del 1902. Dove lo stato e l’individuo non possono provvedere, ci si appella a un nuovo corporativismo che appare motivato non da ragioni economiche di mediazione degli interessi o politiche di rappresentanza ma dall’esigenza di fornire quadri di integrazione sociale. 
PER HERBERT SPENCER, un costante riferimento polemico di La divisone del lavoro sociale, la società poteva essere vista come una sommatoria di contratti. La replica di Durkheim è che non tutto nel contratto è contratto. Tocchiamo qui l’aspetto del saggio sulla divisione del lavoro che ci sembra maggiormente parlare al presente, su cui non a caso ha richiamato di recente l’attenzione anche David Graeber nel testo Burocrazia (Il Saggiatore). La riduzione del tessuto sociale a trama di contratti liberamente stretti e definiti fra attori rappresentati come imprenditori di se stessi costituisce un luogo classico dell’apologetica neo-liberista, troppo spesso assunto anche dai suoi critici, seppure con valutazioni di segno opposto. In realtà, nello scenario attuale, nonostante le retoriche sullo stato minimo che abdica a favore dei mercati e della loro regolazione, si assiste a una superfetazione di norme e protocolli, di agenzie repressive e di istanze giurisdizionali e arbitrali. 
COME CI RICORDA Durkheim, «il contratto non è autosufficiente», «esso è possibile solamente in virtù di una regolamentazione del contratto di origine sociale» che predispone norme, formulari, procedure, obblighi, sanzioni, condizioni e incentivi. Che oggi tali dispositivi abbiano carattere sempre meno statale non significa che ci si affidi alla libera contrattazione degli interessi individuali. Al contrario, è proprio in quegli aspetti non contrattuali del contratto che si strutturano i segmenti essenziali delle macchine estrattive e dei meccanismi di gerarchizzazione e subordinazione che segnano sempre più il paesaggio del capitalismo contemporaneo. 
A più di un secolo dalla sua pubblicazione, quindi, si può guardare a La divisione del lavoro sociale non solo con la reverenza che si deve a un classico ma anche come a una riserva di spunti che possono risultare strategici magari anche per percorsi di ricerca di ispirazione tutt’altro che durkheimiani. 

Dal suicidio all’«azione» 
Émile Durkheim è stato un sociologo, antropologo e storico delle religioni francese. La sua opera è stata cruciale nella costruzione, nel corso del XX secolo, della sociologia e dell’antropologia, avendo intravisto con chiarezza lo stretto rapporto tra la religione e la struttura del gruppo sociale. Durkheim può essere considerato con Vilfredo Pareto, Max Weber, Georg Simmel e Herbert Spencer, uno dei padri fondatori della moderna sociologia. Oltre «La divisione sociale del lavoro» vanno ricordati: «Le regole del metodo sociologico», «Il suicidio», «Rappresentazioni individuali e rappresentazioni collettive», «L’educazione morale», «Le forme elementari della vita religiosa», «La scienza sociale e l’azione».

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