sabato 1 ottobre 2016

Università: i 500 geni del PD e il solito piagnisteo "in favore della ricerca" in un paese in cui la ricerca non serve a nulla

Chi ha autorità e visibilità, invece di chiagnere & fottere organizzi la rivolta [SGA].

Caccia a 500 geni lo Stato pagherà tutti i loro studi
Il progetto sarà inserito nella legge di bilanciodi ROBERTO PETRINI Repubblica

Il paese investa sui ricercatori
Roberto Battiston* Busiarda 1 10 2016
La ricerca italiana è una macchina dalle buone prestazioni. Eppure potrebbe andare - e dare al nostro Paese - molto di più. Se non viaggiasse col freno a mano tirato, ossia il limite del turnover alle assunzioni negli enti pubblici di ricerca, che fino a oggi - per comprensibili ragioni di finanza pubblica - non ha consentito le prestazioni di cui siamo capaci. I numeri parlano chiaro, manca un pezzo del sistema che negli altri paesi è fonte d’innovazione, di crescita competitiva, e quindi di punti di Pil. I dati dell’Ocse mostrano come l’Italia investa complessivamente una cifra significativamente sotto la media europea (1,3% del Pil contro circa il 2%), sventuratamente minore della media Ocse (2,3%) e masochisticamente più bassa dei competitors (Germania 2,90%, Francia 2,2%, Us 2,7 %). Secondo Eurostat siamo al 15° posto nell’Eu28, ma in percentuale la parte pubblica di questo investimento è la prima fra i grandi paesi europei, mentre è il basso contributo della componente di origine privata o internazionale che ci fa precipitare nelle statistiche. 
La parte pubblica della ricerca, in particolare quella svolta dagli enti pubblici di ricerca, a ben vedere è l’unica che può essere sottoposta a valutazione, critica e quindi a interventi efficaci del governo. Il testo della legge delega Madia approvata dal Consiglio dei ministri a fine agosto è ora all’attenzione delle commissioni parlamentari. Nel testo in effetti viene riconosciuto agli enti virtuosi, che spendono meno dell’80% in personale e funzionamento, l’autonomia di poter utilizzare parte del proprio bilancio per nuove assunzioni. È un passo avanti importante, considerando i blocchi delle assunzioni che hanno caratterizzato l’ultimo decennio nel settore pubblico. Ma questa misura da sola non basta: gli enti pubblici di ricerca, come tutti gli enti pubblici, hanno un limite sulle assunzioni basato sul turnover, vale a dire sui pensionamenti. Questo è un freno molto forte per lo sviluppo degli enti di ricerca, limitando a qualche «per cento» del personale esistente la capacità di assumere nuovi ricercatori. Non basta. In società complesse, dove la ricchezza e il futuro si misurano sulla capacità di innovare, il ricercatore non è un costo ma è un investimento in innovazione. Per questo è giusto che gli enti pubblici di ricerca virtuosi, possano, all’interno del loro bilancio annuale, assumere, se strategico, ricercatori in maggior numero dei pensionamenti. Il reclutamento di una nuova generazione di ricercatori e tecnologi sarebbe una scelta di politica dell’investimento molto importante, attraverso la quale passa un bel pezzo del nostro futuro. *Presidente dell’Asi (Agenzia spaziale italiana) BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

Ancora tagli ai dottorati e Renzi chiama cinquecento “Superprof”
Ricerca. VI indagine dell'Associazione dottorandi italiani (Adi): dal 2014 meno 18% delle borse di studio. Negli ultimi 10 anni posti quasi dimezzati, mentre i dottorati si concentrano in 10 atenei (solo due a Sud). Il governo ha un altro progetto: assumerà 500 docenti per chiamata diretta, darà 1,5 miliardi allo "Human Technopole" di Milano e non restituirà 1,1 miliardi tagliati da Berlusconi-Gelmini agli atenei. Addio università pubblicaRoberto Ciccarelli Manifesto 7.10.2016, 23:59
Dal 2014 a oggi il governo Renzi ha tagliato il 18% dei dottorati di ricerca, il primo passo per iniziare una carriera di ricercatore in Italia. Il taglio è stato provocato dalle linee guida per l’accreditamento che hanno imposto un vincolo del 75% delle borse di studio, si è aggiunto a quello ben più cospicuo provocato dal taglio lineare al fondo di finanziamento ordinario degli atenei voluto dal governo Berlusconi nel quadro della dismissione programmatica dell’istruzione e della ricerca in Italia: dal 2008 la scuola ha perso 8,4 miliardi e l’università 1,1. In quel caso i dottorati sono crollati del 16%.
NEGLI ULTIMI DIECI ANNI il nostro paese ha perso il 44,5% dei posti, passando dai 15.733 del 2006 agli 8.737 del 2016. La fotografia, impietosa e realistica, della ricerca scattata dall’Associazione dottorandi di ricerca italiani (Adi) nella VI indagine presentata ieri alla Camera è un’occasione per riflettere anche sulla strategia adottata dall’esecutivo per reagire alla sostanziale liquidazione del settore. Basta un dato: a fronte dei circa 1800 pensionamenti annui dei docenti in cattedra, meno di mille ricercatori dovrebbero andare in ruolo. Anche nella prossima legge di bilancio dovrebbe esserci spazio per i «ricercatori di tipo B», non ancora «strutturati» dunque ma con qualche speranza di essere assunti. Per esserlo dovrebbero esserci però i fondi che sono stati tagliati, e non più rifinanziati dal governo.
CHI OGGI ha una speranza di «entrare in ruolo» tra gli assegnisti di ricerca (un grado superiore di precariato rispetto al dottorato) sono 6 persone su 10. Bloccato a monte e a valle il sistema della ricerca ha subìto una «compressione selettiva» e ha rafforzato la sperequazione territoriale tra gli atenei. Solo dieci atenei, otto sono al Nord, chiamano il 42% dei dottorati residui in tutto il paese. A Sud, invece, continua la riduzione: dal 27,7% al 21,7%. Solo la Federico II di Napoli sembra ancora resistere. Ulteriore sperequazione è stata registrata sulla concentrazione territoriale dei ricercatori a tempo determinato – nel gergo universitario definiti «di tipo A»: il 50,3% lavora in cinque regioni: Lazio, Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto e Toscana. Nei fatti, è la liquidazione dell sogno costituzionale di un’istruzione pubblica, e di massa, universale e la cristallizzazione delle divisioni del paese.
L’INDAGINE DELL’ADI si sofferma anche sulla condizione paradossale del dottorando: per una solida tradizione idealistica, e classista, questa attività – come tutte quelle di ricerca precaria – non è mai stata considerata come un lavoro (al contrario di quanto accade in altri paesi). Questo significa che quando un ricercatore finisce la sua borsa non ha diritto alla disoccupazione, anche se ha versato i suoi contributi alla gestione separata dell’Inps. Nel 28,3% dei dottorandi con borsa esiste l’incompatibilità con altre attività retribuite. Spetta al coordinatore decidere caso per caso. Poi c’è lo scandalo, tutto italiano, dei dottorati senza borsa: chi vince il concorso è costretto a pagarsi gli studi. Nonostante le proteste che si sono intensificate negli ultimi tempi con uno “sciopero alla rovescia”, al legislatore non è mai passato per la testa che l’autonomia della ricerca passa dal suo riconoscimento come lavoro e da quello dei diritti sociali dei ricercatori. Per chi sostiene, anche gratuitamente, le attività didattiche e di laboratorio è un segnale chiaro: chi fa ricerca se lo deve permettere e la precarietà la paga la famiglia.
IL GOVERNO HA AGGIRATO IL PROBLEMA dando fondo alla retorica della meritocrazia di Stato: procederà alla chiamata diretta di 500 docenti e garantirà 1,5 miliardi di euro in dieci anni allo «Human Technopole» di Milano, un progetto definito «improvvisato» dalla senatrice a vita Elena Cattaneo. Il dado è tratto: liquidare l’università pubblica, la ricerca di base, premiare i poli di «eccellenza» in maniera arbitraria.

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