sabato 8 ottobre 2016

Verso la Soluzione Finale della questione palestinese


Il diritto di dominare
Territori Palestinesi Occupati. Il ministro israeliano Bennett invoca l'annessione della Cisgiordania e il riconoscimento della "legalità" dei coloni. Il docente universitario Nicola Perugini: «siamo di fronte a una inversione del rapporto tra colonizzatori e colonizzati, si cerca di piegare il concetto di diritti umani alle esigenze della dominazione».
di Michele Giorgio il manifesto 8.10.16
GERUSALEMME Per Naftali Bennett, ministro israeliano e nazionalista religioso, non contano le critiche dell’Amministrazione Obama e della ministra degli esteri dell’Ue Federica Mogherini all’annuncio fatto dal governo Netanyahu della prossima costruzione di un nuovo insediamento ebraico in Cisgiordania, destinato ad accogliere i coloni dell’avamposto di Amona (illegale anche per la legge israeliana e non solo per quella internazionale) che dovrà essere evacuato entro la fine dell’anno su ordine della Corte Suprema. Per Bennett, uno dei leader dei coloni, gli israeliani «devono fare ogni sforzo, devono dare la vita, per realizzare il sogno di fare della Giudea e Samaria (la Cisgiordania, ndr) una parte dello Stato di Israele». Parole che hanno riscaldato il cuore dei coloni di Amona impegnati in una campagna di denuncia degli “abusi” dello Stato e della comunità internazionale. Negli ultimi anni i coloni, complice il clima anti arabo e islamofobico che si diffonde in Occidente, si sono impegnati in iniziative volte a capovolgere la loro immagine, da occupanti ed oppressori a quella di “vittime”, raccogliendo non pochi consensi all’estero oltre che in patria.
«I coloni israeliani hanno creato proprie organizzazioni dei diritti umani e affermano che il cosiddetto ritiro di Israele dalla Striscia di Gaza nel 2005 ha rappresentato una violazione aperta dei diritti di coloro (i coloni) che vivevano in quella parte di territorio palestinese sotto occupazione militare», ci spiega il giovane docente universitario Nicola Perugini autore assieme all’israeliano Neve Gordon de “Il diritto umano di dominare”, saggio appena pubblicato in Italia (edizioni Nottetempo). «Intervistando i responsabili di queste organizzazioni – aggiunge Perugini – ci si rende conto come il linguaggio dei diritti umani venga articolato per legittimare forme di dominazione». Perugini porta l’esempio delle petizioni che da qualche tempo a questa parte presentano i coloni israeliani. «Sono simili a quelle dei palestinesi contro le politiche israeliane di occupazione, di demolizione di case e di violazione dei diritti umani. I coloni argomentano che le demolizioni (molto rare, ndr) dei loro avamposti in Cisgiordania non siano altro che violazioni di diritti umani». Quindi, prosegue Perugini «siamo di fronte ad una inversione del rapporto tra colonizzatori e colonizzati, una inversione totale del quadro storico in cui si è sviluppata la colonizzazione della Palestina».
Al linguaggio che ora usano i coloni per legittimare la loro presenza nei Territori palestinesi occupati, si aggiunge l’approccio che il ministero degli esteri israeliano e gli uffici legali delle forze armate utilizzano dalla prima guerra a Gaza (“Piombo fuso”, alla fine del 2008) per giustificare operazioni militari devastanti. «I rappresentanti dell’esercito israeliano» dice Perugini «hanno sviluppato una interpretazione delle leggi e delle convenzioni internazionali. Sostengono che l’uso letale della forza (contro Gaza) sia in linea con il diritto umanitario che, come sappiamo, ha lo scopo di tutelare le popolazioni civili». Un caso eclatante, ricorda il docente, è quello degli «scudi umani». Le forze armate israeliane diffondono l’idea che i palestinesi di Gaza accettino o siano costretti ad accettare il ruolo di «scudi umani» di Hamas, finendo così per diventare obiettivi da colpire anche nel quadro stabilito dal diritto umanitario.
Secondo Perugini da questa situazione e da situazioni analoghe in giro per il mondo, si potrà uscire solo «prendendo atto dello scivolamento del tema dei diritti umani nella complicità di fatto tra forze considerate progressiste e forze reazionarie in queste forme di sovrapposizione che favoriscono l’oppressione e il dominio coloniale». L’impegno del ministro Bennett è quello di legittimare sulla scena mondiale una realtà fatta di occupazione e di requisizione di terre palestinesi. Fino al punto di ottenere il riconoscimento del diritto di Israele di negare i diritti dei palestinesi e quello dei coloni di dominare la Cisgiordania.

Nella gabbia di Gaza ora i palestinesi sono 2 milioni
Ieri è nato Walid: la striscia è il luogo più affollato al mondo Per l’Unicef questo è il posto peggiore dove venire al mondo Il mestiere pagato meglio è il “desert rat”: scavare i tunnel nella sabbia contro Israele di Fabio Scuto Repubblica 13.10.16
GAZA UN SOLE impietoso picchia sulla tettoia del lungo percorso forzato — una gabbia lunga 1 chilometro e mezzo — che bisogna percorrere per entrare a Gaza dal valico di Erez. È deserto per chi entra, ma anche per chi fa il percorso inverso. Una tigre, alcune tartarughe, uno struzzo e due scimmie sono stati salvati da morte sicura e sono usciti da qui, diretti verso altri zoo in Cisgiordania o in Giordania nelle scorse settimane.
Con la nascita del piccolo Walid Gaza ha raggiunto i due milioni di abitanti
QUESTA è l’unica buona notizia che si può dare da Gaza, la prigione più affollata del mondo. Insieme a loro solo una manciata di umani in queste settimane ha ricevuto da Israele il permesso di uscita. Permessi umanitari, patrocinati dalla Cri, di malati terminali bisognosi di cure in ospedali più attrezzati dell’Al Shifa di Gaza City. «Hai visto che le scimmie possono uscire e i gazawi no?», ci scherzano su gli abitanti della Striscia. Ironia e creatività ancora non sono andati perduti. Negli ultimi sei mesi Israele ha rafforzato i divieti di uscita già ridotti al minimo, nella convinzione che Hamas “sfrutti quelli che possono uscire per i loro scopi”. Questa lingua di sabbia, che secondo l’Unicef è il posto peggiore dove venire al mondo per un ragazzino, ha giusto superato ieri con un neonato di Rafah, Walid, i due milioni di abitanti.
Negli ultimi anni Israele dopo 4 guerre (2006, 2009, 2012, 2014) ha reso soffocante l’assedio. I gazawi non ce la fanno a lavorare per sostenersi perché l’esportazione da Gaza non è consentita, aumentare la produzione è impossibile dopo le distruzioni belliche e nessuno può lasciare la Striscia. Gaza è impantanata nei suoi liquami perché non è permessa l’importazione di pompe e idrovore. I 100.000 senza tetto della guerra del 2014 vivono ancora in tende sulle macerie della loro casa. Hamas si impadronisce del cemento per i tunnel, accusano gli israeliani, ed è vero. Ma è anche vero che quei 100.000 senza tetto non hanno niente a che vedere con gli islamisti, le case dei miliziani sono già state riparate o ricostruite da tempo. L’acqua resta imbevibile perché Gaza deve accontentarsi della sua falda acquifera costiera, rovinata dal pompaggio selvaggio, dai liquami e dalle infiltrazioni di acqua salmastra. Malnutrizione, parassiti e altre malattie combinate con povertà, disoccupazione e inquinamento ambientale renderanno questo posto un luogo inabitabile entro i prossimi tre anni, prevede l’Onu. Il 2020 è solo dopodomani. Se fosse uno Stato, Gaza sarebbe tra gli ultimi del mondo insieme a Haiti e al Burkina Faso.
Adesso anche chi entra affronta una palese ostilità. Per entrare nella “Repubblica Islamica di Hamas” serve un visto che i barbuti che governano la Striscia difficilmente rilasciano, all’ingresso si viene sottoposti a un interrogatorio stringente come quando un occidentale tentava di passare a Berlino Est negli anni ’60 e ’70. Il funzionario prende appunti fitti su un’agenda rossa. I reporter stranieri sono assimilati al nemico, questo il mantra che viene ripetuto in ogni momento. Hamas non vuole che occhi stranieri vedano che non sta ricostruendo Gaza, ma solo le proprie capacità militari. «Un’altra guerra», dice infatti l’Idf, «è solo questione di tempo». Per questo Israele è in corsa contro il tempo per completare una barriera di cemento alta 9 metri sopra il suolo e che penetra per altri 6 nelle sabbie lungo tutto il perimetro della Striscia, nella convinzione che così i tunnel si possano bloccare.
Di questa guerra subiranno le conseguenze prima ancora dei miliziani di Hamas i due milioni di abitanti della Striscia, seicentomila dei quali ha meno di 16 anni. Una gioventù spalmata su tre generazioni che ha conosciuto solo guerre. L’esplosione demografica – oltre il 4% - e le distruzioni di molti edifici scolastici obbliga i ragazzi a tre turni al giorno. Un milione e 100.000 abitanti della Striscia sono attualmente assistiti dall’Unrwa, senza l’Onu non mangerebbero due pasti al giorno.
In questo dramma umano collettivo, Hamas che ha visto crollare i suoi introiti sul contrabbando dai tunnel con l’Egitto ha imposto nuove tasse per tutti, sul latte, sulle sigarette, la frutta, la farina e la verdura. Alla fine il movimento islamista è quasi l’unico imprenditore per cui lavorare se a Gaza non vuoi morire di fame. Attualmente il mestiere meglio pagato è quello di “desert rat”, il topo che scava le gallerie, i tunnel nella sabbia. Sono 2500-3000 shekel al mese (500 dollari Usa), uno stipendione per la Striscia, e la certezza che se si muore nel crollo la famiglia verrà indennizzata. I “desert rats” sono quasi 2.000 e ricevono premi e incentivi se riescono a rispettare i tempi. È un’attività che viaggia 24 ore su 24. Basta una rischiosa passeggiata – sul limitare del confine con Israele, dove si vedono nettamente le fattorie e i kibbutz dall’alto lato della rete spinata - per sentire con frequenza tremolii nel terreno, colpi sordi che si ripercuotono nella notte. «Ecco», mi dice il mio accompagnatore, «questi sono i tamburi di guerra di Hamas». Qui si stanno scavando i tunnel di “attacco” contro Israele, che nel 2014 furono la vera sorpresa di Hamas, altri mascherati fra le macerie vengono scavati a Gaza City. Una rete di tunnel attraversa la città in diversi sensi, sono depositi per pick-up, armerie, alloggi per i boss islamisti e perfino un ospedale da campo. Tutti sanno del “mondo di sotto” qui a Gaza ma nessuno ne parla, perché anche il proprietario di un campo agricolo o di una casa sa di essere il padrone soltanto “sopra” perché “sotto” comanda Hamas.
Il campo profughi di Shati si affaccia sulle acque inquinate del Mediterraneo. Fino a qualche settimana fa anche solo per transitare nella zona si veniva sottoposti a un minuzioso controllo da parte di miliziani armati fino ai denti. La sicurezza del “premier” Ismail Haniyeh vegliava su quel reticolo di strade dove abitava insieme alla sua famiglia. Adesso i gabbiotti sono vuoti e qualcuno si fa perfino un selfie sulla sua porta di casa. Scortato da dieci guardie del corpo Haniyeh – che entro la fine dell’anno sarà eletto alla guida di Hamas rimpiazzando Khaled Meshaal – ha passato il confine con l’Egitto ed è già in Qatar dove il movimento ha messo il suo Quartier Generale dopo la “fuga” dalla Siria. Uno stile diverso per il leader di Gaza, villa, grandi alberghi, viaggi nel Golfo, privilegi e Mercedes blindate. Un’altra vita.
Su chi riempirà il vuoto che lascia Haniyeh ci sono pochi dubbi, l’ala militare di Hamas che già agisce come un corpo separato dall’ala politica prenderà il sopravvento. “The Shadow”, Mohammed Deif, che i missili israeliani hanno provato per sei volte a uccidere è al timone delle brigate Ezzedin al Qassam, Yahia Sinwar serve come “ministro della Difesa” e da collegamento con l’ala politica. Sotto di loro, Marwan Issa – l’aiutante di campo di Deif – si occupa delle capacità militari del movimento, delle brigate e dei rifornimenti di armi, con un bilancio che si aggira sui 100 milioni di dollari l’anno. A titolo di confronto il budget dell’ultimo governo di Hamas – che si sciolse nell’aprile 2014 – è stato di 530 milioni di dollari.
Nonostante l’impegno del governo egiziano che ha allagato oltre cinquecento tunnel lungo la frontiera di 13 chilometri segnata dalla Philadelphia Road, i tunnel continuano ad essere in attività. Certo, nel ventre scavato di Rafah non passano più auto e camion come ai “tempi d’oro”, ma sotto il naso dei soldati egiziani i tunnel sono ancora decine. Lo scorso mese ne è stato scoperto uno lungo 2,5 chilometri. In questo business del contrabbando gli emiri dello Stato Islamico del Sinai svolgono un ruolo attivo, lavorando a stretto contatto con i comandanti militari di Hamas del sud. Il movimento nega relazioni con l’Isis ma alcuni islamisti egiziani responsabili del coordinamento con Hamas risiedono nell’enclave costiera “ospiti” dell’ala militare. Il contagio salafita si sta diffondendo, l’ultima delle piaghe di Gaza. 

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