venerdì 4 novembre 2016

Brexit forse è stato un errore ma il colpo di Stato europeista sarebbe ancora peggio. La democrazia è ormai un optional a convenienza



«Così ho distrutto Brexit, ecco i pericoli per i mercati»Intervista a Gina Miller Fund Manager Scm Directdi Mara Monti Il Sole 8.11.16
Londra «Mi chiede che cosa succederà nei prossimi mesi? Credo che si andrà verso le elezioni anticipate, quasi sicuramente la prossima primavera» . Non ha dubbi Gina Miller la fund manager che gestisce insieme al marito la società finanziaria Scm Direct, promotrice insieme al parrucchiere brasiliano Deir dos Santos del ricorso all'Alta Corte inglese, sfidando il governo di Theresa May, con l'intento di imporre un voto del Parlamento prima dell’avvio dei negoziati con l’Unione Europea.
Il premier inglese si è appellato alla Corte Suprema nella speranza di modificare il corso degli eventi «ma la Corte rigetterà il ricorso perché il problema non è legale, è politico. Ci aspettiamo una decisione prima di Natale», ha aggiunto la manager, 51 anni, avvocato, la quale ieri si è presentata di fronte a decine di fund manager della City per spiegare i rischi della Brexit per i mercati finanziari.
In questa intervista al Sole 24 Ore, Gina Miller che oggi viaggia sotto scorta dopo le minacce ricevute nei giorni scorsi, ripercorre i motivi dell’azione legale avviata dopo il referendum del 23 giugno scorso.
Perché avete avviato questa azione legale? In che cosa consiste la mancanza di trasparenza che avete denunciato?
Sia chiaro, l’Alta Corte non si è espressa contro Brexit, ha rimesso nelle mani del Parlamento una decisione vitale per gli interessi nazionali di questo paese che dal giorno del referendum viaggia all’oscuro di tutto. Guardi, da dieci anni insieme a mio marito mi occupo di trasparenza dei mercati finanziari e negli ultimi due anni abbiamo collaborato con la Commissione europea sul testo della Mifid II e su alcune direttive che riguardano i mercati finanziari. Io sono stata una sostenitrice del “Remain”. Prima del referendum mi sono resa conto che anche se quello fosse stato il risultato delle urne, qualcosa doveva cambiare perché i processi all'interno dell'Europa sono diventati poco efficienti. La Gran Bretagna era in una posizione di forza per avviare questi cambiamenti. Purtroppo il messaggio che è passato durante la campagna elettorale è andato in un’altra direzione: tutti erano convinti che il risultato sarebbe stato diverso, nessuno aveva contemplato l'ipotesi di “Brexit”. E invece la realtà è stata diversa.
Ora che cosa succederà? Quali prevede potranno essere i prossimi scenari e le reazioni dei mercati?
I mercati hanno reagito positivamente alla decisione dell'Alta Corte ed è prevedibile che succederà la stessa cosa quando si esprimerà la Corte Suprema sul ricorso del governo: il consenso sta crescendo, altre aree del paese stanno sostenendo la nostra causa a cominciare dalla Scozia. La realtà è che il governo non ha un piano preciso per uscire dall’Unione europea e a quel punto non avrà alternative che accettare il confronto e il voto del Parlamento. Abbiamo bisogno di vedere un piano, abbiamo bisogno di dati perché finora non abbiamo visto nulla, solo parole. Invocare l’articolo 50 senza avere un progetto è molto pericoloso. Che cosa succederà quando i singoli negoziati dovranno essere ratificati da tutti i 27 Stati dell’Unione? Nessuno lo sa.
Si stima per la City una riduzione del 20% del business se la Gran Bretagna uscirà dall'Unione europea. Che cosa succederà ai mercati finanziari se si andrà avanti con questa ipotesi?
La City rappresenta una grande risorsa per questo paese e per l’Unione Europea: il 20% dei lavoratori della City proviene dai 27 paesi dell'UE. C’è un patrimonio di conoscenza che non ha eguali. Il rischio è che si vada verso la frammentazione dei mercati, l’asset management ad esempio potrebbe spostarsi in Lussemburgo, con una perdita di efficienza difficilmente recuperabile. 

Nella Scozia che spera dopo lo stop alla Brexit “Restiamo in Europa o addio Regno Unito” 
Ora che l’Alta Corte ha chiesto il voto del parlamento, la premier Sturgeon si si dice pronta alla battaglia legale alla Corte Suprema. Ma a Edimburgo in tanti chiedono un nuovo referendum: “Ora l’indipendenza”

ENRICO FRANCESCHINI Rep 5 11 2016
DAL NOSTRO INVIATO EDIMBURGO.
Il futuro della Scozia si intravede sugli adesivi incollati alle auto, sui distintivi all’occhiello dei giovani, sui poster alle finestre delle case. “Yes2”, ripetono da un angolo all’altro della città. Significa, tradotto in qualche parola in più: sì a un secondo referendum per l’indipendenza dalla Gran Bretagna. Nel primo, due anni fa, prevalse il no 55 a 45 per cento. Ora Nicola Sturgeon, premier del governo autonomo scozzese e leader dello Scottish National Party, minaccia di indirne un altro entro il 2019. La data è importante: è lo stesso anno in cui la Gran Bretagna vorrebbe teoricamente concludere i negoziati per l’uscita dall’Unione Europea, sancita dal referendum del giugno scorso. Ma la Scozia, in quel referendum, ha votato con il 63 per cento per restare nella Ue. E adesso, in qualche modo, nella Ue vuole restare. Avvertendo che altrimenti, dopo Brexit, potrebbe arrivare “Scoxit”, Scotland exit: sottinteso dal Regno Unito.
Già Robert Louis Stevenson, l’autore de “L’isola del tesoro”, decantava Edimburgo come “la capitale di un regno”. In questi giorni è una capitale elettrizzata: basta un giro tra lo shopping di George street e i pub dietro St. Andrew square per avvertire l’eccitazione. «Non resteremo molto più a lungo sotto il tallone di un governo britannico di estrema destra », proclama uno studente che distribuisce volantini indipendentisti. In tanti dicono: vedremo l’indipendenza nel corso della nostra vita. La premier Sturgeon è tornata da Londra furiosa dopo il primo incontro post-referendum con il primo ministro Theresa May: «Un’esperienza profondamente frustrante». Non ha ricevuto garanzie che, nelle trattative con Bruxelles, il governo britannico terrà conto del voto degli scozzesi per restare in Europa. La minaccia di indire un nuovo referendum per l’indipendenza della Scozia, se la scelta pro-europea degli scozzesi non verrà rispettata, «non è un bluff», garantisce la 46enne leader nazionalista. Come minimo, pretende un accordo separato che permetta alla Scozia di restare dentro il mercato comune europeo (il “modello Norvegia”), anche se il resto della Gran Bretagna uscirà dalla Ue. Un’ipotesi diventata più verosimile dopo la sentenza dell’Alta Corte di Londra che assegna al parlamento britannico il diritto di votare su Brexit. Nel processo di appello che si terrà a dicembre davanti alla Corte Suprema, «potremmo esserci anche noi scozzesi», annuncia Sturgeon: per chiedere, come Gina Miller, la donna d’affari che ha intentato il ricorso, che il parlamento abbia una chance di fermare o almeno modificare la Brexit.
«Quello tra Londra e Edimburgo è ormai un dialogo tra sordi», commenta Iain Macwhirter, columnist dell’Herald, il miglior quotidiano scozzese: Theresa May, spiega, finge di non sentire le minacce della Scozia, perché non crede che gli scozzesi avranno il coraggio di organizzare un secondo referendum sull’indipendenza. Nei sondaggi, in effetti, dopo una temporanea crescita dei sì all’indomani del voto britannico per Brexit, sono tornati in testa i no. E nell’ultimo anno il prezzo del petrolio, principale risorsa economica della Scozia, è crollato: la terra di Braveheart rischierebbe di trovarsi fuori dalla Gran Bretagna, in coda per entrare nella Ue e più povera di prima. Ma è pericoloso pensare che Nicola Sturgeon stia bleffando, commenta l’Economist.
Un governo di Londra più di destra e più antieuropeo ha allargato il gap con una Scozia tradizionalmente progressista ed europeista. Il declino della sterlina rende meno aliena l’idea di aderire all’euro in caso di secessione. «E vi ricordo che quando lanciai il referendum nel 2014, i sì all’indipendenza erano al 27 per cento nei sondaggi, eppure sfiorammo la vittoria», ammonisce Alex Salmond, il predecessore di Sturgeon. Ora, partendo dal 45-46 per cento attuale di consensi alla secessione, gli indipendentisti sono fiduciosi di imporsi.
Su posizioni simili, per di più, sono anche le altre due regioni autonome britanniche: l’Irlanda del Nord, che come la Scozia ha votato per restare nella Ue e vede in Brexit l’occasione per il ricongiungimento con la repubblica d’Irlanda, e perfino il Galles, che come l’Inghilterra ha votato per Brexit ma chiede di restare dentro al mercato europeo per proteggere posti di lavoro e fondi Ue. Con la Brexit, dunque, rischia di saltare l’intero principio della devolution lanciata da Tony Blair vent’anni fa. «Se Theresa May non dà ascolto alle tre regioni autonome», ammonisce il think tank Institute for Government, «la Gran Bretagna rischia una piena crisi costituzionale»: ovvero la disunione britannica. Da “Great” Britain a “Little” England. Per questo dal castello di Edimburgo si intravede un futuro cosparso di “Yes2”: se avverrà la Brexit, anche Scoxit potrebbe diventare realtà.
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“Londra si è spostata a destra, meglio separarci” 

L’INTERVISTA. LO SCRITTORE SCOZZESE IRVINE WELSH: “ORAMAI GOVERNA L’ALA ESTREMA DEI TORIES”

DAL NOSTRO INVIATO Rep 5 11 2016
EDIMBURGO. «L’indipendenza stavolta vincerà ed è l’unica possibilità per permettere alla Scozia di restare in Europa ». È il parere di Irvine Welsh, lo scrittore scozzese autore del romanzo cult “Trainspotting”, di cui Guanda ha pubblicato in Italia quest’anno un seguito, “L’artista del coltello”. Indipendentista, progressista ed europeista, Welsh non ha dubbi: «Non vogliamo continuare a essere governati dall’estrema destra dei Tories che ci ha portati fuori dalla Ue». A lui non basta neppure l’ipotesi di una “soft Brexit”, tenendo un piede nel mercato europeo, ammesso che sia possibile.
È d’accordo con il progetto del governo scozzese di indire un nuovo referendum per l’indipendenza dalla Gran Bretagna, se Brexit porterà la Scozia fuori dall’Europa?
«Assolutamente sì. Il no all’indipendenza scozzese, nel referendum di due anni fa, presumeva che la Scozia, rimanendo nella Gran Bretagna, sarebbe rimasta nell’Unione Europea. Ebbene, adesso sappiamo che quel ragionamento era fasullo. La Scozia è rimasta in Gran Bretagna ma rischia di ritrovarsi lo stesso fuori dalla Ue. Le condizioni materiali dell’appartenenza della Scozia al Regno Unito sono cambiate. Dunque è legittimo indire un nuovo referendum per l’indipendenza».
E pensa che stavolta vincerebbero i sì?
«Penso che i sì avrebbero una possibilità di successo molto più grande. Rispetto a due anni or sono, l’Inghilterra si è spostata politicamente ancora più a destra. E gli scozzesi hanno votato a grande maggioranza per restare nella Ue nel referendum del giugno scorso: due fattori che hanno cambiato sostanzialmente la situazione. Essere indipendente e in Europa è ora una posizione esistenziale, di status quo, per la Scozia. Mentre ci fa molto meno gola rimanere dipendenti da uno stato nazionalista governato dalla corrente più di destra dei Tories».
Se la Scozia ottenesse un accordo separato con la Ue, che le permetta di rimanere almeno parte del mercato comune europeo, secondo lei sarebbe abbastanza per rinunciare a un referendum sull’indipendenza?
«Non sarebbe sufficiente per me. Potrebbe bastare a qualche politico scozzese. Ma non accadrà. Dubito che la Scozia potrà mantenere l’accesso al singolo mercato, se la Gran Bretagna nel suo complesso decide di uscirne, come al momento sembra probabile».
( e. f.)
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Il dilemma politico di Londra
di Sergio Romano Corriere 4.11.16
L’ uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea (un problema che il governo di Londra credeva di potere affrontare con i considerevoli poteri di cui gode tradizionalmente l’esecutivo del Regno Unito) è improvvisamente diventata una imbrogliata crisi politica e costituzionale. Con una sentenza emessa ieri, l’Alta Corte britannica non riconosce al governo di Sua Maestà il diritto di avviare il negoziato con la Commissione di Bruxelles senza avere prima consultato la Camera dei Comuni e forse anche quella dei Lord. I referendum britannici sono consultivi e la necessità di una verifica parlamentare sarebbe legalmente giustificata. Ma il Primo Ministro replica che la convocazione di un referendum e i suoi quesiti erano già stati approvati da un voto dei Comuni; non sarebbe necessario quindi interpellare nuovamente i membri del Parlamento. Ma l’Alta Corte sembra sostenere che non è possibile modificare i diritti acquisiti dai cittadini britannici nell’ambito della Ue senza un dibattito parlamentare. Vi sarà un ricorso del governo e leggeremo di qui a qualche tempo, verosimilmente, un’altra sentenza. Ma il dramma di cui saremo spettatori nelle prossime settimane non sarà soltanto la prosecuzione di una vicenda ormai nota: se la Gran Bretagna voglia restare nell’Ue o uscirne. Sarà anche un duello fra politica e giustizia.
Non sarà il primo nelle democrazie occidentali. Abbiamo assistito a parecchi interventi della Corte Suprema americana contro le iniziative del presidente degli Stati Uniti.
S appiamo che la elezione di George W. Bush alla Casa Bianca nel novembre del 2000 è stata decisa in Florida dall’ordinanza di un giudice della Corte Suprema che aveva una evidente simpatia per il partito repubblicano. Sappiamo che il Tribunale costituzionale di Karlsruhe può bloccare per qualche mese la ratifica di un trattato della Repubblica federale nell’ambito dell’Unione Europea. Sappiamo che la Corte costituzionale italiana può cancellare una legge elettorale. Ma il caso britannico è quello di un Paese che non ha una carta costituzionale ed è giustamente noto per avere sempre sottratto l’Esecutivo e il Legislativo a condizionamenti esterni. Forse l’errore del Primo Ministro David Cameron, quando credette di potere ammansire con un referendum la fazione euroscettica del suo partito, fu di avere somministrato una dose di democrazia diretta a un Paese in cui la democrazia è sempre stata rigorosamente indiretta.
Non sarà facile riparare il guasto provocato dall’imprudenza di Cameron. Se il governo di Theresa May non vincerà il ricorso, assisteremo a un dibattito parlamentare in cui verrà rimessa in discussione l’uscita della Gran Bretagna dalla Ue. Secondo calcoli fatti prima del referendum, i partigiani del Remain (quelli che non volevano uscire dall’Unione) erano più numerosi di quelli che volevano uscirne. È possibile che i dubbi dei mercati finanziari sul futuro della City e alcune stime negative sulle esportazioni della Gran Bretagna verso il mercato unico abbiano rafforzato il primo gruppo. Ma non è escluso che molti parlamentari, se dovessero scegliere fra il primato della politica e quello dei giudici, sceglierebbero la politica. La Commissione di Bruxelles, per il momento, potrà soltanto aspettare. Quando verrà il momento dei negoziati, tuttavia, sarà bene evitare concessioni che permettano alla Gran Bretagna di restare nel mercato unico senza rispettare gli altri obblighi dei Trattati europei. Ciò che sta accadendo in queste ore conferma che sarà sempre un difficile compagno di viaggio.

Westminster o referendum Una disputa sull’idea di democrazia 
di Leonardo Maisano Il Sole 4.11.16
Il penultimo giro di valzer della Brexit ci dispensa un imprevisto capace di allontanare nel tempo il distacco anglo-europeo, incenerendo mesi di chiacchiere, riducendo in coriandoli insieme con tanti immaginifici scenari del mondo che verrà anche la credibilità di Theresa May, la signora premier appena issata a Downing Street. E con la sua anche quella, assai meno significativa, dei tre moschettieri del divorzio da Bruxelles: il ministro degli esteri Boris Johnson; il responsabile del prossimo (si farà davvero?) negoziato anglo-europeo, David Davis; il dominus del nuovo ordine commerciale internazionale di cui (forse) Londra si doterà, Liam Fox.
In attesa di capire se la storia li assolverà per tanta millantata spavalderia avvolta nello slogan “Brexit significa Brexit”, da Londra torna a levarsi una rassicurante certezza: il Parlamento esiste. L’Alta Corte ha fatto accomodare un ospite che la logica ci suggeriva fosse indispensabile, ma che le voci più squillanti facevano credere fosse di troppo. La parola spetta, infatti, alla Camera dei Comuni, e per quanto di sua competenza a quella dei Lords, hanno detto i giudici, riposizionando il referendum entro i confini originari quelli, cioè, di un esercizio consultivo. La disputa che divide i costituzionalisti riguarda l’uso della cosiddetta “prerogativa reale” per dare al governo la forza di trasformare una consultazione popolare in un atto sufficiente per sancire lo strappo, storico, di Londra da Bruxelles e, ancor più impropriamente, per dettare le modalità e la tempistica della separazione. Non sarà così se la Corte Suprema, a cui Downing Street farà appello, confermerà in ultima istanza l’indirizzo espresso ieri dai giudici.
Inutile fare previsioni perché la triste storia delle relazioni fra Londra e Bruxelles è un cimitero di smentite. In attesa dell’ultimo giro di valzer che meneranno i giudici supremi, possiamo ragionare però sulle conseguenze di quanto sancito dal penultimo giro, ovvero dalla sentenza di ieri, ipotizzando che non sarà riformata.
Se la riaffermata centralità di Westminster è tornata ad essere una certezza nel processo decisionale britannico il cammino verso un chiarimento dei rapporto fra i due lati della Manica va nella direzione opposta. La Brexit si allontana abbiamo detto, rischiando di complicarsi nel conflitto fra esecutivo e parlamento. Downing Street insisterà per poter avviare l’articolo 50 del Trattato di Lisbona che sancisce il recesso entro il marzo prossimo, mentre il parlamento, popolato da deputati in netta maggioranza favorevoli all’adesione all’Ue, potrebbe resistere non invocando la procedura di separazione.
È poco credibile che Westminster sia davvero pronta a neutralizzare del tutto la volontà popolare, ma da ieri, in linea assolutamente teorica, non è impossibile. Resta da vedere quanto i deputati saranno pronti a sfidare i propri collegi o se, in quegli stessi collegi, si concretizzerà invece la “voglia di ripensamento” che i sondaggi dicono occhieggi qua e là. Se così dovesse essere, se davvero si incisterà un conflitto duro fra Governo e Parlamento, Londra scioglierà le Camere, nonostante i recenti vincoli introdotti sulla vita della legislatura, e andrà ad elezioni anticipate. I Tory non solo sono divisi sulla Brexit, ma si reggono su una maggioranza impalpabile ai Comuni e non possono sopportare eccessive tensioni. Una via, quella delle urne, che potrebbe davvero riaprire tutti i giochi, inducendo le forze politiche (i LibDem sono già pronti) a mettere nel proprio manifesto una nuova consultazione popolare.
Accadrà davvero? È possibile, abbiamo detto, ma l’evoluzione più probabile della scossa giudiziaria prodotta dall’Alta Corte suggerisce, per ora, uno sviluppo diverso. Il Parlamento chiederà poteri di veto e di controllo sul negoziato con Bruxelles, scongiurando, crediamo, quella hard Brexit che sembrava, paradossalmente, essere divenuta ipotesi privilegiata da Londra, neanche fosse stata, davvero, espressione della volontà popolare. Il referendum non sancisce affatto il “sì” alla cesura violenta delle relazioni anglo-europee e neppure detta l’approdo finale di questo straordinario pasticcio che David Cameron ha lasciato in eredità al suo Paese e al mondo intero. Un’interpretazione in tal senso è stata tuttavia accreditata dai brexiters e accettata – apparentemente – da Theresa May. Il verdetto di ieri non entra ovviamente nel merito delle opzioni politiche o negoziali, si limita – se così si può dire – a ridare a Cesare quel che è di Cesare, al Parlamento le sue competenze. Non è, sia chiaro, solo un nuovo twist della schizofrenica relazione anglo-europea, è molto di più. Un chiarimento procedurale che ridimensiona il peso del referendum, assegnando ai remainers tutte le armi per tentare l’ultima carica a tutela del rapporto con Bruxelles. Carica per la vittoria? Si accontenteranno, crediamo, di limitare i danni, anche se un giudice di Londra facendo saltare il banco ha annunciato al mondo che il Parlamento pesa più del referendum e la Brexit, per converso, non è destino certo.

Da Londra a Roma, il duello tra i partiti sul ruolo del Parlamento e del popolo
di Lina Palmerini Il Sole 4.11.16
Forse le due vicende non sono confrontabili, di certo Londra non è Roma, ma quello che è accaduto ieri su Brexit con la decisione dei giudici della Corte suprema di dare la parola finale al Parlamento racconta un pezzo di storia che stiamo vivendo anche noi. E che riguarda il ruolo delle Camere su cui si confrontano due culture e due posizioni molto diverse. In fondo è di questo che si discute quando ci si divide sull’Italicum: c’è chi vuole dare più spazio alla volontà popolare sulla scelta dei Governi e chi invece vuole restare nel perimetro attuale in cui le maggioranze si formano in Parlamento. Ed è sempre questo il tema quando i 5 Stelle invocano una partecipazione diretta dei cittadini alle istituzioni. In entrambi i casi si arriva alla domanda su cosa, allora, deve diventare il Parlamento. E se la strada delle consultazioni popolari, ormai sempre più frequenti per la pressione delle opinioni pubbliche e per la debolezza della politica, possa diventare nei prossimi anni un metodo di gestione della democrazia.
In Gran Bretagna l’Esecutivo May riteneva sufficiente il referendum popolare per avviare Brexit, per i giudici invece è necessario che siano le Camere a esprimersi nel merito ma anche sui tempi e sulle modalità. «La regola fondante del nostro ordinamento è la centralità del Parlamento», hanno scritto i giudici inglesi. E il dilemma che questa decisione ha aperto a Londra rimbalza su Roma dove già da tempo si discute sulla funzione del Parlamento e se questa debba ridursi a vantaggio della sovranità popolare. Con tutte le conseguenze che ne derivano come quella di ripensare un sistema che poggia sulla rappresentanza parlamentare.
In fin dei conti è questo l’anello debole che fa traballare l’attuale assetto: il “declino” della rappresentatività. Che c’è nelle sue varie declinazioni – in politica ma anche in tutti i corpi intermedi – e che è diventata la breccia attraverso cui si stanno mettendo in discussione le Camere. La lotta alla casta e ai suoi privilegi, i costi della politica, le inchieste sulla corruzione hanno dato il colpo finale a una crisi che nasce da lontano in cui l’elettore non “riconosce” più chi elegge. La certificazione di questa distanza è arrivata con le liste bloccate – c’erano nel Porcellum e restano in parte con l’Italicum – in cui sono i vertici di partito a decidere i nomi, sciogliendo di fatto quel legame su cui si fonda la rappresentanza.
A questa crisi come si sta rispondendo? Sostanzialmente con la lotta a chi taglia di più i costi della politica. I 5 Stelle propongono il taglio delle indennità parlamentari, il Pd di Renzi risponde con i risparmi derivanti dalla riforma costituzionale. Una specie di guerra sui prezzi, una gara al ribasso, per tentare di risalire la china della delegittimazione. L’altra via per risalirla è, appunto, quella di togliere peso all’istituzione parlamentare a vantaggio della sovranità popolare. Ma questa via apre scenari che poi la stessa politica fa fatica a gestire. Fu lampante con il primo referendum controverso della storia europea, quello su Grexit. Oggi c’è Brexit. In Italia si discute se dare o no più voce in capitolo agli elettori sulla scelta del Governo. Finora, però, con un paradosso: per chi ha cercato la “voce” del popolo, la strada invece di semplificarsi si è complicata.

Brexit, stop dell’Alta Corte “Serve l’ok del Parlamento” Rischio elezioni anticipate 

Il ricorso di un’imprenditrice e un parrucchiere “Il referendum solo consultivo”. La Borsa scende

ENRICO FRANCESCHINI Rep 4 11 2016
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE LONDRA.
I giudici fermano la Brexit. Con una sentenza sorprendente, per molti versi inattesa e fortemente simbolica della separazione tra i poteri dello Stato, l’Alta Corte di Londra accoglie il ricorso di due semplici cittadini e stabilisce che l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea non può avvenire senza un voto di approvazione del Parlamento nazionale. Significa che l’impegno annunciato dal primo ministro Theresa May di invocare entro fine marzo prossimo l’articolo 50 del Trattato di Lisbona, la norma che regola la secessione di uno Stato membro, non potrà avvenire in mancanza dell’approvazione della camera dei Comuni e della camera dei Lord. I magistrati hanno accettato la tesi di Gina Miller, donna d’affari originaria della Guyana, e Deir Dos Santos, parrucchiere di origine brasiliana, secondo cui il referendum del giugno scorso aveva valore “consultivo”, non forza di legge, e che perciò è necessario il voto del Parlamento prima di prendere una decisione storica così importante.
«Faremo rispettare la volontà espressa dal popolo nel referendum », è la prima reazione della premier May. Il governo farà appello contro il verdetto alla Corte Suprema, che lo esaminerà tra il 5 e l’8 dicembre. Se questo fallisse, la leader conservatrice avrebbe un’altra strada per portare avanti la sua intenzione di guidare il Paese fuori dall’Europa: indire elezioni anticipate, nella speranza di stravincerle, come prevedono al momento i sondaggi, assicurandosi una maggioranza talmente ampia in Parlamento da poter facilmente far passare un voto di approvazione di Brexit (al momento i Tories contano su una maggioranza di appena 12 seggi). «Anche noi vogliamo rispettare la volontà del popolo», commenta Jeremy Corbyn, leader laburista, «ma pretendiamo massima trasparenza da parte del governo sul tipo di Brexit che intende perseguire». Sebbene tiepido europeista, Corbyn appare contrario a una hard Brexit, all’uscita dal mercato comune oltre che dalla Ue. Nei corridoi del Parlamento, molti si preparano già a una campagna elettorale. Ma la premier ammette: «Se la Corte Suprema respingerà l’appello, accetteremo che il Parlamento voti su Brexit». Resta da vedere se voterà questo Parlamento o un altro, uscito da nuove elezioni.
Di certo c’è che il verdetto dell’Alta Corte scompiglia le carte e riapre tutti i giochi. Theresa May chiede un colloquio per stamane con il presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker: per dirgli che l’articolo 50, il via al negoziato di due anni per l’uscita dalla Ue, resta in calendario (ma non è chiaro se potrà scattare entro marzo 2017). Nigel Farage, leader degli antieuropei dell’Ukip, denuncia un “tradimento” del risultato del referendum e ammonisce: «Ci sarà una rivolta della gente». La Borsa scende, la sterlina risale, i bookmaker abbassano le quote su un secondo referendum. E intanto il Regno Unito dimostra che la sua democrazia funziona: i giudici sono indipendenti, non si fanno intimorire dalla politica.
“In questo modo il Regno Unito ha ancora un piede nella Ue” 

L’INTERVISTA/ GEOFFREY ROBINSON, EX MINISTRO E UNO DEI PADRI DEL LABOUR

DAL NOSTRO CORRISPONDENTE LONDRA. «Una decisione molto buona», esulta Geoffrey Robinson, deputato laburista da quattro decenni, uno dei padri del Labour, ex ministro delle Poste, ex editore del New Statesman, lo storico settimanale della sinistra britannica, ed europeista convinto. Avendo conosciuto l’Europa da vicino, negli anni Settanta, quando visse a Milano come presidente della Leyland Innocenti.
Onorevole Robinson, pensa che l’appello del governo alla più alta istanza giudiziaria rovescerà la sentenza dell’Alta Corte?
«No. Sono convinto che l’appello alla Corte Suprema verrà respinto e che la sovranità del Parlamento vincerà anche in quella sede».
Se il governo perderà il ricorso, è verosimile che Theresa May convochi elezioni anticipate?
«Non credo. Dubito che potrebbe o vorrebbe usare una seconda consecutiva decisione a lei avversa da parte di un organo giudiziario per mandare il Paese alle urne anticipatamente. Ma nemmeno lo escludo».
Perché?
«La leader conservatrice ha attualmente una maggioranza risicata ereditata dalla vittoria di Cameron alle politiche del 2015. In base ai sondaggi attuali, potrebbe averne una molto più ampia con cui affrontare il Parlamento più sicura di vincere la battaglia per imporre la Brexit o anche una hard Brexit. Naturalmente Theresa May ripete dal giorno in cui è premier che non farà elezioni anticipate. Ma questa è la politica: mai dire mai».
Prevede che questa sentenza fermerà Brexit o almeno un hard Brexit?
«La decisione dell’Alta Corte rafforza le posizioni del partito nazionalista scozzese, dei liberaldemocratici e di noi laburisti, le forze che vogliono una soft Brexit, cioè uscita dall’Unione Europea, a denti stretti, visto che così ha deciso il referendum, ma restando dentro al mercato unico europeo, il che significa garantire libertà di immigrazione ».
In tal caso cambierebbe poco nella sostanza?
«Sì. Ma non dimentichiamo che c’è comunque una maggioranza conservatrice in Parlamento. E che nei Tories è oggi predominante l’ala radicale, che esige un hard Brexit, uscire anche dal mercato unico, un taglio netto dall’Europa. So per certo che questa ala super euroscettica minaccia un ammutinamento se la premier concede troppo a chi vuole una soft Brexit. Lo scenario insomma è estremamente complicato. Ma migliore di prima di questo verdetto, per chi crede che la Gran Bretagna debba avere almeno un piede in Europa, se non può averne due».


Sterlina, prezzi, consumi le incognite che ora pesano sul divorzio dall’Europa 

Nel giorno della decisione dei giudici anche le previsioni meno cupe del governatore della Banca d’Inghilterra, Carney, sullo stato dell’economia

FERDINANDO GIUGLIANO Rep 4 11 2016
 ROMA. La richiesta dell’Alta Corte che ci sia un voto in Parlamento per dare il via al processo di uscita del Regno Unito dall’Ue è stato solo uno dei due giudizi su Brexit formulati ieri a Londra. A due chilometri dalle guglie neogotiche delle Royal Courts of Justice, il governatore della Banca d’Inghilterra Mark Carney ha presentato le sue previsioni trimestrali sullo stato dell’economia britannica.
Il banchiere centrale canadese era reduce da mesi di scontro con i Brexiteers che ne avevano chiesto le dimissioni per aver previsto effetti disastrosi sull’economia di un’eventuale uscita, venendo meno alla sua indipendenza.
Carney, che in settimana ha annunciato che resterà alla testa di Threadneedle Street fino al 2019, ha ammesso ieri che le sue previsioni di breve periodo erano state troppo negative, ma ha anche avvertito dei rischi di un aumento dell’inflazione dovuto alla massiccia svalutazione della sterlina.
A quattro mesi e mezzo dal voto del 23 giugno è dunque opportuno chiedersi quali siano le reali condizioni dell’economia britannica e quali siano le prospettive per i prossimi anni.
LA STERLINA
Dal referendum a oggi, la sterlina ha perso oltre il 16 per cento nei confronti del dollaro e quasi il 14 per cento sull’euro. Gli investitori si aspettano infatti che, nel lungo periodo, Brexit faccia crescere la Gran Bretagna meno del previsto, una considerazione che li porta a spostare il loro denaro in beni denominati in altre valute. Molti analisti sono poi convinti che la discesa del pound non sia ancora terminata: Silvia Ardagna della banca d’investimento Goldman Sachs ha scritto in una nota che nel caso in cui il Regno Unito dovesse dare l’impressione di andare verso una Hard Brexit, ovvero un’uscita anche dal mercato unico europeo, la sterlina potrebbe perdere fino al 25 per cento nei confronti del dollaro entro la fine dell’anno. Il giudizio di ieri dell’Alta Corte ha leggermente aiutato il pound, poiché gli investitori ritengono che un voto parlamentare possa ammansire la posizione oltranzista del governo, ma è ancora presto per sapere se questo rialzo sia destinato a durare nel tempo.
L’INFLAZIONE
Il crollo della sterlina sta già spingendo in su i prezzi, trainati dal costo più alto delle merci importate. La Apple ha rincarato il costo dei suoi prodotti fino al 20 per cento: per esempio, il Mac Pro costerà £2999 invece di £2499. L’inflazione è già risalita all’1 per cento e ieri la Banca d’Inghilterra ha previsto che i prezzi cresceranno del 2,7 per cento alla fine dell’anno prossimo, sopra il suo obbiettivo del 2 per cento.
La probabile accelerazione dei prezzi sta rendendo la vita più difficile allo stesso Carney che non potrà abbassare ulteriormente i tassi per stimolare l’economia. «C’è un limite a quanto possiamo tollerare un’inflazione al di sopra del nostro obbiettivo», ha detto ieri il governatore. L’altro problema riguarda i consumi, che dovrebbero crescere meno per l’erosione del potere d’acquisto delle famiglie.
LA CRESCITA
Fino ad ora la Gran Bretagna si è agilmente scrollata di dosso le previsioni più nefaste formulate dalla maggior parte degli economisti. Il prodotto interno lordo è cresciuto dello 0,5 per cento nel terzo trimestre e i primi indicatori danno segnali incoraggianti anche sull’avvio del quarto. La Banca d’Inghilterra si è dovuta ricredere, rivedendo le sue previsioni al rialzo per l’anno prossimo. I pericoli legati a Brexit, però, permangono, tanto che la stessa banca centrale ora ritiene che il danno di lungo periodo dell’uscita dall’Ue possa essere maggiore del previsto a causa del crescente rischio di perdita d’accesso al mercato unico, che potrebbe spingere le aziende a lasciare la Gran Bretagna o a ridurre gli investimenti.
LE AZIENDE
I due settori che sono sotto più stretta osservazione dal giorno del referendum sono quello automobilistico e quello bancario.
La settimana scorsa la Nissan ha annunciato che continuerà a investire nella sua fabbrica di Sunderland, facendo tirare un sospiro di sollievo al governo. Tuttavia, la premier Theresa May sembra aver promesso alla casa automobilistica giapponese dei sussidi in caso di Hard Brexit, portando diversi parlamentari laburisti a chiedere maggiori dettagli sull’accordo.
Le banche sono invece ancora alla finestra per capire se potranno mantenere il “passaporto” che permette loro di operare da Londra in tutta l’Ue. La British Banking Association ha avvertito che molte delle grosse banche potrebbero andar via a partire dal primo trimestre del 2017, ma non è chiaro se questa sia una minaccia credibile o l’inizio di una negoziazione.
Come la nebbia londinese, l’incertezza sul reale impatto di Brexit ci metterà dunque ancora un po’ a diradarsi. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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