domenica 6 novembre 2016

Ciccio, fa' tu


























Nei limiti definiti dalle condizioni oggettive e dalla natura della sua millenaria organizzazione di appartenenza, c'è solo un Capitano [SGA].

 Su banche e immigrati il Papa fa il comunista
Nella sua visione del mondo non sembra esserci alcun riconoscimento della proprietà: del diritto di ogni uomo a disporre delle proprie risorse Carlo Lottieri Giornale - Dom, 06/11/2016

“Salva le banche, non le persone” La rabbia del Papa sull’Occidente 
Francesco si scaglia contro l’imperialismo economico e il rifiuto dei migranti 

Andrea Tornielli Busiarda 6 11 2016
«C’è un terrorismo che deriva dal controllo globale del denaro e minaccia l’intera umanità». È un discorso dirompente quello che Francesco pronuncia di fronte ai movimenti popolari riuniti in Vaticano.
Un discorso in cui chiede con forza cambiamenti strutturali. Il Papa parla della sofferenza «di tante famiglie espulse dalla loro terra per violenze di ogni genere, folle esiliate» a causa di un sistema economico ingiusto e «di guerre che non hanno cercato» né hanno creato gli esuli, «ma piuttosto molti di coloro che si rifiutano di riceverli». Ricorda che quando fallisce una banca, «immediatamente appaiono somme scandalose per salvarla», ma per la «bancarotta dell’umanità» rappresentata dall’emergenza migratoria che trasforma il Mediterraneo in un cimitero «non c’è quasi una millesima parte» di quel denaro da impiegare per salvare «quei fratelli che soffrono tanto». 
Sono venuti in migliaia in Vaticano, rappresentanti dei movimenti di base che si battono per «terra, casa e lavoro per tutti». A loro Bergoglio chiede di continuare a impegnarsi, al di là degli slogan e senza cadere nella corruzione - che, spiega, non riguarda solo la politica ma anche le chiese e le organizzazioni sociali - per «mettere l’economia al servizio dei popoli», costruire pace e giustizia, difendere il creato. E contrastare «il colonialismo ideologico globalizzante» che «cerca di imporre ricette che non rispettano l’identità dei popoli». 
«Finché non si risolveranno i problemi dei poveri - aggiunge Francesco - rinunciando all’autonomia assoluta dei mercati e della speculazione finanziaria e aggredendo le cause strutturali della iniquità, non si risolveranno i problemi del mondo». Il Papa spiega che «tutta la dottrina sociale della Chiesa e il magistero dei miei predecessori si ribella contro l’idolo denaro che tiranneggia invece di servire». Già Pio XI, nel 1931, «prevedeva l’affermarsi di una dittatura economica globale che chiamò “imperialismo internazionale del denaro”».
«Come governa il denaro? - si chiede Francesco - Con la frusta della paura, della disuguaglianza, della violenza economica, sociale, culturale e militare che genera sempre più violenza». «C’è un terrorismo di base che deriva dal controllo globale del denaro sulla terra e minaccia l’intera umanità». Di questo «si alimentano i terrorismi derivati come il narco-terrorismo, il terrorismo di stato e quello che alcuni erroneamente chiamano terrorismo etnico o religioso. Nessun popolo, nessuna religione - ribadisce Bergoglio - è terrorista. È vero, ci sono piccoli gruppi fondamentalisti da ogni parte. Ma il terrorismo inizia quando hai cacciato via la meraviglia del creato, l’uomo e la donna, e hai messo lì il denaro».
E quando questo terrore, che «è stato seminato nelle periferie», esplode nei centri «con diverse forme di violenza, persino con attentati odiosi e vili, i cittadini che ancora conservano alcuni diritti sono tentati dalla falsa sicurezza dei muri fisici o sociali». 
Così la paura «viene alimentata, manipolata». La paura, «oltre ad essere un buon affare per i mercanti di armi e di morte, ci destabilizza, ci anestetizza di fronte alla sofferenza degli altri e ci rende crudeli». Così «si preferisce la guerra alla pace», si «diffonde la xenofobia» e «guadagnano terreno» proposte «intolleranti».
Questo terrore va affrontato «con l’amore», lasciandosi toccare dal dramma degli immigrati e dalla «vergogna» del Mediterraneo trasformato in cimitero. «Nessuno dovrebbe vedersi costretto a fuggire dalla propria patria», conclude il Pontefice. «Ma il male è doppio quando, davanti a quelle terribili circostanze, il migrante si vede gettato nelle grinfie dei trafficanti di persone per attraversare le frontiere, ed è triplo se arrivando nella terra in cui si pensava di trovare un futuro migliore, si viene disprezzati, sfruttati e addirittura schiavizzati». 
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“L’analisi di Bergoglio è antistorica Nega la matrice religiosa del terrore” 
Il sociologo De Masi: “Le disuguaglianze non spiegano tutto Il fenomeno jihadista ha diverse cause, non solo economiche” 

Giacomo Galeazzi Busiarda 6 11 2016
Bergoglio scambia l’Isis per le Brigate Rosse. La sua analisi poteva andare bene per la lotta di classe degli anni Settanta, ma oggi è un’assurdità negare la matrice religiosa del terrorismo e vederne solo quella economica e politica come facevano un tempo i teologi della liberazione». Il sociologo Domenico De Masi cita l’enciclica «Populorum progressio» di Paolo VI, ma precisa, «lì eravamo nel 1967 e c’era la rivolta sociale, non il fondamentalismo islamista che uccide in nome di Allah».
Cosa non la convince nel discorso di Papa Francesco?
«A livello scientifico nel terrorismo attuale sono state isolate diverse cause. Personalmente ho subito contrastato quegli studiosi che si rifiutavano di prendere atto dell’evidenza. La radice religiosa è talmente forte da rendere impossibile non vedere come stanno davvero le cose. Il Papa compie lo stesso errore di certi analisti, cioè nega che l’Isis combatta in nome di una visione di fede. La religione c’entra, anzi è uno dei motori principali della destabilizzazione».
E le disuguaglianze, invece, non creano le condizioni favorevoli alla diffusione del terrorismo?
«La parte più convincente del ragionamento del Papa in cui sostiene che lo sfruttamento e le speculazioni sono la causa degli squilibri politici e sociali dai quali derivano la guerra e il terrorismo. Però poi Francesco compie un passaggio logico che non trova conferme nella gran parte degli studi condotti a livello internazionale».
Qual è il punto debole, secondo lei, in questa ricostruzione?
«La valutazione di Bergoglio è palesemente sbagliata laddove si arrischia a sostenere che non si possa parlare di terrorismo religioso. La realtà dice il contrario. Appiattire la riflessione sul piano economico-politico e dei rapporti di potere è un tentativo infelice di ridurre la complessità del fenomeno».
Quindi il Papa fa un ragionamento troppo politico?
«Deterministico, direi. Bergoglio ha dimostrato altre volte di avere la vista più lunga dei governanti o dell’Onu, ma qui sovrappone piani diversi e indica meccanismi di causa ed effetto che non sono fondati». 
Povertà e terrorismo non sono correlate a suo parere?
«È indubbio che mia figlia abbia più possibile di realizzarsi nella vita rispetto ad un ragazzo che attraversa mezza Africa per arrivare dalla Mauritania in Italia e che magari si trova anche a doversi scontrare con un muro di discriminazioni e di ingiustizie sociali. Però lo studio dei focolai mondiali dimostra che non è automatico il passaggio dalla condizione sfavorevole al terrorismo».
Cosa manca nell’analisi?
«In una situazione soggettiva di grave svantaggio economico ci si abbandona in genere alla disperazione, alla rassegnazione alla depressione fino al suicidio. Per passare al terrorismo serve il coraggio di uccidere e farsi uccidere e questo non lo si acquisisce automaticamente con la povertà. È l’elemento individuale che manca nell’analisi economicistica della teologia della liberazione» . 
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Il Pepe e il Papa
Intervista. Il tupamaro Mujica, ricevuto dai movimenti popolari e dal Vaticano per parlare di uguaglianza, sobrietà e tempo liberato: "Siamo prigionieri di una ragnatela che ti presenta le cose al contrario, dipendenti dal possesso compulsivo di oggetti"

Ovazioni da stadio per l’ex presidente dell’Uruguay Pepe Mujica. Lo abbiamo constatato in due momenti romani: al III Incontro mondiale dei movimenti popolari, invitati dal papa in Vaticano, e al Palladium di Garbatella, in una conferenza agli studenti organizzata dal vicepresidente della regione Massimiliano Smeriglio (sul nostro sito l’intervista) anche per l’uscita del libro Una pecora nera nel potere, di Andres Danza ed Ernesto Tulbovitz, edito da Lumi.
Un Mujica messianico, «filosofo e politico», ha detto Ignacio Ramonet, riassumendo la biografia dell’ex tupamaro: il profilo coerente di un uomo che ha compiuto un lungo percorso – dalla guerriglia, al carcere, alla politica legale, alla presidenza – sempre restando fedele a se stesso. «E così – ha scherzato il giornalista – adesso abbiamo due papi: il Papa Bergoglio e il … Pepe Mujica».
E anche ieri, durante l’incontro di Bergoglio con i movimenti popolari nell’Aula Paolo VI, quando Mujica è comparso in video, le oltre 3.000 persone presenti hanno applaudito a scena aperta. E poi è arrivato anche il tributo del papa, che lo ha salutato e citato parlando della necessità della grande Politica, della democrazia partecipativa, e dei rischi che rappresenta usare la politica come professione e non come passione: «Chi vuole far soldi con la politica – ha detto – per favore si tenga alla larga… alla larga anche dal seminario…».
Quello della coerenza tra parole e fatti è stata la traccia principale del III Incontro mondiale dei movimenti popolari, e Mujica è intervenuto, appunto, su questo tema e sulla crisi della democrazia rappresentativa, «sequestrata» – dai grandi poteri che la svuotano di contenuti, finendo per usarla a scapito dei settori popolari. E nella Lectio magistralis tenuta agli studenti, con parole semplici e poetiche, in fin dei conti ha nuovamente spiegato i concetti base del marxismo e l’alienazione di un individuo atomizzato e sfruttato, preda delle sirene del consumismo.
Perché si sente vicino al papa Bergoglio, il marxismo deve cedere il passo proprio su Terra, Casa e Lavoro?
Il messaggio del papa è importante anche per un non credente come me, che comunque rispetta profondamente tutte le religioni, il bisogno di trascendenza che proviene, in diverse forme, dall’essere umano, e che oggi viene anestetizzato o pervertito. Parla della solidarietà in un mondo che vuole costruire muri e che dobbiamo ricominciare a praticare: abbiamo già avuto un Hitler e potremmo ritrovarci un Trump, e anche Clinton non è proprio una signora di sinistra. Sono figlio di migranti, mia madre era italiana, ma ora questa Europa si dimentica da dove viene, pensa che si devono costruire i muri, respingere chi arriva alle frontiere. La solidarietà non è un atto benefico, ma capire che se la fatica della donna africana in cerca di acqua, mi riguarda. Oggi, invece siamo prigionieri di una ragnatela che ti presenta le cose al contrario, ti rende dipendente dal possesso compulsivo di oggetti. Bisogna mettere dei limiti, vivere con sobrietà. Non dico con austerità, perché la parola può far pensare all’austerità imposta dal capitalismo, dai piani di aggiustamento strutturali. Dico, però, che tante cose non ci servono, ci serve piuttosto recuperare tempo. La politica è insita nel nostro essere sociali, del vivere in società. E si deve scegliere: per passione, però, non per denaro. Se proprio uno ci tiene ad accumulare denaro, meglio che si dedichi al commercio, agli affari. Chi fa politica deve vivere come vive la maggioranza del popolo. Il papa dice queste cose. Il suo è un messaggio politico. Aiuta a interrogarci sulla globalizzazione, sulla necessità di un cambiamento strutturale, accoglie le ragioni di un’umanità dissidente non inclusa che vuole contare nelle decisioni. Usa la mistica e le risorse della chiesa per diffondere un messaggio universale contro le disuguaglianze, la guerra. Il marxismo, certo. Non posso però dimenticare quel che mi disse una volta un compagno, tornando dai paesi dell’est: hanno lo sguardo spento…
Lei è appena tornato dal Venezuela, un paese che ha messo al centro della costituzione e dei programmi la democrazia partecipata e il potere popolare. Cosa pensa di quel che sta succedendo e del ruolo del Vaticano?
Il Venezuela ha ereditato problemi strutturali, che non dipendono da Maduro né prima dipendevano da Chavez e che non si possono risolvere con la bacchetta magica o in tempi rapidi: la dipendenza da un tipo particolare di «monocultura», il petrolio, l’abbandono di altre forme di produzioneche avrebbero consentito di raggiungere la sovranità alimentare e resistere al ricatto e agli attacchi esterni, che vediamo in tutta l’America latina. Il Venezuela è un grande produttore di rum, ma il primo importatore di wisky… Bisogna tornare alla terra, negoziare alcune risposte economiche con il capitalismo e spingere su altre più innovative. Poi c’è il problema della riforma monetaria. Al popolo venezuelano, un popolo straordinario che sempre è stato capace di trovare una sua strada, va comunque tutta la nostra solidarietà. Il papa ha fatto una buona cosa favorendo il dialogo fra le parti. L’opposizione, anche se avesse un programma, non potrebbe risolvere quei problemi strutturali. E comunque il dialogo serve. Non si può passare il tempo a scontrarsi nelle piazze, bisogna lavorare.
L’Uruguay – lei dice – è un piccolo paese, ma è nei posti piccoli che si può sperimentare. Cosa può servire al mondo di questo vostro esperimento?
Alcune esperienze sociali per evitare che la terra sia preda del mercato. Una cosa intelligente. Un antico Istituto che ha fatto diventare lo Stato il principale proprietario di terre del paese: non perché le coltivi, ma perché le affitta a un prezzo equo. La terra non si vende, ma si dà da lavorare, e non si possono fare transazioni se non pagando una tassa elevata. Quello della terra e di una riforma agraria integrale è un problema generale, soprattutto nel sud: Terra, Casa e Lavoro e democrazia partecipata…

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