domenica 27 novembre 2016

Confusione totale: l'illusione destrorsa di una rivoluzione "tradizionalista" fa a gara di fantasia con il dirittumanismo di sinistra


Corriere


Il club dei Paperoni al potere con Trump e Wall Street brinda

Aveva promesso di punire i lobbisti e invece recluta i loro padroni. Come Wilbur Ross, pronto per il CommercioFEDERICO RAMPINI Rep 26 11 2016

Ora ci mancherebbe solo il finanziere Mitt Romney al Dipartimento di Stato. Magari il banchiere Steve Mnuchin (ex Goldman Sachs) come segretario al Tesoro. O il petroliere Harold Hamm all’Energia? Allora nella squadra di Donald Trump avremmo completato il poker. Gli ultraricchi al governo, i membri del club dello 0,1%. Non c’è da stupirsi se Wall Street è in piena luna di miele col presidente- eletto: altro che rivolta anti- establishment, al potere c’è andata la finanza. E sarebbe pure naturale, visto che Trump non è un metalmeccanico. Salvo che proprio a lui sono andati tanti voti metalmeccanici. E in campagna elettorale aveva promesso, fra le altre cose, un giro di vite contro i lobbisti che infestano Washington. In un certo senso, quest’ultima promessa la sta mantenendo. A modo suo: invece dei lobbisti recluta i padroni dei lobbisti. Gente, in certi, casi, molto più ricca dello stesso Trump (sulla cui reale fortuna continua a regnare il mistero).
Politico. com valuta a 35 miliardi il patrimonio totale della nuova squadra di governo, se si confermano tutte le previsioni sul toto- nomine. Il New York Times definisce come “il re delle bancarotte” Wilbur Ross, che Trump vuole come segretario al Commercio. A differenza del bancarottiere seriale Trump (fallito sei volte), il 78enne Ross quel nomignolo se lo è acquisito per tutt’altre ragioni: la sua società di private equity WL Ross & Company è specializzata nel rilevare aziende in bancarotta, ristrutturarle e rivenderle con lauti profitti. Il ministero del Commercio include la competenza sui trattati di libero scambio e Ross è noto per la sua affinità con il protezionismo di Trump. Come vice di Ross al Commercio Trump vorrebbe un altro Paperone, il finanziere Todd Ricketts che possiede la squadra dei Chicago Cubs e il cui padre fondò la società di trading Td Ameritrade. Al dicastero dell’Istruzione è andata una donna ricchissima, Betsy DeVos, che ha finanziato per anni una delle campagne favorite dei repubblicani: le “charter school”, scuole private sostenute anche da sussidi pubblici, per dare alle famiglie un’alternativa all’istruzione di Stato.
La destra può obiettare che di straricchi furono piene le Amministrazioni democratiche. Bill Clinton a suo tempo non esitò a chiamare al Tesoro un ex capo della Goldman Sachs, Robert Rubin, e non a caso il suo governo varò la più importante deregulation finanziaria. Lo stesso Rubin divenne per un breve periodo il capo dei consiglieri economici di Barack Obama, durante la campagna elettorale del 2008, anche se poi non entrò più al governo. In compenso Obama mise al Commercio un miliardario erede della dinastia Pritzker, i fondatori degli hotel Hyatt. Dunque, nulla di nuovo sotto il sole. Se non che siamo nell’era del populismo, la vittoria di Trump è stata possibile solo perché qualche fascia di classe operaia bianca lo ha votato nel Michigan, Wisconsin e Pennsylvania, facendo ribaltare di strettissima misura la bilancia del collegio elettorale in quegli Stati chiave. Gli operai si sentivano traditi dall’establishment e ora se lo ritrovano ben rappresentato nelle prime caselle dell’organigramma. Ma in fondo l’elettorato popolare che ha scelto Trump ha deciso di abbracciare anche la sua ricchezza, e la promessa che «un imprenditore saprà gestire la nazione molto meglio dei politici e dei burocrati». Fin dall’inizio Trump ha avuto come consigliere- chiave al suo fianco il genero Jared Kushner, pure lui ereditiere, immobiliarista e finanziere, probabilmente più ricco del suocero.
©RIPRODUZIONE RISERVATA

LA BREXIT E LA DURA REALTÀ TIMOTHY GARTON ASH Rep 26 112016
ORMAI non mi sposto mai senza il mio brexitometro. Misura due valori: il tempo intercorrente tra l’avvio di una qualsiasi conversazione e il primo accenno alla Brexit (in media tre minuti) e la percentuale dei miei interlocutori che la reputa una buona idea. Negli ultimi due mesi sono stato in America, Canada, Germania, Austria e Polonia e il secondo dato attualmente si aggira attorno all’un per cento.
Il restante 99 per cento pensa che noi britannici siamo usciti di testa. Com’è possibile che un popolo noto in tutto il mondo per il suo pragmatismo, empirismo e buon senso agisca in maniera così palesemente contraria ai suoi interessi? Lo stato d’animo di chi si pone la domanda non è di rabbia o disperazione, lo definirei una malinconica incredulità. Ovviamente i paladini della Brexit replicheranno con sarcasmo che il campione rappresentativo è costituito dagli irrimediabili eurofili della mia cerchia, ma in realtà ho scelto il più ampio ventaglio possibile di soggetti. Ritoccate pure la percentuale, saliamo al 10, addirittura al 20%, ma bisogna vivere su un altro pianeta per immaginare che il mondo pensi che la Gran Bretagna abbia fatto una scelta intelligente. Che poi possa trattarsi del pianeta Trump è di scarsa consolazione.
Qualunque analisi su “come affrontare la Brexit” ha quindi un avvio deprimente. Con uno stretto margine di voti (52% contro 48%) la Gran Bretagna ha deciso di danneggiare a lungo termine se stessa, l’Europa e, in termini più ampi, l’ordine liberale internazionale. Per il prossimo futuro possiamo solo sperare di ridurre al massimo il probabile danno e puntare sui pochi lati positivi di questa tragedia. In sintesi la politica britannica dei prossimi cinque, dieci anni, sarà impostata alla ricerca del male minore. Come disporsi a questo compito ingrato? Le incertezze sono tali e tante che è folle affidarsi a strategie troppo precise. Credo che i liberaldemocratici sbaglino a proporre ora un altro referendum da tenersi tra due anni sul risultato dei negoziati e ancor di più sbaglia il leader del partito, Tim Farron, a farne un’arma contro il Labour, come sull’ultimo numero del New European.
Serve invece un misto di fermezza strategica e flessibilità tattica. In questa fase è essenziale far sì che si vada al voto in Parlamento prima di invocare l’articolo 50 e dare avvio ai negoziati per la Brexit. È sempre più chiaro che le tappe del negoziato saranno probabilmente tre: le modalità di recesso, secondo le previsioni dall’articolo 50; un accordo transitorio, perché in due anni non si è mai esaurito un negoziato complesso come quello di impostare un rapporto completamente nuovo con l’Ue; quindi l’accordo definitivo. Nel conferire il mandato di negoziazione il Parlamento dovrebbe chiedere che la scelta del pieno accesso al mercato unico o, in alternativa, la partecipazione a un’unione doganale, siano esplorate a fondo assieme ai nostri partner europei.
Un sondaggio recente targato NatCen Social Research, pubblicato dall’Economist, mostra che la maggioranza degli intervistati, sia favorevoli che contrari alla Brexit, vogliono «consentire all’Ue di vendere liberamente beni e servizi in Gran Bretagna e viceversa» ma anche «che i cittadini Ue intenzionati a stabilirsi in Gran Bretagna siano trattati al pari degli extracomunitari». Quindi, consapevolmente o meno, vogliono la botte piena e la moglie ubriaca, secondo la dottrina di Boris Johnson. Di fronte alla scandalosa ipotesi che questo non sia possibile e in particolare all’idea di concedere la libera circolazione delle persone in cambio del libero mercato, si apre un netto divario tra i pro- leave, in questo caso fronte del no, e i pro- remain, qui fronte del si.
L’importanza della questione è tale che bisognerebbe sapere concretamente cosa è in ballo e l’unico modo per scoprirlo è andare al tavolo negoziale. Non bisogna però pretendere che il governo si impegni pubblicamente a portare avanti un piano negoziale preciso. La lettera di notifica a Bruxelles per avviare il negoziato di recesso previsto dall’articolo 50 dovrebbe essere il più possibile breve e aperta, facilitando gli altri 27 stati membri a concordare una risposta altrettanto breve e aperta, per dare avvio ai colloqui.
Il dibattito attualmente in corso in Gran Bretagna sulla scelta tra “soft Brexit” e “hard Brexit” ha dell’irreale. In fin dei conti l’impatto duro o morbido del recesso dipenderà più dagli altri che da noi. Diciamocelo chiaramente: la Gran Bretagna ha una posizione molto debole in un negoziato da concludersi in due anni (anche se l’orologio si può fermare per un po’) il cui esito richiede la piena approvazione da parte di altri 27 stati (anche se in teoria da ultimo basta il voto a maggioranza qualificata). E le scorte di buona volontà del continente nei confronti di un partner scomodo da decenni ormai sono andate esaurite. Lasciate perdere le sbruffonate dei pro Brexit secondo cui “loro hanno bisogno di noi più che noi di loro”. Questi loro, ossia i cittadini continentali, la vedono in maniera un po’ diversa.
Nell’arco dei prossimi dodici mesi si profilano le presidenziali in Austria, un referendum in Italia, le elezioni parlamentari in Olanda, le presidenziali in Francia e le elezioni generali in Germania. Tutti gli appuntamenti elettorali, in particolare quelli in Francia e in Germania, influenzeranno la posizione dei nostri partner europei quando si arriverà al momento critico del negoziato, nel 2018. Per di più non sappiamo quanto saranno palpabili a quel punto le conseguenze economiche negative per la Gran Bretagna dell’incertezza riguardo alla Brexit. Le previsioni dell’”Office for Budget Responsibility”, organismo indipendente, e della Banca d’Inghilterra, sono dichiaratamente ancor più incerte rispetto a prima del referendum sulla Brexit, e in ogni caso, si tratta solo di numeri. Il problema vero è stabilire in che misura gli elettori britannici patiranno già le conseguenze economiche negative della Brexit e quanto timore avranno che si aggravino, quando verrà il momento cruciale di decidere a quale accordo puntare.
In un periodo come questo, pieno di note incognite, è saggio concordare un rigoroso iter parlamentare, informando l’opinione pubblica sui dati reali e sulle ardue scelte, attuare un’attenta preparazione diplomatica, mantenere le alternative aperte e attendere vigili l’opportunità giusta. Potrà sembrare noioso, ma chi ha mai detto che la Brexit sarebbe stata uno spasso?
L’autore è uno storico britannico e professore all’Università di Oxford Traduzione di Emilia Benghi
©RIPRODUZIONE RISERVATA

Nessun commento: