domenica 27 novembre 2016

Della differenza tra gli sciacalli e un uomo







Rossana Rossanda «Di comunismo sapeva poco. E snobbò il 68» Intervista di Maurizio Caprara - Il Corriere della Sera 20 febbraio 2008
Annunziata Fuffington Pubblicato: 26/11/2016 18
Archivio 90 anni di solitudine dell'ultimo comunista / La storia "Io, unico italiano, su quella barca di ribelli"di OMERO CIAI e NORBERTO FUENTES, FEDERICO RAMPINI, SIMONA CASALINI, JENNER MELETTI, GINO CASTALDO. Multimedia a cura del Visualdesk
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Il “sacerdote” dell’utopia dalla Revolución al regime 
Un leader che ha segnato il Novecento tra idealismo e contraddizioni 
Candito Busiarda
Finisce un tempo, con la morte, ieri, di Fidel Castro. Finisce il tempo simbolico dell’utopia rivoluzionaria che aveva dato corpo e vita all’immaginario delle lotte terzomondiste, quando l’eredità del colonialismo ottocentesco si fuse e s’integrò con i sogni ribelli d’un riscatto dove Fanon e Marx e la teologia della liberazione costruirono una forza dirompente d’intervento sul corso ordinato della Storia. Quella forza divaricò la genesi d’un nuovo mondo, ma aprì percorsi e territori che la lotta politica soltanto in parte seppe seguire con l’innocenza dei popoli che le avevano delegato la guida delle loro grandi speranze. E i progetti d’una ricomposizione egualitaria con il Sud del mondo, riequilibratrice degli scompensi economici e sociali, saranno poi sostituiti - sempre più negli anni - da delusioni amare. 
Di questi equivoci, di queste delusioni irrecuperabili, delle ambiguità che a lungo hanno accompagnato nel tempo l’ideale d’una rivoluzione senza gendarmi, dove Trockji e Zamjatin, Orwell e Huxley, il realismo e l’utopia, sapessero integrarsi eliminando i rischi del regime autoritario e lo stalinismo del potere, di tutta questa mistica orgogliosamente ribelle Fidel Castro è stato il sacerdote più rigoroso, Líder Máximo d’una rivoluzione permanente che prometteva la sensualità della libertà e il comunismo della uguaglianza. Furono promesse tradite presto: la Revolución ha continuato a marciare irreggimentata per le grandi avenida dell’Avana, con i suoi slogan ufficiali, i poster del Che, le bandiere della resistenza all’imperialismo yankee, però intanto la rivoluzione-progetto si era trasformata, irrimediabilmente, in rivoluzione-regime.
L’affiliazione alla rete «Caribe» del Kgb toglie poco o nulla, comunque, alla forza travolgente, autenticamente popolare, della Revolución, che il 1° gennaio del ’59 abbatte il regime di Batista e restituisce alla gente di Cuba l’orgoglio patriottico ch’era stato dell’intera isola al tempo di José Martí, di de Céspedes, della lotta per l’indipendenza da una Spagna all’ultima tornata della propria storia imperiale. La rivoluzione dei «barbudos» s’impossessò - in quella prima fase - dell’eredità del nazionalismo martiano, e legittimò in questa modo la propria ambizione a rappresentare, non una classe, ma la coscienza e le ragioni del popolo di Cuba.
Non v’è rivoluzione che non pianga lacrime e sangue, nel suo parto libertario o comunque, poi, nel suo istituzionalizzarsi. La pacificazione rivoluzionaria costò un numero alto di vittime «controrivoluzionarie» - un conto diffuso dice 18.000 morti - e poi centinaia di migliaia di esuli, in fuga perché compromessi con i traffici loschi del regime di Batista, il gioco d’azzardo, la prostituzione, la mafia, o perché impauriti da un potere che si presentava ribelle, scostumato, la barba lunga, «comunista».
Il direttorio della Revolución si trasforma presto in un potere assoluto, personale, che non ammetteva concorrenze pericolose - l’idolatrato, l’angelico, Camilo Cienfuegos viene mitragliato in un confuso incidente aereo, Huber Matos, Gustavo Arcos, Chánez de Armas, finiscono nella galera dei traditori della rivoluzione dopo processi che Koestler avrebbe potuto benissimo riconoscere. La Revolución diventa Fidel Castro in una deriva inarrestabile che l’attacco (di fuoriusciti, della Cia, della mafia) sulla Baia dei Porci e l’embargo commerciale americano giustificano agli occhi d’un mondo che non accetta l’ossessione anticomunista che domina i corridoi della Casa Bianca.
Quando la crisi dei missili, nell’ottobre del ’62, a solo un passo dal baratro atomico costruisce un nuovo equilibrio planetario tra le due Superpotenze, Castro vive però la conclusione di quel drammatico braccio di ferro come un atto di tradimento del tutore moscovita. L’accordo tra Mosca e Washington, passando infatti sopra la testa di Castro, ha toccato il nervo sensibile delle ambizioni di Fidel, umiliandone la statura politica e le ambizioni internazionaliste.
Se il suo interlocutore è unicamente la Storia, Fidel non può subire l’umiliazione impartitagli da un semplice statista, sia pure il segretario del potente partito comunista dell’Urss. E troverà finalmente l’occasione d’un risarcimento 30 anni più tardi, quando Gorbaciov sbarca in visita ufficiale all’isola del comunismo caraibico: in un mattino affollato di compañeros estasiati, mi trovo testimone d’una lezione che il vecchio guerrigliero della Sierra impartisce con soddisfazione palese, plateale, all’uomo che sta tentando pericolosamente di far passare il vento della perestrojka sulle arrugginite leve del potere sovietico. Con ampi gesti della mano, e con puntualizzazioni pedanti, Castro spiega all’erede di Lenin e di Stalin, e però anche di Kruscev, quali debbano essere le scelte e la politica d’un rivoluzionario vero, d’un vero comunista.
Fidel dimentica però che l’isola della rivoluzione ha potuto continuare a galleggiare nelle acque azzurre del Caribe solo grazie ai 40 miliardi di dollari che in tutti quegli anni Mosca ha pagato per l’«affitto» di quest’avamposto comunista a 90 miglia dalle palme azzurre di Key West. E la rottura viene comunque sancita quando il crollo dell’impero sovietico blocca l’89,5 per cento delle esportazioni cubane (la dipendenza dell’isola dal Comecon è praticamente totale) e impone al bilancio dell’Avana una caduta del 34 per cento. Preso nel bisogno disperato di capitali e di moneta internazionale, il regime si apre all’iniziativa privata e alla libera circolazione del dollaro, creando di fatto due società parallele e disuguali - quella del peso, quasi il 70 per cento della popolazione, e quella, ricca e speculatrice, del dollaro - che i suoi proclami anti-capitalisti e orgogliosamente egualitaristi hanno sempre condannato. Dice allora lo scrittore cubano Rafael Rojas: «Cuba è una piccola nazione allegra ed erotica che si decompone socialmente, e una comunità comunista e virtuosa che si corrompe moralmente».
Eppure i risultati che la sua Revolución ha ottenuto sul piano sociale sono rilevanti: un sistema sanitario di standard elevato, con un dottore ogni 166 abitanti; un tasso di mortalità infantile simile a quello degli Usa, settimo nella graduatoria mondiale; un tasso di alfabetizzazione del 95,3 per cento, e l’istruzione gratuita fino all’università; un sistema (almeno fino alla crisi dell’Urss e alla «dolarización») che garantiva un minimo di beni alimentari in un quadro comunque di austerità diffusa.
Da quel suo ultimo bastione ideologico, la Revolución poteva però difendere la sopravvivenza del regime soltanto grazie agli 800 milioni di dollari che arrivano all’Avana con le rimesse dei cubani che vivono all’estero (soprattutto in Usa) e ai 2 miliardi di dollari pagati dai turisti stranieri. Non era un risultato esaltante per chi aveva predicato l’indipendenza e l’orgogliosa autarchia dell’isola della rivoluzione. Ed è stato poi soltanto l’inizio di un inevitabile, e profondo, processo riformistico, che Raúl ha imposto alla economia e alla società dell’Isola quando Fidel ha dovuto mettersi da parte per gravi, e misteriosi, danni alla sua salute, cedendo ogni carica istituzionale. La mitologia continuava a celebrarlo come il Líder, ma il suo tempo ormai si era lentamente consumato.
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Carlo Petrini “Un rivoluzionario con luci e ombre” 
Il guru di Slow Food è a Cuba 
Alberto Mattioli Busiarda
Diavolo di un uomo. Muore Fidel e dov’è Carlo Petrini, il fondatore di Slow Food, l’uomo che ha spiegato alla sinistra che mangiare bene non è un vizio borghese, mangiare sano una battaglia progressista e la Terra una Madre per tutti? Ma naturalmente a Cuba, per la precisione all’Avana.
Carlìn, che ci fa a Cuba?
«Sono in visita alle nostre comunità di agricoltori, quelle di Terra Madre, che qui lavorano con risultati straordinari sul fronte dell’agroecologia. Adesso sono nella capitale, ma ho passato la mattinata in una cittadina a circa 40 chilometri da qui dove c’è una comunità di contadini che coltivano la terra e donano il cibo alle famiglie che hanno dei bambini malati a carico. Una realtà strana e affascinante, quella di gente povera che aiuta altra gente povera».
I cubani come hanno preso la notizia?
«La reazione mi è sembrata molto composta. Castro è morto nella notte e in effetti pochissimi l’hanno saputo subito. La maggioranza, come me del resto, l’ha saputo solo questa mattina (ieri per chi legge, ndr). Tutti sapevano che era malato, ma restava una presenza, perché non era del tutto uscito di scena e ancora riceveva i Capi di Stato in visita a Cuba. Insomma, mi sembra che l’abbiano vissuta come una famiglia cui muore un nonno molto anziano e molto malato: se l’aspettavano, ma lo sbigottimento c’è lo stesso. La tristezza si sente, nell’aria».
Bipartisan o solo dei sostenitori del regime?
«Mi colpisce la compostezza, sia da parte dei sostenitori che dei critici. In fin dei conti, era una specie di Padre della Patria. Non bisogna dimenticare che più della metà dei cubani sono nati dopo che Castro aveva preso il potere e quindi hanno conosciuto come leader solo lui».
Che impressione ha delle condizioni dell’isola?
«Io parlo ovviamente di quello che ho potuto vedere e di quello che mi interessa di più. Alcuni esperimenti di agroecologia urbana sono interessantissimi e certo le necessità dovute all’embargo li hanno stimolati. Tanto che con la riapertura dei viaggi vengono a studiarli anche degli esperti americani. A me poi premeva vedere quanta libertà hanno le comunità di Terra Madre. E devo dire che pur nella possibilità di realizzare i loro progetti, la burocrazia è tale da ammazzare un cavallo».
Una domanda a uno storico militante di sinistra: perché Castro vi ha sempre affascinato tanto?
«Perché è il rivoluzionario che una volta preso il potere non tradisce i suoi ideali e resta con forza in una dimensione d’impegno su fronti come l’educazione o la sanità pubblica. In un Paese, lo ricordo, molto povero, con un’economia basata in pratica sulla monocoltura dello zucchero. Detto questo, è perfino banale che nell’esperienza castrista ci sono luci e ombre. Molte luci ma anche molte ombre».
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Zoé Valdés “Senza di lui il regime crollerà”  “È un sollievo che sia scomparso” 
Leonardo Martinelli Busiarda
«Condannatemi, non importa: la Storia mi assolverà». Così parlò Fidel Castro, nel 1953, arrestato e processato a Cuba, dopo aver tentato (invano quella volta) di abbattere il regime di Fulgencio Batista. «La storia lo dissolverà», ha invece scritto Zoé Valdés, ieri mattina, al suo risveglio, sotto un cielo gelido e opaco, quello di Parigi, così lontana dagli odori, i suoni e le luci della sua Avana. «Sono state le prime parole che mi sono passate per la testa», confida questa scrittrice e poetessa, 57 anni, dal 22 gennaio 1995 in esilio nella capitale francese. Alle spalle, una trentina di romanzi.
Cosa prova signora Valdés?
«Un enorme sollievo. Ma poi penso ai tanti cubani che non ci sono più, soppressi fisicamente dal castrismo. E ai milioni partiti in esilio. Provo anche dolore».
La morte di Fidel Castro vuol dire che la fine della dittatura si avvicina?
«Sì, anche se il cambiamento non sarà immediato. Ma è una presenza che scompare dalla testa e dall’anima dei cubani.
Era ancora così importante questa presenza? Fidel, in fondo, non dirigeva più il Paese…
«Era molto più importante di quanto si possa immaginare: la sua presenza fisica definiva la politica attuale del regime. Mancherà molto a Raul e ai militari, per giustificare il loro ruolo».
Si deve, comunque, a Raul l’apertura agli Stati Uniti. Non la giudica positiva?
«Ai dirigenti castristi importano solo i soldi: vogliono farne con la Cina e anche con gli Stati Uniti. Obama ha tradito il popolo cubano e anche gli americani».
Come si viveva il castrismo nella sua famiglia?
«Mio padre è partito da casa pochi mesi dopo che sono nata. Era un controrivoluzionario ed è finito in carcere. Sono stata tirata su da mia mamma, dalla zia e soprattutto da mia nonna».
Insomma, mai stata una rivoluzionaria?
«Da adolescente volevo credere in una rivoluzione, ma vedevo che con il castrismo le cose andavano sempre peggio. Ho pensato che si potesse cambiare dall’interno, ma non è stato possibile. Un grande scrittore come Gilberto Cabrera Infante ha creduto all’inizio a Castro, per poi diventare un anticastrista e morire lontano da Cuba. Stesso destino per Reinaldo Arenas».
Lei venne a vivere a Parigi già negli anni Ottanta?
«Sì, al seguito dell’uomo che era mio marito, inviato qui a lavorare nella delegazione cubana presso l’Unesco: in realtà, allontanato dall’Avana per degli scritti che non erano piaciuti».
U ruolo importante a Fidel lo vuole riconoscere almeno nella lotta contro Batista?
«Ma no. La lotta per l’indipendenza i cubani l’hanno fatta da soli. Il problema è che Fidel Castro se ne è appropriato. E ha creato un prodotto marketing che si chiamava rivoluzione e che ha rifilato a tutto il mondo. Il risultato? Un Paese che nel 1957 era in via di sviluppo è diventato sottosviluppato. E dai sovietici in poi ha chiesto l’elemosina a tutti».
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Dall’assalto alla Moncada all’embargo così scompare l’ultimo comunista
VITTORIO ZUCCONI 27/11/2016
NELL’INTERMINABILE addio di un tempo che non vuole lasciarci, l’ultimo eroe del XX secolo, Fidel Castro, scompare proprio mentre alla ribalta del potere americano assurge un nostalgico di quel secolo che vorrebbe resuscitare: Donald Trump. Nell’incrocio fra vita e morte, nella presa di un secolo che non finisce mai, di quel mondo che comincia sul Rio Grande e finisce nella Terra del Fuoco, Fidel Alejandro Castro Ruz era stato per 50 anni il sogno e l’incubo.
COME l’avversario che non avrà è il sogno e l’incubo del “Grande Norte”, dell’Altra America oltre il Muro. Due figli del passato, Fidel e Donald, che non potranno incontrarsi nel futuro.
Castro era il venerabile dinosauro sopravvissuto all’era che lo aveva creato, all’utopia di una rivoluzione globale sconfitta dalla globalizzazione del capitalismo e segnato dalla suprema ironia di quelle due bandiere, la cubana e l’americana tornate a sventolare nell’agosto del 2015, sulle opposte capitali. Un nemico, un idolo, ma un uomo che è stato impossibile da ignorare, da amare, da detestare, e sempre da rispettare. Morto dopo essere stato costretto, dal fratello, non dal nemico, ad accettare recalcitrante, brontolante, una normalizzazione che ora quel Trump che era già un teenager quando Cuba divenne comunista, potrebbe rinnegare.
All’Avana è scomparso l’ultimo vero comunista giurassico, portandosi via in quel corpo divenuto fragilissimo e inoffensivo a 90 anni il sogno fané come il suo volto scolorito di un’ideologia nella quale soltanto lui ancora credeva, se ancora ci credeva, insieme monumento e prigioniero di se stesso. Il mondo non avrà più un Castro da maledire o da invocare e nessun altro di coloro che restano aggrappati all’aggettivo comunista, non il grottesco e feroce bamboccio eremita arroccato nella penisola coreana, non le varie “dittature di sviluppo” asiatiche, non gli addomesticati comunisti da “talk show” televisivo o da facoltà accademiche, potrà mai prendere il suo posto. I dittatori, nella storia di ogni continente e di ogni ideologia, si vendono a mazzetti. Castro era un “unicum”, un pezzo unico, come unica è stata la presa sull’immaginazione del mondo che questo figlio di un benestante piantatore galiziano di zucchero emigrato a Cuba possedeva.
È stato la coda che ha agitato il cane, il signore di un’isola adorabile e infelice grande poco più di metà di quella Florida incombente su di essa appena oltre il giardino, che da scantinato sordido del Caribe, da bordello dell’America e delle sue multinazionali, aveva saputo trasformarsi nella spina inestirpabile conficcata nella zampa dell’elefante “yanqui”. Ma con un’ultima vittoria finale, che il tempo soltanto dirà se vera vittoria fu: sulla caduta del Muro d’Acqua negli Stretti della Florida ha potuto dire, dal proprio sontuoso palazzo nel quartiere Miramar dell’Avana, di essere sopravvissuto ai dieci presidenti americani che hanno cercato invano di abbatterlo, Eisenhower, Kennedy, Johnson, Nixon, Ford, Carter, Reagan, Bush il Vecchio, Clinton, Bush il Giovane, fra la disastrosa voglia di eliminarlo con invasioni da operetta e le operazioni segrete da filmetto di spionaggio. Fino al “basta” ordinato da Obama. Un eterno “Redivivo”, fanatico di baseball, tifoso degli Yankee di New York per i quali si era illuso di potere giocare, fra gli estremi della possibile catastrofe nucleare scatenata nel 1963 dalla sua decisione di trasformarsi in piazzola per i missili di Krusciov ai dispettucci infantili dei voli charter tra Miami e l’Avana concessi e negati, secondo i diktat della lobby cubana in Florida che oggi esulta. Forse senza rendersi conto che era la “Questione Cubana”, era l’aborrito Fidel, a rendere rilevante quella Little L’Avana che dopo Castro sarà soltanto un’altra minoranza etnica fra tante, nella insalatiere delle culture e delle razze.
Resistere per mezzo secolo alla furia di un elefante esasperato, lontano appena 90 miglia di mare, è ciò che ha fatto di Fidel Castro la stella polare di tutti coloro che nel mondo, e non soltanto in quello latino, guardano a Washington come alla sorgente di ogni nequizia. In un continente che produce demagoghi scamiciati, capipopolo, guerriglieri, trafficanti, generali torturatori, politicanti rapaci e corrotti, tribuni di una sera che si succedono e si annullano con la violenza degli scrosci d’acqua nelle foreste andine, un uomo che sappia restare alla guida di un’isola come Cuba per due generazioni raggiunge la semplice santificazione della sopravvivenza. Fidel non ha vinto la grande scommessa con la storia, quella di essere l’acciarino “rivoluzionario” che avrebbe cambiato il mondo o almeno il proprio emisfero, come sognava il suo nemico e insieme figlio, il Che, e come lui tentò di fare dissanguandosi con le avventuristiche spedizioni di truppe in Africa per cambiare i regimi degli altri. Ma ha vinto la scommessa con l’adorata e odiata America, restando al proprio posto fino a quando, nell’impari duello gridato su ogni muro dell’isola, “Socialismo o Muerte”, è stata l’America del Nord, non lui, a sbattere le palpebre per prima.
E soltanto a Sud della magica e tragica frontiera americana con il Grande Norte, nelle acque di quel Caribe che è il liquido amniotico di tutti i sincretismi religiosi, culturali, musicali, razziali afro-europei e di tutti i voodoo venerati su quei finti altari cattolici davanti ai quali anche Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco si inginocchiarono fingendo di non sapere, un personaggio come Fidel Castro era pensabile. Un borghese colto, e cresciuto nella buona società cubana fino alla laurea in Giurisprudenza, che diventa il tormentatore della borghesia cubana. Un figlio illegittimo, “bastardo” come si diceva allora, del piantatore galiziano di zucchero e di una domestica, Lina Ruz González, che il padre si decise a sposare dopo l’annullamento del matrimonio, ma non prima che la fedele Lina gli avesse dato ben sette figli, quattro femmine, Angelita, Juanita, Augustina, Emma e tre maschi, Ramon, Fidel e quel Raul che nel 2006 ha ricevuto il timone dal fratello morente, condannato per tutta la vita a essere migliore degli altri per legittimarsi.
Un ragazzo tormentato dai coetanei, perché non battezzato da piccolo, ma che poi va a rifinirsi nelle scuole cattoliche private e nel liceo dei Gesuiti all’Avana, assorbendo quel marchio di rispetto e di timore superstizioso per la “Iglesia” che lo rese impettito, rigido e felice come lo scolaretto che fu, al fianco di Papa Wojtyla sulla Piazza della Rivoluzione. Uno studente facile a esaltarsi e esaltare, poi avvocato, che si volle aggiungere come secondo nome quello di Alejandro, dopo avere letto delle imprese del condottiero macedone, e come primo cognome quello della madre naturale, Ruz. Ricevendo come ultimo Papa, nella sublime ironia della Storia, proprio un gesuita, come i suoi primi educatori.
È possibile che la ricerca storica, ora che il grande caballo, come i cubani lo avevano soprannominato per le sue leggendarie prodezze erotiche da stallone, chiarisca definitivamente se il giovanissimo avvocato che salì sulla Sierra per lanciare il primo assalto alla caserma della Moncada il 26 luglio del 1953 (Stalin era morto da pochi mesi tanto per dare la prospettiva temporale della sua vita) fosse un comunista travestito da nazionalista o un irredentista progressivamente spinto nella braccia del Socialismo Reale e dell’Unione Sovietica, così condannando se stesso e la sua Cuba alla morsa micidiale della Guerra Fredda. Ma chiunque abbia conosciuto anche superficialmente Cuba, l’abbia amata nella sua gente incantevole oltre le vetrine turistiche da “Hawaii Sovietica”, può avere pochi dubbi sul fatto che Fidel Castro avrebbe stravinto un’elezione autentica, un referendum non taroccato, contro qualsiasi concorrente si fosse liberamente candidato. Neppure nei momenti più amari, quando la Mosca di Gorbaciov scaricò lui e Cuba come un sacco di sassi e i monelli all’imboccatura del porto applaudivano rincorrendoli dalle banchine i pochi mercantili che ancora entravano per portare cibo in una capitale oscurata, i cubani avrebbero tradito colui che li aveva condotti al patto leonino dello scambio fra la libertà e dignità nazionale.
Come in tutte le dittature e i regimi oppressi dal “culto della personalità” la gente di Cuba aveva imparato a detestare il sistema, ma a salvare colui che del regime era responsabile. La colpa della miseria e della plumbea indifferenza che avevano ricominciato a opprimere l’isola, a riportare le ragazzine per le strade a rivedere l’orrore del turismo pedofilo, a separare in “classi” di fatto coloro che riuscivano a mettere le mani sui “castrodollari”, i Cuc, i pesos convertibili buoni per i negozi veri, e coloro che dovevano campare di Cup, “el peso di mierda” dei salari di stato e di tessere alimentari, era degli altri. Del “Bloqueo”, l’embargo pur largamente bucato dai commerci con l’Europa, la Cina e il resto dell’America, insieme zavorra e involontario puntello del castrismo. O dell’esecrato “hermano” di Raúl, capo dell’apparato di sicurezza, degli sciacalli, dei gerarchi corrotti, della corte, della nomenklatura, divenuto, ironicamente, il Grande Liberalizzatore alla fine della vita dei fratelli. Mai di Fidel, intoccabile come tutti i sogni, neppure quando l’implacabile avanzare dell’età lo costrinse a rinunciare al “Cohiba”, al sigaro, e gli ricoprì con il sale del tempo il colore della barba.
Lascia un popolo che con lui ha imparato a leggere, a non sentirsi più colonia, che ha pagato cara la propria dignità che lo piangerà ma, lo auguriamo ai dolcissimi cubani, non dovrà rimpiangerlo, come a volte accade ai dispotismi decapitati. Ha creato un’economia inesistente ed esangue, una sorta di isola bambina viziosa e vergine, completamente impreparata al mondo nel quale ora sarà costretta a rientrare al volante dei suoi almendrones, le carcasse dei macchinoni americani Anni ’50 rappezzati o degli ultimi
sacapuntas, i temperamatite, le 600 fatte in Polonia, sonora di meravigliose musiche, ma senza uno spartito politico. Una grande nave alla deriva senza una classe dirigente, senza un successore, e sulla quale ora si potrebbero abbattere la vendetta dei gusanos, la collera dei vermi sfuggiti alle sue grinfie, come li chiamava lui, dei marielitos, dei balseros, scappati a bordo di copertoni di camion e su gusci di balsa dal porto di Mariel e la rabbia degli esuli arricchiti e pronti a tornare per esigere, come già in Polonia, nella Germania dell’Est, nell’Europa Orientale dopo il 1991, le proprietà espropriate. Il sogno, e l’incubo, sono morti, ma in realtà erano morti da tempo, scoloriti e patetici come l’omino del murale dipinto accanto alla legazione americana all’Avana con il dito puntato verso il Nord e la sua affermazione che «non abbiamo assolutamente paura di voi, signori imperialisti», levato quando si è rialzata a bandiera. Resta il sapore della tristezza, come di una magnifica occasione mai colta, di un sogno vero diventato banale, nel segno della eterna verità churchilliana: «La dittatura risolve tutti i problemi, meno il più grave, cioè se stessa».
Fidel ha fatto appena in tempo a vedere l’assunzione al trono “yanqui” di un altro residuato dei miti e dei vizi ideologici del suo XX secolo, Trump, e non sappiamo se e quanto lucido fosse lo stanchissimo caballo la notte dell’8 novembre scorso e se abbia potuto vedere Trump in televisione. Ma almeno un’umiliazione gli sarà risparmiata: vedere, come monumento funerario alla sua “Revolucion” incompiuta, un trionfante grattacielo di 60 piani sul lungomare del Malecon con cinque lettere d’oro scintillanti al sole del Tropico: “Trump”.
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Il fratello Raúl ha riformato il potere E ora si fa avanti suo figlio Alejandro
OMERO CIAI Rep
«HASTA la victoria siempre», ha detto commosso Raúl Castro annunciando l’altra notte in tv la morte del fratello. Ma, nonostante tutto, per Cuba Fidel Castro era già morto, politicamente, dieci anni fa. Quando ottantenne, dopo l’ennesimo intervento chirurgico per i diverticoli nell’intestino, lasciò lentamente il potere, prima a una giunta di fedelissimi - oggi tutti relegati a vita privata - e poi a Raúl.
A Cuba quando si perde il potere, la gente dice che ti hanno fatto un “plan pijama”, un programma pigiama, per raffigurare plasticamente il potente che esce dalla scena della vita pubblica e vive rinchiuso in casa. E, in un certo senso, anche Fidel aveva avuto il suo di “plan pijama” dopo il 2006. Ieri notte è soltanto morto fisicamente, dopo le quattro del mattino (ora in Italia), e adesso verrà cremato e le sue ceneri verranno trasportate in un lungo viaggio per tutto il Paese fino al cimitero di Santa Ifigenia, a Santiago di Cuba, dove verranno tumulate accanto a quelle dei suoi numerosi compagni morti durante lo sfortunato assalto al Cuartel Moncada, il 26 luglio del 1953. Data che nell’agiografia cubana corrisponde all’inizio della rivoluzione castrista. Nove giorni di lunghissimo lutto per l’ultimo omaggio al líder máximo.
Ma in realtà la geografia del potere a Cuba è già cambiata dopo l’avvento al potere di Raúl che, soprattutto, dal 2008, ha allontanato tutti i dirigenti più vicini a Fidel sostituendoli, poco a poco, con una nuova generazione di militari a lui fedeli. Uno “spoils system” il rimpiazzo degli alti dirigenti con il cambiamento di governo - all’americana che ha interessato tutte le aree del potere. Ed è stato anche l’ultimo atto di una guerra sotterranea per il controllo delle leve nell’isola che i due fratelli hanno combattuto per tutta la vita.
L’unico ex fedelissimo di Fidel rimasto è il generale Ramiro Valdez, 84 anni, eroe della rivoluzione, ma Raúl lo ha destinato a occuparsi del Venezuela, lontano dai centri del potere.
Con la sua nuova èquipe, Raúl si è dedicato a riformare il socialismo cubano con l’idea di trovare una via d’uscita che consentisse al regime di sopravvivere dopo la morte di Fidel e la sua. Che ci sia riuscito oppure no lo sapremo più avanti ma non c’è dubbio che, in alcune cose, ha fatto grandi passi. Soprattutto in alcune libertà per i cubani, dalla possibilità di viaggiare fuori dall’asilo, alla nascita delle attività private. Fino alla storica svolta della pacificazione con Obama. Molti dissidenti credono, a Cuba come a Miami (dove vivono la maggior parte degli esuli anticastristi), che Raúl abbia utilizzato Fidel come un pretesto per muoversi molto lentamente verso il rinnovamento. Al quale evidentemente manca una riforma politica, visto che nessuno sa a scienza certa cosa accadrà quando, come ha promesso, fra due anni, Raúl lascerà la presidenza. E che ora, senza Fidel, completamente solo Raúl non avrà più alibi di fronte al suo popolo.
L’idea però è discutibile perché Raúl non ha mai cercato di affondare il regime nel quale è cresciuto ma solo di riformarlo per conservarlo com’è. La morte del fratello maggiore arriva però in un momento critico. Decisivo sarà l’atteggiamento del neo presidente americano, Donald Trump, che su Cuba ha già detto tutto e il contrario di tutto. Se seguirà i desideri di rivincita, anche sulle aperture di Obama, del fronte più duro degli anticastristi repubblicani (da Marco Rubio a Mario Diaz Balart) è abbastanza probabile che la risposta a Cuba sarà quella di difendersi serrando le fila.
Nelle stanze del potere oggi all’Avana c’è ancora la generazione della rivoluzione. Ma la via che sceglieranno i più giovani, come lo zar dell’economia, Marino Murillo (55 anni), o il vice presidente Miguel Diaz-Canel (56 anni), quando la soluzione biologica gli aprirà finalmente la strada, è ancora tutta da immaginare. Ma la chiave di volta sarà la successione a Raúl. Sarà un altro Castro, come molti credono, ovvero Alejandro Castro Espín, l’unico maschio cresciuto nella famiglia del presidente in carica. Oppure no. Quel giorno si capiranno molte cose. Per oggi, dopo l’addio a Fidel, alla guida del Paese c’è già un altro Castro. Meno ortodosso e visionario del primo. Ma pur sempre un Castro.
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