lunedì 14 novembre 2016

Dopo Trump: Lévy e gli intellettuali della corte perdente fanno di tutto per suscitare risposte reattiva




“Saranno i poveri a pagare il trionfo del populismo globale” 
Bernard-Henri Lévy: “Un voto contro la democrazia e i suoi valori La vittoria del magnate metterà le ali a gente come Le Pen e Grillo” 

Francesca Paci  Busiarda
L’invito a non sottovalutare il potenziale distruttivo di Trump, soprattutto ora che è stato eletto. La messa in guardia dall’«Internazionale populista». La speranza che i curdi vedano nascere il proprio Stato al termine della guerra contro il Califfato in cui hanno combattuto in prima linea. Bernard-Henri Lévy ragiona con La Stampa del voto americano e delle ombre che proietta sul mondo. Giornalista, scrittore, filosofo, animatore del dibattito politico come della mondanità francese ma soprattutto epigono dell’intellettuale «engagée» nell’era del disimpegno e della rivolta contro le elite, Bhl traccia una mappa in cui l’occidente catalizza tensioni, frustrazioni, rese dei conti con la Storia. 
Cominciamo da Trump: cosa dobbiamo aspettarci?
«Il peggio. Ossia che faccia quanto può per applicare il suo programma. La gente dice: “Ora che è stato eletto si calmerà, aggiungerà l’acqua al vino, si farà digerire dal sistema”. Io non ci credo. Credo che cercherà, per quanto possibile, di fare quel che ha detto». 
Che valori esprime questo voto?
«Il disprezzo della democrazia. La legge della tele-realtà applicata alla politica. E, come se non bastasse, una sorta di darwinismo sociale di cui i più deboli pagheranno il prezzo. Ho letto che ad eleggere Trump sono stati i declassati, i marginalizzati dalla globalizzazione, gli umiliati. Intanto non è vero, perché la maggior parte dei neri - la minoranza per eccellenza da cui provengono questi esclusi - ha comunque votato per Clinton. Ma, soprattutto, se Trump manterrà le sue promesse in materia fiscale o di protezione sociale a soffrirne saranno gli americani più poveri». 
Non è un voto di protesta contro le élite?
«No. È un voto contro la Repubblica. Contro l’uguaglianza e il rispetto delle minoranze. Contro Tocqueville e la sua definizione di America. Assistiamo a un autentico tentativo di suicidio dentro quella grande democrazia che è la democrazia americana». 
Qual è l’agenda di Trump per l’Europa?
«Nella migliore delle ipotesi se ne frega dell’Europa. Nella peggiore crede che sia il momento di rinegoziare i termini della Nato. In entrambi i casi la sua elezione è una pessima notizia e in entrambi i casi sotto la sua presidenza l’America volterà le spalle alle sue radici europee».
La Cancelliera Merkel si è congratulata con Trump ma gli ha ricordato il rispetto dei diritti umani. È l’approccio giusto?
«Merkel ha espresso due paure. La prima è che gli Stati Uniti cadano nell’isolazionismo e rinuncino a difendere la democrazia nel resto del mondo. La seconda è che nella stessa America regredisca rispetto alle battaglie storiche per i diritti civili che da cinquant’anni le fanno onore. La reazione di Merkel è quella di una amica dell’America che vede l’America spararsi su un piede».
L’Europa è unita su questo o si dividerà ancora?
«C’è un nuovo tipo di regime in Europa, i “démocratures”, una miscela di democrazia e dittatura. È il caso del populismo autoritario di Victor Orban in Ungheria. Quel tipo di gente, ovviamente, si rallegra di Trump. Proprio come Marine Le Pen, in Francia, è stata la prima a felicitarsi. C’è una nuova Internazionale, una specie d’Internazionale rosso-nera o nera-rossa, che già vede in Trump il suo araldo. Tra chi ha salutato l’avvento di Trump c’è l’estrema destra ma c’è anche tutta quella parte dell’estrema sinistra, seguace di gente come Slavoj Zizek, convinta che il vero pericolo fosse Hillary Clinton».
Pensa che ci si debba preoccupare di fronte alla lista di chi applaude Trump? Erdogan, al-Sisi, Orban, Le Pen, Grillo in Italia.
«Sì. È “l’Internazionale populista”. La vittoria di Trump mette loro le ali. È il loro “Yes we can”. Se Trump ha potuto, la Le Pen potrà. Se Trump è stato eletto, nulla impedirà a un cattivo clown come Beppe Grillo di esserlo a sua volta. Nel mondo occidentale si è messa in marcia questa grande regressione anti democratica».
Ma Trump è stato eletto democraticamente...
«La democrazia non si limita al voto. Riguarda i valori, il tipo di società, un rapporto col mondo. È possibile che stiamo assistendo alla autoliquidazione della democrazia per mezzo della democrazia. Poi, in realtà, le cose sono più complicate. L’America è un grande paese e credo che alla fine trionferà sulla volgarità e la brutalità. L’Italia ha resistito a Berlusconi, l’America resisterà a Trump».
E Putin? Che politica adotterà Trump?
«L’ha già annunciata. Gli mangerà nella mano. Romperà con la politica di relativa fermezza dell’amministrazione Obama. Sarà così per ragioni ideologiche e personali: hanno la stessa visione del mondo, lo stesso populismo, lo stesso sprezzo delle élite e dei valori democratici ma anche la stessa volgarità, la stessa appartenenza al club dei presunti testosteronici. Senza menzionare che il Cremlino è stato indirettamente - con i suoi hackers focalizzati sulle mail della Clinton - uno degli architetti della vittoria di Trump. E senza menzionare i legami oscuri del passato businessman Trump con gli amici di Putin...»
Si spieghi meglio.
«Nel 2004, quando Trump era sull’orlo del collasso finanziario, le banche Usa smisero di finanziarlo. Alcuni oligarchi russi l’hanno allora sostenuto. Sono loro che hanno sottoscritto i suoi nuovi programmi immobiliari, loro che in qualche modo l’hanno salvato». 
Che implicazioni avrà questa situazione sul Medioriente?
«Il dossier più scottante è la Siria. Se Trump si allinea a Putin, si andrà all’abbandono della Siria. Si andrà a riconoscere ad Assad il ruolo di grande sterilizzatore dei germi della democrazia nella regione. E si andrà a una concezione della lotta contro Isis che presuppone una politica di terra bruciata. Con tutto ciò che implica in termini di aumento dei rifugiati. Non dimentichiamo che la maggioranza dei famosi migranti che arrivano in Europa è gente che fugge dal faccia a faccia tra Assad e Isis. Tutto quanto alimenta questo faccia a faccia e mantiene Assad al potere non può che aumentare il numero dei rifugiati».
E Israele?
«Trump l’ha già detto. Intende domandare a Israele il rimborso di una parte degli aiuti concessi dalle precedenti amministrazioni. In più, ricordate la volgarità delle sue allusioni alle grandi organizzazioni sioniste americane durante la campagna elettorale. Roba tipo: so che non mi voterete perché non voglio il vostro sporco denaro...».
Siete appena rientrato dall’Iraq. Anche lì, nel cuore della guerra contro lo Stato Islamico, questo voto si farà sentire?
«Probabilmente sì. Se non altro perché anche lì Trump sarà tentato di allinearsi a Putin e ai suoi metodi. Prendiamo Mosul. La coalizione internazionale conduce per ora una guerra il più pulita possibile, evitando di colpire i civili e limitando le perdite. Con Trump si rischia un altro tipo di guerra, attacchi massicci e città spianate, il metodo Grozny o Aleppo applicato a Mosul».
E i curdi? Coloro che lottano sul terreno contro il Califfato, come ha raccontato nel suo film “Peshmerga”, otterranno alla fine il loro Stato?
«Lo spero. Sarebbe il minimo dopo tanti sacrifici e tanto sangue versato. Inoltre questa battaglia di Mosul non è iniziata un mese fa ma un anno fa o forse due, quando i curdi, e solo loro, hanno affrontato le prime linee del Califfato. Oggi ci concentriamo sugli ultimi atti dimenticando che il grosso del lavoro l’hanno fatto i peshmerga quando non c’era la coalizione internazionale e men che mai una brigata irachena. Ma anche qui c’è da temere il peggio. Perché nel club dei dopati di testosterone c’è un terzo uomo, Erdogan. Anche lui affascina Trump. La loro intesa sara perfetta. E lui è il nemico giurato dei curdi. Non vedo Trump imporre a Erdogan uno Stato per i curdi...».
Trump ha parlato degli sforzi di Assad contro Isis ma non ha mai menzionato i curdi. Un brutto segno?
«Credo di sì. Inoltre questa storia è una balla. Innanzitutto perché i curdi sono in prima linea contro Isis. E poi perché, prima di combatterlo, Assad ha inventato Isis. Non bisogna mai dimenticare il doppio gioco turco. Così come il doppio gioco saudita o qatarino. Non ci sono alleati affidabili nella lotta allo jihadismo. Si può fare un pezzo di strada con loro, ma restando vigili e prudenti. Un’ultima cosa sulla Turchia. Ormai non ci si chiede più se debba o meno entrare in Europa. La questione è più radicale: ha ancora diritto al suo posto nella Nato? Può, senza chiarire le sue posizioni, restare nell’alleanza militare che garantisce la sicurezza dell’Europa? Indovinate la mia risposta».
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L’eccezione che distingue gli Stati Uniti 

Maurizio Molinari  Busiarda

«è stato un voto per il cambiamento, come nel 2008». E’ David Plouffe, l’architetto dell’elezione di Barack H. Obama, a riassumere la vittoria di Donald J. Trump con lo stesso termine che coniò allora: «Change». L’America che voltò pagina passando dal repubblicano George W. Bush al primo Presidente afroamericano identificando in lui il vettore del «change» è lo stesso Paese che, otto anni dopo, punisce severamente il partito democratico costruito da Obama per consegnare la Casa Bianca al movimento che si rispecchia nel tycoon di New York.
In questi cambiamenti così rapidi e drastici c’è lo specchio dell’eccezione americana ovvero di una democrazia che, sin dalla sua fondazione, si alimenta e rinnova attraverso i contrasti più duri, spietati ma sempre all’interno di regole condivise: come quello che ha distinto l’ultima campagna presidenziale fra Hillary Clinton e Donald Trump.
Tale eccezione ha tre elementi-chiave. Primo: ciò che distingue il legame degli americani con il proprio Paese non è il nazionalismo di tipo europeo ma il patriottismo ovvero non i contrasti su chi è più o meno americano sulla base di nascita, identità o casacca politica ma la fedeltà comune alla Costituzione redatta dai Padri Fondatori con la volontà di «rendere più perfetta l’Unione», adattandola ai cambiamenti imposti dalla Storia. Ciò significa che anche lo scontro più aspro viene ricondotto all’interno di una cornice di valori comuni che è poi il testo della Dichiarazione di Indipendenza del 1776. 
Secondo: i contrasti non sono paludati, smussati, e non si superano con i compromessi ma con la vittoria netta di un campo sull’altro. Il «Civil Right Act» di Lyndon B. Johnson, il «Patriot Act» di George W. Bush e la riforma della Sanità di Barack Obama sono esempi di leggi sulle quali la nazione si è lacerata, ha vissuto al Congresso di Washington e fuori scontri feroci, e poi li ha superati quando i sostenitori hanno vinto e gli oppositori hanno perso. Si è trattato di vittorie, parlamentari e politiche, spietate perché il modello di confronto da cui discendono è quello delle comunità di pionieri della nuova frontiera descritta da Frederick Jackson Turner: c’era da decidere dove attraversare un fiume minaccioso, se combattere contro una tribù di nativi, se percorrere una carovaniera infestata dai banditi. Ovvero, scelte esistenziali dove la via di mezzo non poteva esserci. Si votava, a maggioranza, c’era sempre chi vinceva e chi perdeva. Ed i primi avevano la responsabilità di far seguire il voto ad un successo palpabile, inequivocabile. Altrimenti la loro leadership era compromessa, andava perduta a vantaggio dei rivali.
Terzo: quando questi scontri aspri su temi di valore - come la sicurezza o i diritti civili - si succedono consentono alla società americana, nel suo insieme, di crescere in direzioni diverse. Ad esempio, dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001 il «Patriot Act» ha consentito all’America di Bush di essere la prima nazione a darsi leggi per difendersi da un nuovo tipo di terrorismo così come negli ultimi quattro anni l’impegno di Obama a favore dei diritti gay ha fatto dell’America la frontiera avanzata del loro inserimento, a pieno titolo, nel novero dei diritti civili. La maggioranza, nel Congresso e nel Paese, che ha sostenuto il «Patriot Act» è stata assai diversa da quella che ha fatto avanzare i diritti gay ma in entrambi i casi gli sconfitti hanno accettato l’esito delle dure battaglie. Ed a guadagnarci è stata l’America come nazione, tanto sul piano della sicurezza che dei diritti. 
Ciò che muove la democrazia americana dunque è una dinamica fatta di scontri aspri all’interno di una comune cornice di patriottismo con il risultato di far crescere la nazione in direzioni opposte, contrastanti. E’ in tale eccezione americana che deve essere collocato Trump perché ciò che distingue il «change» che propone è la necessità di correggere gli errori della globalizzazione per redistribuire la ricchezza al fine di rispondere allo scontento dei ceti disagiati, rimasti ai margini della crescita di prosperità. Trump vuole dunque andare incontro alla richiesta di diritti di eguaglianza economica, così come Obama ha fatto per i diritti civili nella società post-razziale e George W. Bush per i diritti di sicurezza nell’età del terrorismo. Ecco perché quanto avvenuto Oltreoceano dall’inizio di questo secolo testimonia che resta l’America il motore - imperfetto ma irrinunciabile - delle democrazie occidentali. Grazie ad un’eccezione che nasce dalla genesi dell’Unione ed è indipendente dal nome del Presidente.
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La fine dell’illusione democratica 

Fabrizio Tonello Manifesto 13.11.2016, 23:58 
In un raro momento di sincerità durante la campagna elettorale Hillary Clinton ha detto: «I am not a born politician, like my husband and president Obama», non sono un politico nato, come mio marito e Obama. In effetti è vero: sia Bill Clinton che Barack Obama sono due leader che entrano immediatamente in sintonia con le folle, piccole o grandi, che lo ascoltano: di cosa siano capaci lo abbiamo visto infinite volte. 
Hillary Clinton non ha questo talento ma è una che ci prova, che non molla mai, che lavora 16 ore al giorno e che, presentandosi come il candidato della continuità in un anno in cui il 53% degli americani voleva il cambiamento, ha comunque preso più voti del suo avversario. Solo l’antidemocratico sistema elettorale, non la volontà della maggioranza degli elettori, ha consegnato la presidenza a Trump sottraendola a lei. Checché ne dicano molti commentatori, il problema non era il candidato ma il partito. 
E il partito, oggi, non ha leader, non ha programma, non ha una visione del mondo su cui riconquistare la maggioranza degli americani. Il solo fatto che nei pettegolezzi post-elezioni si parli di Michelle Obama come possibile candidato alla presidenza nel 2020 è il sintomo di una crisi ideale profonda. Erano i paesi del terzo mondo quelli dove governavano le dinastie politiche: in Argentina la moglie di Nestor Kirchner dopo la sua morte, in Pakistan il marito di Benazir Bhutto dopo il suo assassinio, in India Sonia Gandhi come leader del partito dopo la scomparsa del marito Rajiv (a sua volta figlio di Indira Gandhi e quindi nipote di Nehru). Oggi il partito democratico negli Stati Uniti sono le due dinastie politiche Clinton e Obama, dietro di loro non si vedono leader alternativi. 
Quindi le colpe della dinastia Clinton, e sono molte, non possono assolvere l’attuale presidente: le elezioni di martedi scorso sono state un referendum sui suoi otto anni di governo assai più che su Hillary. E il bilancio che Obama lascia agli americani non è entusiasmante. Come questo giornale ha scritto infinite volte, i suoi molti meriti non possono nascondere i problemi che lascia al successore. Sostanzialmente, l’immenso capitale politico del 2008 è stato investito interamente su una riforma sanitaria a base privatistica, che ha razionalizzato ma non intaccato, anzi aumentato, il potere delle assicurazioni private e delle lobby farmaceutiche. 
Molte sono le cose che Obama non ha potuto fare per l’ostruzionismo repubblicano, dalle infrastrutture bisognose di intervento alla transizione a un’economia più verde, molte sono state fatte usando dei poteri della presidenza, dalla parziale chiusura di Guantanamo agli accordi con Iran e Cuba, ma per l’Americano delle aree rurali che ha votato Trump il bilancio è modesto, se non negativo. 
La perdita di consensi in Ohio, in Michigan e in Wisconsin non è dovuta solo alla propaganda dei repubblicani o alla xenofobia e al razzismo dei bianchi senza educazione universitaria: è il frutto del sentimento di abbandono di larghe fasce di popolazione che non hanno beneficiato della globalizzazione che ha portato ad aprire un ristorante di sushi in ogni isolato a San Francisco o a New York. Chi vive a Youngstown, un tempo città operaia e bastione del partito democratico, in realtà trae vantaggio dai bassi prezzi dei supermercati Wal-mart, zeppi di prodotti cinesi, ma questo è molto meno politicamente comprensibile di quanto non sia la perdita di posti di lavoro creata dalla globalizzazione. 
La crisi del partito, quindi, è una crisi che viene da lontano, dalla perdita di parte delle sue basi sociali, inevitabile corollario dell’accettazione delle politiche neoliberiste che hanno avvantaggiato alcuni e svantaggiato altri, in una frattura che è prima di tutto geografica tra città e campagne, tra America costiera e praterie. Obama, con il suo carisma,la sua intelligenza, la sua retorica, ha mascherato una crisi dei democratici che viene da lontano, dalle scelte di subalternità alle politiche di Wall Street e del Fondo Monetario. Obama ha fatto credere al mondo, e a metà degli americani, che il partito democratico fosse il partito della pace e del benessere ma non era così e queste elezioni sono semplicemente state la ratifica della fine di un’illusione.

Sanders: «Triste ma non sorpreso»
Manifesto 13.11.2016, 9:18

“Questa elezione segnerà la fine dell’austerità globale” 

Gli analisti: Trump punta a stimolare la crescita per poi tagliare il debito 
Paolo Mastrolilli  Busiarda 14 11 2016
I dettagli del programma economico di Donald Trump sono ancora sfumati, ma un fatto ormai dovrebbe essere certo: la sua elezione segnerà la fine dell’austerità globale, come prevedono diversi analisti. Lui infatti punta a stimolare la crescita per alimentare la ripresa, usandola in seguito anche per ridurre il debito. Uno scarto rispetto all’ortodossia del Partito repubblicano, in genere fedele alla responsabilità fiscale, che potrebbe preannunciare scelte autonome del nuovo presidente anche in altri campi, non essendo legato ad una dottrina ideologica precisa.
A indicare questa strada è stato Anthony Scaramucci, fondatore della compagnia di investimenti SkyBridge Capital, e consigliere economico di Trump appena promosso nel comitato esecutivo del suo transition team. In un articolo per il Financial Times Scaramucci ha scritto: «Trump è un tipo di leader differente, non condizionato da una rigida ideologia. Non è dogmatico riguardo le posizioni politiche. Piuttosto, ha stabilito obiettivi ambiziosi da cui cominciare i negoziati».
Sul piano economico questi obiettivi si riassumono nello stimolo della crescita, attraverso un piano da mille miliardi di dollari per ricostruire le infrastrutture, la riforma del sistema fiscale, la revisione dei trattati internazionali sul commercio, e la pressione sulle multinazionali affinché smettano di esportare posti di lavoro. Il primo punto prevede una combinazione di stimoli statali e investimenti privati, generati attraverso le agevolazioni fiscali. Il secondo conta di ridurre l’aliquota per le imprese dal 30 al 20 o al 15%, cosa che secondo i calcoli di Trump vale da sola un 3% in più di Pil. Attraverso la riforma, il nuovo presidente vorrebbe anche spingere le aziende che hanno circa duemila miliardi di dollari parcheggiati all’estero a riportarli in patria. Poi i tagli alle tasse scenderanno anche verso le famiglie, alimentando i consumi. Il terzo punto non significa l’inizio di guerre commerciali e tariffe, ma di sicuro una revisione di sistemi come il Nafta e la Wto. Il quarto, più che su azioni coercitive, conta sul fatto che le condizioni per le imprese negli Usa miglioreranno al punto da non rendere più conveniente o necessaria l’esportazione del lavoro, anche con la cancellazione di Obamacare. La Fed poi è nel mirino, con Trump che prima elogiava i tassi bassi, ma ora ha preso a criticarli. 
Tutto ciò dovrebbe alimentare la crescita e l’inflazione, producendo un aumento del gettito fiscale abbastanza significativo da poter poi ridurre anche il debito. Il contrario, grosso modo, di quanto ha sostenuto finora nella Ue la cancelliera tedesca Merkel, nonostante le sollecitazioni ricevute dalla stessa amministrazione Obama, e da altri governi europei come quello italiano, per abbandonare l’austerità e puntare sull’espansione. 
Questa linea, benedetta anche dall’ex consigliere di Reagan Arthur Laffer, nasce dal fatto che Trump non è un leader ideologico, non ha dogmi o una dottrina da seguire, e non ha debiti di riconoscenza verso il Partito, come ha scritto Scaramucci. Dunque nell’economia, come nel resto, farà solo quello che riterrà utile per il successo della sua presidenza, anche se dovesse andare nella direzione opposta da quella preferita dai repubblicani. 
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Il ritorno di Giuliani “La nostra vittoria tutto merito di Obama” 

“La gente ha votato pensando alla sua riforma sanitaria Conflitti d’interesse di Donald? Serve separazione chiara” 
George Stephanopoulos*  Busiarda 14 11 2016
È uno dei migliori consiglieri di Trump, Rudy Giuliani. Sindaco, quindi è vero? Vuole essere Segretario di Stato?
«Qualsiasi cosa io voglia, ne parlerò con il presidente, perché è il modo migliore di comportarsi per non alimentare altre chiacchiere. È un affare tra me e lui, ma sarò felice di rispondere a ogni altra domanda». 
Lei è stato nominato anche come possibile procuratore generale. È giusto dire che lei vorrebbe essere al servizio del presidente Trump?
«Ripeto, mi piacerebbe parlarne con lui. Sono molto soddisfatto del mio studio legale e della mia agenzia di sicurezza. Lavoro in tutto il mondo. Ho una vita molto, molto piena. Quindi dovrebbe essere un incarico per il quale so che lui ha davvero bisogno di me. Non dico che dovrei essere l’unico in grado di farlo, ma che io possa fare la differenza». 
E ora continuiamo con le altre promesse elettorali. Il presidente eletto Trump non ha escluso di nominare un procuratore speciale per Hillary Clinton, ma anche ha detto di avere altre priorità. Pensa che sia una buona idea insistere ancora su questo tema?
«È una domanda difficile. Come avvocato odio usare l’espressione “da una parte è così, ma dall’altra”. Da un lato, non vuoi dividere la nazione con quella che potrebbe apparire come un procedimento legale mosso dalla vendetta. Dall’altro, vuoi che la legge sia uguale per tutti, e se lei l’avesse violata… Sapete che l’Fbi non ha mai completato l’indagine sulla sua Fondazione. Da quel che so, è ancora un’indagine in corso. Hanno concluso l’indagine sulle e-mail, ma non quella sulla Fondazione. Immagino che il prossimo procuratore generale dovrà risolvere la questione. Non so se sarò io o no, ma il prossimo dovrà risolvere la questione. La mia è una supposizione, non un giudizio definitivo, ma penso che un incarico del genere debba essere affidato a un consulente indipendente. Non dovrebbe farlo qualcuno nominato dal nuovo presidente». 
Clinton ha detto che avrebbe vinto le elezioni se non fosse stato per l’interferenza di James Comey, il direttore dell’Fbi. Che cosa ne dice?
«In realtà credo sia stato per l’Obamacare, la riforma sanitaria. Ma il motivo per cui si sono vinte o perse le elezioni è buon tema per i libri che saranno scritti tra vent’anni. Ho fatte parte della campagna di Trump, e in testa a tutti i suoi discorsi delle ultime due o tre settimane di campagna non c’era l’Fbi, ma l’Obamacare. Questo mi sembra abbia mosso i voti in Michigan, Pennsylvania, Wisconsin. Siamo stati capaci di portare gli stati dal blu al rosso, stati che non erano rossi dalla vittoria di Ronald Reagan». 
Clinton ha vinto il voto popolare, e in questi tre stati che lei ha appena nominato i candidati hanno una differenza di circa 112 mila voti. Con questo risultato che tipo di mandato si trova ad affrontare Trump?
«Lo stesso. Che tu abbia molti o pochi voti di vantaggio, se sei stato eletto presidente degli Stati Uniti ti devi comportare come il presidente degli Stati Uniti. Tu sei il responsabile, tu devi tenere l’agenda. Così si governa un Paese: la Costituzione degli Stati Uniti non cambia i poteri del presidente in base al numero di voti con cui si fa eleggere».
Abbiamo visto molta rabbia per le strade, con manifestazioni ogni sera. All’inizio della settimana avete chiamato i manifestanti piagnoni, ma c’è stata un’ondata di incidenti e scontri razziali in tutto il Paese. Che cosa dovrebbe fare il presidente per tenere la situazione sotto controllo?
«Penso che se il popolo di Donald Trump si fosse comportato in questo modo dopo la vittoria di Clinton ci sarebbe molta più rabbia nei mezzi di comunicazione per chi protesta contro un’elezione legittima. Detto questo, capiamo la loro frustrazione e non vogliamo certo peggiorare la situazione. Penso che stiano ingigantendo la paura per una presidenza di Trump perché arrivano da una campagna dove sono stati molto delusi. Come sarebbero stati delusi i nostri sostenitori se Donald Trump non avesse vinto. Spero solo che la situazioni si calmi. Ora stiamo scivolando verso la violenza, e io ho tolleranza zero per le sommosse. Sapete che ho preso in carico una città che ha avuto due rivolte in quattro anni, io non ne ho avuta nessuna. Sapevano che con me non avrebbero potuto farlo. E quando ho visto la gente in strada a New York, mi sono detto: state infrangendo le regole di Giuliani. Non prenderete le mie strade. Potete avere i miei marciapiedi, ma non le strade perché ci devono passare ambulanze e vigili del fuoco. Quando le strade di New York si riempiono di manifestanti, la gente muore. Si può manifestare benissimo sui marciapiedi. Chiederei ai manifestanti di rispettare la democrazia. So che sia il Segretario Clinton che il presidente Obama sono stati molto morbidi, e rispetto molto il modo in cui hanno gestito il giorno dopo, ma spero che anche loro diranno qualcosa a proposito. Perché dopo tutto, queste persone sono sostenitori del presidente Obama e di Hillary Clinton».
Il presidente Obama l’ha detto. Ha detto che tutti dovrebbero tifare per il successo del presidente eletto Trump. Che dire di quei sostenitori di Trump là fuori, colpevoli di intimidazioni razziali nei confronti di studenti? Non crede che Trump abbia la responsabilità di dire qualcosa a questo proposito?
«Un paio di giorni fa mi hanno visto mentre ero in macchina e hanno iniziato a battere, a dare pugni sulla mia auto. Io non sono sicuro che questi siano sostenitori di Clinton e Obama. Credo che queste persone siano una specie di manifestanti professionisti...».
Tutti i manifestanti in tutte le città sono professionisti?
«Sì, non sembrano tutte persone che hanno studiato con attenzione scienze politiche e sono rimaste sconvolte dall’ideologia di queste elezioni».
L’ultima domanda. Cosa pensa che il presidente eletto Trump dovrebbe fare per assicurare agli americani che non ci sarà una commistione tra i suoi doveri governativi e i suoi interessi commerciali, in considerazione che saranno i suoi figli a portarli avanti?
«Il mio consiglio è che una volta entrato in carica ci dovrebbe essere una separazione, un blind trust. Come Brian ha sottolineato, è differente nel caso di un presidente. Loro hanno molto più margine di manovra. Ma credo che per il bene del Paese e per il fatto che la questione non deve saltare fuori ogni volta che viene presa una decisione, lui dovrebbe di base tenersi fuori e essere solo un osservatore passivo, nel senso che non dovrebbe prendere nessuna decisione e non avere nessun coinvolgimento».
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Tra gli ex operai di Detroit che hanno tradito Hillary 

L’ex cuore industriale d’America si è affidato al tycoon repubblicano che prometteva di ridare lavoro e futuro alle tute blu ormai disoccupate 
Gianni Riotta  Busiarda 14 11 2016
I coloni francesi scacciarono gli indiani Irochesi da antiche valli, fiumi e laghi, avidi di pellicce e territorio, imponendo la pronuncia allo stato del Michigan, «sh» dolce. La metropoli di Detroit la battezzarono dal fiume Detroit, «le détroit du lac Érié» lo stretto sul lago Erie, e se l’inflessione parigina del XVII secolo fosse arrivata fino a noi, Eminem e gli altri rapper bianchi e neri, lamenterebbero rauchi il declino urbano di «Detruà». Troppo chic per gli emigranti polacchi, italiani, ungheresi, belgi, greci, ebrei, fino agli Yugos e Albos, rivali jugoslavi e albanesi arrivati per ultimi, in cerca di un posto di lavoro alle catena di montaggio dell’auto.
Eminem canta dunque di «Detroit contro tutti… Negli ultimi tempi sembra che sia io contro tutto il mondo… ma anche se cerco di scappare dalla povertà della strada voglio restare qui… portatemi via con gli amici, alla concessionaria Mercedes». Eminem lavava i piatti da Gilbert’s Lodge, vedeva nel viale 8 Mile Road il confine tra borghesia e «white trash», la spazzatura bianca, cui apparteneva, le famiglie travolte dalla crisi della grande industria. Questa è Macomb County, e qui Hillary ha perso le elezioni contro Donald Trump. Non cercate lontano, cercate qui, Michigan, pronunciato in americano dai tanti, come Eminem, che alla prima superiore, bocciati tre volte, lasciano la scuola per sempre.
A Macomb County, l’8 novembre 1960, il cattolico John Kennedy ebbe la migliore percentuale in tutta l’America contro il repubblicano Nixon, 63% a 37. Qui Obama vinse contro McCain e Romney e qui, la campagna di Hillary era certa di vincere, nessuno spot in tv, nessun comizio. Invece il 6 novembre, nello stupore dei suoi consiglieri che giudicavano il Michigan una causa persa, Donald Trump appare a sorpresa al Teatro Freedom Hall di Sterling Heights. A rivederlo da fuori adesso, vuoto, con il prato stento, qualche cartaccia in volo, un cestino colmo di spazzatura, sembra il monumento alla delusione democratica. Joey, uno dei guardiani, è anziano, vota democratico, «Stavo nel sindacato con mio padre, United Auto Worker. Facemmo lo sciopero per il “30 and out”, 30 anni alla catena di montaggio e in pensione, vincemmo e che bei soldi ragazzi, mutua, scuola, assunzione per i figli. Venivano da tutto il mondo, noi neri dal Sud. Al comizio di Trump vendevamo chili, la birra era vietata, ma girava lo stesso. Ha gridato che non era finita, che le vinceva lui le elezioni. Non ci credevo, ma ha avuto ragione. In sala ho visto tanti miei vecchi compagni, e i loro figli disoccupati».
Quel che Joey osserva, esterrefatto, al comizio di Sterling Heights, allarmava già da tempo Debbie Dingell, deputata del XII distretto dove lavora la Ford-Mazda ma la GM ha chiuso una fabbrica e la città di Allen Park è in bancarotta. La Dingell si attacca al telefono, prova con Hillary, chiama anche Bill Clinton. Ha 28 anni meno del marito, John Dingell, che eletto nel XII distretto nel 1955 è recordman della Camera. Lui ricorda la Detroit che dai 426.000 abitanti del 1900 esplode a 2.200.000 in trenta anni. Lei è cresciuta nella Detroit che da 1.800.000 cittadini del 1950 crolla a 713.000 del 2010. Il Michigan ha perso tra il 2002 e il 2009 631.000 posti di lavoro, poco meno dell’intera Detroit. La Dingell prega la campagna di Washington di mandare Hillary, Bill, Obama, la Michelle, «Siamo alle corde, gli operai non ci votano dicevo. Non mi rispondevano. Alla fine han mandato Bill, siamo andati in giro a fare compere per incontrare gli elettori, troppo poco e troppo tardi!».
Tanti tra quei 631.000 licenziati corrono da Trump, che accusa Hillary di essere il passato, e promette il ritorno dei tempi del «30 and out», salario, mutua, pensione. 56 anni dopo il record di Kennedy, Trump espugna Macomb County, 54% a 42 contro la Clinton. 48.348 voti che gli consegnano l’intero Michigan, per sole 13.107 schede di scarto.
Non c’è stato nessun boom di Trump alle urne martedì scorso, Hillary è la seconda candidata più votata della storia, e solo 33.000 voti, in roulette fra Michigan, Wisconsin e Pennsylvania, hanno dato la Casa Bianca all’ex re dei casino di Atlantic City. Hillary ha perso dove Eminem lavava i piatti perché ha cercato la «valanga», vincere ovunque, anziché consolidare con prudenza i 263 punti elettorali che a lungo ha avuto in tasca.
Ora tutti andiamo in pellegrinaggio dall’esperto professor Timothy Bledsoe, dell’Università Wayne State: «Ho il sospetto che il caso Macomb sia vero in tutto il Midwest. È la rivolta della classe operaia bianca, base della coalizione democratica da generazioni… al comizio di Sterling Heights Trump ha spiegato che la Gran Bretagna torna ricca con Brexit e l’America con lui, che le tute blu sono vittime della globalizzazione e lui rovescerà il sistema per loro».
Eppure, nella rotta democratica, proprio in Michigan, a Detroit, il professor Bledsoe vede la base della riscossa democratica 2020: primi nel voto popolare, con 48 stati a 2 nel voto under 25, i democratici «devono guardare a contee come Oakland e Wayne, dove han vinto col 51% e il 66%. Macomb e le tute blu sono il passato, all’ultima carica pur vincente. A Oakland e Wayne c’è il futuro dell’America, donne, laureati, tecnici, cultura cosmopolita». Se Bledsoe ha ragione, la campagna elettorale 2020 comincia dunque a 12 Mile Road di Royal Oak, dove ammirate la massiccia torre e la basilica cattolica di Little Flower. Qui, negli Anni Trenta, dalla sua radio, il popolarissimo reverendo Coughlin avvelenava gli animi con una propaganda che anticipava i temi peggiori di Trump, «Non barattiamo la nostra libertà nazionale per accordi con gli stranieri che ci imbrogliano. Chiudiamoci al mondo e pensiamo alla ricchezza americana!». Padre Coughlin finì antisemita e filofascista, l’America di Roosevelt prevalse. Oggi sulla basilica del Little Flower sventolano i manifesti col sorriso di papa Francesco, a Royal Oak e alla vicina Ferndale vivono gay, single, tecnici esperti che lavorano alla fabbrica di carri armati M1, al sofisticato Tech Center della GM, disegnato dal maestro dell’architettura Eero Saarinen. La rabbia di padre Coughlin fu spenta dalle masse ottimiste del New Deal di Roosevelt e l’America si salvò da Depressione e dittature che travolsero l’Europa. Due Americhe, i delusi di Macomb e gli ottimisti digitali di Oakland, si affronteranno da qui al 2020. Ma primi diminuiscono ogni giorno, gli altri si moltiplicano, a patto naturalmente che i democratici trovino un candidato capace di unirli. E qui, vale la rima di Eminem, sono davvero per ora «soli contro tutti».



Scusaci mondo se abbiamo combinato questo pasticcio 

Dovremmo essere i soli a pagarne le conseguenze ma non sarà così. Ci aspettano anni di barbarie 
Bret Anthony Johnston  Busiarda 14 11 2016
Caro mondo,
ti chiedo scusa. Mi dispiace per quello che è accaduto e per quello che sta per accadere. Non ti meriti la sfrenata barbarie degli anni a venire. Se qualcuno se la è meritata, siamo noi. Siamo stati noi a combinare questo pasticcio e dovremmo essere i soli a pagarne le conseguenze. Ma nella notte elettorale, insieme a tante altre cose, anche la parola «dovremmo» ha perso senso. 
Chiedo scusa perché l’America si è immersa talmente nei reality della tv e nei social media da rendere inevitabile il successo elettorale di uno dei protagonisti di maggior successo di quel mondo. Trump è abituato a competere per l’audience e i retweet, e per buona parte del decennio passato i suoi concorrenti maggiori sono stati i Kardashian, di certo avversari formidabili. Per emergere in una palude virtuale di narcisisti ha utilizzato la strategia dell’aggressività, della volgarità e della provocazione sfacciata, ed è stato premiato dalla memoria corta e dal deficit di attenzione degli americani.
(Visto che ho menzionato i Kardashian, vorrei essere il primo a fare l’endorsement di Kim per la presidenza. Con la sua ricchezza, le orde di seguaci e il suo impero di reality tv, con le sue chiacchiere sul sesso e lo sfoggio scaltro delle griffe, e con la sua carenza di esperienza politica, mi sembra perfetta come prima donna presidente del nostro Paese. E forse, intanto che si candiderà, tutto questo confuso sistema di collegi elettorali verrà fortunatamente superato e potremo eleggere il leader del mondo libero con un comodo e maneggevole sistema di «mi piace»).
Chiedo scusa per quello che la presidenza Trump significa per persone di colore, per i membri della comunità Lgbt, per i non cristiani, i laureati, i veterani e i coscritti, gli anziani, i malati e i bambini, l’ambiente e gli animali, i disabili, il sistema giudiziario e la stampa libera, i poco istruiti, i poveri e le donne, soprattutto le donne.
Chiedo scusa perché uno dei miei primi pensieri poco prima dell’annuncio del risultato elettorale è stato quello di essere contento di non avere figli. 
Chiedo scusa perché non me la sento più di combattere. Mi piacerebbe pensare che sia una straordinaria sfortuna, una sorta di anomalia, un tragico incidente. Ma non mi sento ingannato, mi sento semmai di aver sbagliato. Quello in cui credevo è stato clamorosamente rifiutato, e dopo aver ripercorso la logica che ci ha condotti fin qui non ho altra scelta se non riconoscere la sconfitta. I valori di questo Paese non sono i miei. È una scoperta sconvolgente, ma il suo peso innegabile, la sacra forza della verità con cui si presenta me la fanno accettare senza discutere, senza amarezza e risentimento. Rimarrò a vivere in America, ma non facciamoci illusioni, vivrò in esilio. 
Mi dispiace perché la vita sta per diventare molto, molto difficile, ma perlomeno l’arte diventerà più bella. Se ci sarà una luce a squarciare il buio che incombe imminente, sarà l’illuminazione dell’immaginazione. Sarà l’atto profondo di portare una testimonianza. I peggiori periodi della storia hanno di solito prodotto dipinti, poemi e canzoni che sono sopravvissuti alle lotte che li hanno generati. 
Mi dispiace che la grande arte non basterà per tutti noi. Né basteranno la rabbia, la protesta, l’empatia, la passione e l’unità: saranno dei palliativi, ma non la cura. Perché? Perché non c’è una malattia. Trump non è qualcosa che dobbiamo espellere dal nostro sistema. Lui è il sistema, e la sua elezione è il primo passo verso l’eliminazione di quello che non serve al sistema: me, voi, noi. Siamo noi il cancro, siamo noi i terroristi, siamo noi quelli radicalizzati ed emarginati. 
Se c’è un vantaggio è quello che la nostra morte sarà rapida. Abbiamo tratto consolazione dalla lotta che abbiamo condotto, e dalle non irrilevanti vittorie che abbiamo conseguito. Seguiamo l’esempio pieno di grazia di Hillary, e arrendiamoci con integrità, con coraggio, con l’indiscutibile consapevolezza che non avevamo nessuna possibilità di vincere. Issiamo la nostra bandiera messa al contrario. Osserviamo bruciare le nostre città e scaldiamoci le mani sulle ceneri della Costituzione. Abbattiamo i nostri monumenti per fare spazio ad alberghi giganteschi. Postiamo qualunque cosa su Facebook e Twitter. Bombardiamo questi, quelli e quegli altri. Denunciamo per calunnia, danno e discriminazione. Rendiamo l’America di nuovo stupratrice. 
Chiedo scusa se qualcosa di quello che ho detto vi suona offensivo. Ma mi dispiacerebbe ancora di più se non fosse così. Criticatemi. Licenziatemi. Prosciugate la mia palude narcisista e buttatemi fuori. Ma mettiamo in chiaro una cosa: nonostante tutto, io resto con lei. E per «lei» intendo ovviamente Kim Kardashian.
[Traduzione di Anna Zafesova]
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Cari democratici è l’arroganza che vi ha fatto perdere 

Adesso per i liberal l’esilio rischia di essere lungo Ma forse per loro non sarà una cosa negativa 
Stephen L. Carter  Busiarda 14 11 2016
Siamo franchi. Dopo l’esplosione elettorale di questa settimana, per il liberalismo si preparano anni nel deserto. Non è solo che il presidente eletto è Donald Trump. È che un partito democratico che non più tardi di lunedì pensava di aver forgiato una coalizione elettorale sufficientemente solida da durare per decenni ora si trova nel caos.
Nel 2018 il partito dovrà difendere un numero stupefacente di seggi, 25 nel caucus per il Senato, molti dei quali in Stati conquistati da Trump. «Sarà un disastro», ha detto uno stratega democratico - e questo ancora quando la gente pensava che Hillary Clinton fosse la favorita. I repubblicani controllano una cifra record di 69 organi legislativi statali su 99 e avranno almeno 33 governatorati, il numero più alto dal 1922. In breve, l’esilio dei democratici rischia di essere lungo.
Forse non è una cosa negativa - non se si usa in modo corretto questo periodo di esilio dal potere. Sì, la campagna elettorale di Trump è stata spesso sgradevole. Sì, io sono tra quelli preoccupati per la sua imprevedibilità. Ma la sinistra ha del lavoro da fare, non solo sulla politica e sull’organizzazione, ma anche sull’atteggiamento. Troppi anche tra i miei amici progressisti sembrano aver dimenticato come argomentare in modo puntuale, e sono invece diventati esperti di condanna, derisione e scherno. Punto dopo punto sono molto bravi a spiegare il motivo per cui nessuno potrebbe mai avversare le loro posizioni politiche se non per i più vili dei motivi. E quelle stesse posizioni troppo spesso sono enunciate con zelante solennità, quasi suggerendo che i loro punti di vista sono la Sacra Scrittura - e chi dissente dev’essere confinato nelle tenebre, politicamente parlando. In breve, la sinistra è stata ultimamente ricolma di arroganza, e la hybris nella letteratura classica preannuncia sempre una caduta.
I miei amici di sinistra hanno via via preso ad assomigliare un po’ troppo ai miei amici di destra, e anche il partito repubblicano di tanto in tanto ha ricevuto ben meritati calci nel sedere. Ma è il liberalismo che si è pensato a torto vincente, mentre i conservatori si sono ritrovati lottando per un’identità.
Perché dico che l’esilio nel deserto farà bene ai democratici? Clinton in effetti non ha perso molto, e probabilmente ha vinto il voto popolare. Eppure la diga blu è stata travolta. I democratici dovrebbero interrogarsi seriamente sul perché.
Suggerisco spesso ai miei studenti che il liberalismo nella sua esemplificazione politica, con tutto il suo fascino, è una teoria così potente che probabilmente funziona meglio all’opposizione che al governo. Il liberalismo moderno è diventato ciò che i filosofi liberal ancora poco tempo fa avrebbero deriso come una «visione globale» - una teoria che crede di poter rendere conto di come dovrebbe operare ogni istituzione della società, e persino, ahimè, di come dovrebbero pensarla le singole persone.
Quello che mi auguro che i democratici possano imparare da questa sconfitta non è che il popolo americano è irrimediabilmente razzista, o che, come ho sentito qualcuno dire, tutto quello che si deve fare è aspettare qualche anno finché non moriranno milioni di cittadini anziani che votano repubblicano. Spero che non passino molto tempo borbottando sugli Stati Uniti che dovrebbero essere classificati come Stato fallito o sul sistema da cambiare perché gli elettori sono troppo stupidi per dare loro fiducia. Mi auguro che non incolpino il loro candidato, perché troppo centrista, spostandosi ancora più a sinistra.
Quello che mi auguro invece è che i liberal di oggi riscoprano le virtù del liberalismo vincente dagli Anni Cinquanta agli Anni Settanta che i democratici sembrano voler emulare. Queste virtù includevano tolleranza per il dissenso, uno sforzo per evitare di ridurre problemi seri a ricerche dell’applauso facile e fondamentalmente un atteggiamento di umiltà nel governare. Questo non significa che i liberal vecchio stile non credessero, sinceramente, di avere ragione. Ma accettavano che la loro nazione fosse un luogo diverso, che gli avversari avessero il diritto di dire la loro, che il governo non dovesse cercare di fare tutto in una volta, e che la politica dovesse perseguire la linea di un lavoro condiviso.
La lezione per i liberal è che devono di nuovo fare sul serio. L’impronta che contraddistingue una democrazia sana è la preferenza per gli argomenti piuttosto che per le invettive. Queste sono le radici che la sinistra deve ritrovare. È vero, viviamo in un’epoca in cui un dibattito serio non è molto apprezzato. Forse un partito democratico lontano dal potere per qualche anno riuscirà a trovare la via del ritorno, ricordando a tutti noi come si fa.



“Renzi ha iniziato il rodeo ma ora lavoriamo per ridurre le distanze” 

Cuperlo: i miei dubbi sono più utili delle certezze di D’Alema 
Francesca Schianchi  Busiarda 14 11 2016
In «un estremo tentativo di ridurre le distanze», poco più di una settimana fa Gianni Cuperlo ha firmato il documento che impegna il Pd a cambiare la legge elettorale. Unico della minoranza a farlo e quindi a votare sì al referendum, oggi chiede uno sforzo di unità prima di tutti al segretario-premier Matteo Renzi: sbaglia, ammonisce, a credere «che l’autorevolezza del leader passi dalla divisione del suo Paese e del suo campo».
In questi giorni ha ricevuto più insulti o incoraggiamenti?
«Ho sofferto quella firma al documento. Sapevo che persone che stimo l’avrebbero criticata o avversata. Ho ricevuto parecchi sostegni, ma ti spiace l’incomprensione con chi ha condiviso le tue battaglie e senti vicino. Ho pensato al giorno dopo e al dovere di un estremo tentativo per ridurre le distanze almeno sulla legge elettorale e l’elezione dei senatori».
D’Alema dice, riferito a lei, che «bisognerebbe stabilire limiti all’ingenuità»...
«Ah, si riferiva a me? Ingenuamente ho pensato fosse un’autocritica. Comunque continuo a pensare che i dubbi aiutano più delle certezze». 
I rapporti nel Pd sono tesi, «un rodeo», ha detto lei: cosa si deve fare per recuperare unità?
«Il punto è che quel rodeo lo ha iniziato il premier. L’unità del Pd e della sinistra non è un totem o un atto di fede: conta su cosa e come la costruisci. Ma serve la volontà di raggiungerla quell’unità. Io non ho mai pensato che cambiare l’Italicum o eleggere direttamente i senatori fosse una concessione alle minoranze ma la via per istituzioni un po’ più solide. E anche il modo per ridare ossigeno a un centrosinistra più largo di noi. Perché questo dovrebbe esser chiaro a tutti: il Pd da solo non vince, ma senza il Pd a non vincere è la sinistra».
Quindi chi sbaglia è Renzi ?
«L’errore più grande è nell’idea che l’autorevolezza del leader passi dalla divisione del suo Paese e del suo campo. Passare dalla rottamazione spinta alla divisione del mondo tra innovatori e conservatori, amici e nemici, prima che una caricatura è un abbaglio». 
Bersani che chiede in una lettera a Repubblica una «riflessione collettiva» tenta il dialogo o certifica la distanza?
«Ho apprezzato il tono. Come Bersani penso che il problema sia un’onda potente che da destra si abbatte sulle nostre democrazie. Dobbiamo vederla e attrezzare una nuova sinistra a reagire. La premessa per farlo è anche nel cogliere la quota di verità nelle ragioni dell’altro».
Si può stare in un partito senza fidarsi del segretario?
«In un partito non si sta perché ci si fida ma perché si è convinti che quella forza sia necessaria per affrontare i problemi».
C’è il rischio di una scissione?
«Tempo fa ho detto che il Pd per me non era un destino ma una scelta da rinnovare e far crescere. Se alzo lo sguardo sul mondo temo il fallimento di questo progetto perché ricadrebbe su tutto il centrosinistra. Mi batto per evitarlo, ma è una sfida che non si vince in pochi. E la premessa è un Pd ancorato a sinistra».
Il referendum è legato alle sorti del governo o no?
«E’ stata una miopia del governo caricarsi una funzione che doveva essere del Parlamento. Con altri lo abbiamo gridato con proposte nel merito. Renzi ha detto che in caso di sconfitta lascerà Palazzo Chigi: direi che farlo è nelle sue corde».
Se vince il sì, come dice D’Alema, nasce il partito di Renzi?
«Mi sono sempre battuto contro l’idea di un partito piegato al volere di un capo. E il tema del troppo potere in una figura sola rimane. Al congresso sarà in campo un’alternativa a Renzi e a quella sua impostazione che mi ha portato a non votare jobs act, buona scuola e fiducia sull’Italicum. La coerenza non si chiede, si pratica».
Come giudica l’iniziativa della lettera spedita agli italiani all’estero?
«Se è vero che si tratta di una iniziativa del Pd e che altri in passato hanno fatto lo stesso, non vedo il problema. Se si fossero violate delle regole sarebbe giusto renderne conto». 
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Tramonta il dogma austerità 

Stefano Lepri   Busiarda 14 11 2016
La vittoria di Donald Trump pone fine alla dottrina che l’austerità fa bene. Ma se davvero avremo negli Usa forti sgravi fiscali e più spesa pubblica per investimenti, quali possano essere gli effetti sull’Europa e sul mondo nessuno può prevederlo. 
Una spinta alla crescita anche per noi, oppure tassi di interesse più alti e instabilità finanziaria? O anche, prima l’una e poi l’altra?
Disponiamo, per scrutare nel futuro, solo di ipotesi ispirate da ideologie contrapposte. Sempre che il nuovo Presidente lasci cadere le parti più distruttive del suo programma, come le tariffe sull’import, giorno per giorno dovremo misurare quanto l’aumento del deficit pubblico americano spingerà al rialzo i tassi di interesse del pianeta, contro ad una tendenza che da vent’anni e più li vede calare.
La scelta di spendere di più per «strade, ponti, gallerie, aeroporti, scuole, ospedali», se mantenuta, imporrà una giravolta alla maggioranza repubblicana del parlamento statunitense (sarà divertente ascoltarne le acrobazie retoriche). Fino a ieri, quando le stesse spese le chiedeva Barack Obama, ribattevano che lo Stato quasi sempre spreca e che il debito pubblico è pericoloso.
Conforme alla tradizione della destra americana sarà invece la riduzione delle imposte sui redditi specie dei più ricchi, e sui redditi delle società. Di questo tipo di misure l’economia Usa oggi ha scarso bisogno, perché i profitti delle aziende sono già elevati e stentano invece a tradursi in investimenti. Il costo per lo Stato sarà alto, l’effetto espansivo probabilmente modesto.
Sarà comunque una svolta per il mondo. Oltre sei anni fa, al G-20 di Toronto, si era deciso di chiudere con le misure anticrisi a carico degli Stati per prevenire ulteriori aumenti dei debiti pubblici; si sperava che le forze dell’iniziativa privata riportassero verso una crescita vigorosa. Non è stato così, nemmeno con l’aiuto dell’espansione monetaria offerta dalle banche centrali.
Non è chiaro tuttavia quale ulteriore spinta si possa imprimere all’economia americana, già in crescita attorno al 2%, con disoccupati sotto il 5%. Che si possa raddoppiarne il tasso di espansione, come Trump promette, nessuno studioso serio lo crede. La divergenza è tra chi crede che si possa fare poco o nulla e chi ritiene che margini di miglioramento esistano.
A giudizio dei primi, risalita dei prezzi e dei tassi di interesse saranno rapidi; l’Europa potrebbe risentire presto di queste ricadute negative senza aver avuto tempo di beneficiare dell’impulso positivo. A giudizio dei secondi, la risalita dell’inflazione sarà più lenta e forze di fondo frenano i tassi di interesse; l’Europa anzi farebbe bene ad adottare anch’essa misure di tipo espansivo.
Di fronte al grande interrogativo sulle politiche della nuova Casa Bianca l’area euro appare stretta in un paradosso. Proprio la Germania, da cui Angela Merkel esalta i valori di libertà dell’Occidente di fronte a Trump che sembra non comprenderli, nega che esistano strumenti di pronta efficacia per creare lavoro e accelerare la ripresa. O cambierà qualcosa?
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La Nato La Ue col fiato sospeso “L’alleanza con gli Usa si basi sui nostri valori”
Primo vertice dei ministri degli Esteri dopo il voto pro Trump. Altolà di Mogherini “Rapporti stretti ma nel rispetto dei principi europei”ANDREA BONANNI NATO UCRAINA SIRIA IRAN Rep 14 11 2016
BRUXELLES. «L’Europa non deve essere preoccupata per l’elezione di Trump», dice il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni al termine di una cena informale, convocata dall’Alto rappresentante Ue Federica Mogherini, in cui con i colleghi ha discusso i risultati delle presidenziali americane. Ma l’incontro, cui non hanno partecipato per evidente dissenso il ministro britannico e ungherese, e per precedenti impegni quello francese e irlandese, è nato proprio dalla preoccupazione che serpeggia tra le diplomazie europee. E che oggi sarà al centro di un consiglio formale cui partecipano anche i ministri della Difesa per esaminare i piani di Mogherini per un rafforzamento della cooperazione militare europea. Preoccupazione che traspare anche dalle dichiarazioni del segretario generale della Nato Stoltemberg, secondo cui «andare da soli non è un’opzione, né per l’Europa né per gli Stati Uniti ». In effetti i punti di possibile divergenza tra Bruxelles e la nuova amministrazione Trump sono numerosi. Anche se alla fine dell’incontro Mogherini ha affermato: «Da qui viene un messaggio forte di amicizia e di partenariato che continua, ma sulla base di principi e interessi europei molto chiari».
Trump ha minacciato di rifiutare l’intervento militare degli Stati Uniti in difesa di un Paese della Nato che non contribuisca adeguatamente allo sforzo comune dell’Alleanza. Non è una polemica nuova. Molti presidenti hanno sollecitato un maggiore impegno degli europei in materia militare. Ma non era mai stata evocata in questi termini, mettendo in discussione il principio dell’intervento automatico in difesa di uno stato membro attaccato. Oggi gli Stati Uniti forniscono quasi il settanta per cento dei finanziamenti e delle capacità militari della Nato. Se si tolgono dal conto anche il Canada, la Turchia, la Norvegia, che non fanno parte della Ue, e la Gran Bretagna, che ne sta uscendo, i 24 Paesi dell’Unione europea che fanno parte dell’Alleanza forniscono, tutti insieme, meno del venti per cento dello sforzo di difesa comune.
Il frutto di questa sperequazione è stata finora una leadership indiscussa degli americani nella gestione della Nato. Leadership che si è tradotta anche nella mancata creazione di una capacità autonoma di difesa della Ue, a cui Washington è sempre stata ostile. Ora che Federica Mogherini, Alto responsabile Ue per la politica estera e di sicurezza, vorrebbe lanciare un processo per creare una vera Difesa europea, i governi dovranno valutare attentamente la sua proposta anche alla luce del possibile «divorzio » in sede Nato con gli Usa di Donald Trump.
Gli europei si sono ritagliati un ruolo di mediatori sulla crisi ucraina. Con il cosiddetto «formato Normandia», Angela Merkel e François Hollande sono riusciti a far sedere allo stesso tavolo il presidente russo Putin e quello ucraino, Poroshenko. I negoziati hanno portato agli accordi di Minsk e a una tregua nei combattimenti tra separatisti ucraini e milizie filo Kiev che ha già fatto almeno diecimila morti. Questo risultato è stato possibile perchè la Ue, nonostante le differenti sensibilità verso Mosca, ha saputo mostrare un fronte unito, votando sanzioni economiche che hanno duramente colpito l’economia russa. Ma anche, e soprattutto, perchè la posizione europea era sostenuta e appoggiata dagli Stati Uniti di Obama, che avevano affidato all’Europa il compito di mediare la crisi.
Ora la nuova amministrazione Trump sembra molto meno ostile nei confronti di Putin e della Russia. E potrebbe essere tentata di riconoscere a Mosca quella «sfera di influenza» sui Paesi limitrofi che il presidente russo reclama da tempo. Ciò potrebbe segnare il destino della Crimea, di fatto già annessa dai russi, e sancire una divisione dell’Ucraina lungo le linee di demarcazione del conflitto congelate dalla tregua. Col risultato che i Paesi dell’Est europeo, e in primo luogo i baltici, tornerebbero a sentire sul collo il fiato della potenza russa.
L’amministrazione Clinton- Obama era nettamente ostile al regime di Assad. Solo le perplessità degli europei avevano dissuaso il presidente americano dal bombardare Damasco, accusata di usare armi chimiche contro i ribelli. L’intervento militare russo in difesa del regime siriano ha salvato Assad ma ha portato ad un inasprimento delle relazioni tra Mosca e Washington. Gli europei, finora, si sono battuti per cercare di arrivare ad una intesa tra russi e americani che concentri l’azione militare contro l’Isis lasciando in sospeso ogni decisione sulla sorte di Assad. Ma se Trump, come alcuni osservatori temono, decidesse di lasciare mano libera ai russi in Siria, gli sforzi di mediazione europei per una soluzione negoziale del conflitto finirebbero nel cassetto delle buone intenzioni.
L’Europa si è molto battuta per arrivare all’accordo sul nucleare iraniano che consentisse di togliere dall’isolamento il regime degli ayatollah. Anche perchè le milizie sciite legate a Teheran svolgono un ruolo cruciale nella lotta contro l’Isis sia in Iraq sia in Siria e l’Iran avrà un ruolo chiave nella sistemazione geopolitica della regione. Anche su questo tavolo, l’amministrazione Obama ha seguito la linea europea. Ma ora Trump potrebbe ribaltare i giochi e, seguendo i suggeriementi del suo amico israeliano Netanyahu e della monarchia saudita, potrebbe chiudere ogni dialogo con Teheran. Per l’Europa sarebbe un’altra grave sconfitta diplomatica.
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«Dove vanno i democratici», è il titolo di un op-ed pubblicato da Bernie Sanders sul New York Times.  Il «socialista del Vermont» si dice triste ma non sorpreso della vittoria di Trump, capace di incanalare una giusta rabbia popolare nei confronto di un mondo iniquo: «Non è uno shock per me che milioni di persone che hanno votato per Trump l’abbiano fatto perché stanche dello status quo economico, politico e dei media».
Sanders si dice anche curioso di vedere cosa farà Trump, puntualizzando che «non ci saranno compromessi su razzismo, atteggiamenti bigotti, xenofobia e sessimo. Li combatteremo in tutte le loro forme, dovunque rispuntino fuori». Ma, aggiunge, «avrò una mente aperta per vedere quali idee Trump avrà da offrire e su quando e come possiamo lavorare insieme. Ha perso il voto popolare a livello nazionale, quindi farebbe bene a tenere in conto il punto di vista dei progressisti. Se il presidente eletto è serio nella ricerca di politiche che migliorino le vite delle famiglie chelavorano, gli offrirò serie opportunità di ottenere il mio sostegno».
Sui democratici, Sanders ritiene che «il partito debba tagliare i suoi legami con l’establishment delle grandi aziende e tornare a essere un partito che rappresenti la base dei lavoratori, degli anziani e dei poveri e aprire all’idealismo dei giovani».


ADDOLORATO, MA NON SORPRESO 

BERNIE SANDERS Rep
MILIONI di americani martedì scorso hanno espresso un voto di protesta, ribellandosi a un sistema economico e sociale che antepone ai loro interessi quelli dei ricchi e delle grandi imprese.
SEGUE A PAGINA 27
HO dato forte appoggio alla campagna elettorale di Hillary Clinton, convinto che fosse giusto votare per lei. Ma Donald J. Trump ha conquistato la Casa Bianca perché la sua campagna ha saputo parlare a una rabbia molto concreta e giustificata, quella di tanti elettori tradizionalmente democratici.
L’esito elettorale mi addolora, ma non mi sorprende. Non mi sconvolge il fatto che milioni di persone abbiano votato Trump perché sono nauseate e stanche dello status quo economico, politico e mediatico.
Le famiglie lavoratrici vedono che i politici si fanno finanziare le campagne da miliardari e dai grandi interessi per poi ignorare i bisogni della gente comune. Da trent’anni a questa parte troppi americani sono stati traditi dai vertici delle aziende. L’orario di lavoro è aumentato e gli stipendi diminuiti, i lavori pagati dignitosamente si spostano in Cina o in Messico. Queste persone sono stufe di avere capi che guadagnano 300 volte più di loro, e che il 52 per cento di tutti i nuovi proventi vada all’un percento della popolazione. Molte delle città rurali, un tempo belle, sono ormai spopolate, i negozi in centro chiusi e i giovani vanno via da casa perché non c’è lavoro — tutto questo mentre tutta la ricchezza delle comunità va a rimpinzare i conti delle grandi imprese nei paradisi fiscali. I lavoratori americani non possono permettersi servizi per l’infanzia decorosi e di buon livello. Troppe famiglie sono in condizioni disperate e sempre più spesso la vita si accorcia per colpa della droga, dell’alcol e dei suicidi.
Trump ha ragione: gli americani vogliono il cambiamento. Ma mi chiedo che tipo di cambiamento gli offrirà. Avrà il coraggio di opporsi ai potenti di questo paese, i responsabili delle difficoltà economiche patite da tante famiglie o dirotterà invece la rabbia della maggioranza sulle minoranze, sugli immigrati, i poveri e gli indifesi? Avrà il coraggio di opporsi a Wall Street, di adoperarsi per sciogliere le istituzioni finanziarie “troppo grandi per fallire” e imporre alle grandi banche di investire nella piccola impresa e creare posti di lavoro?
Sarò aperto a riflettere sulle idee proposte da Trump e su come si possa lavorare assieme. Però, siccome il voto popolare nazionale lo ha visto sconfitto, farà bene a dare ascolto alle opinioni dei progressisti. Ricostruiamo le nostre infrastrutture fatiscenti e creiamo milioni di posti di lavoro ben pagati. Portiamo il salario minimo a un livello dignitoso, aiutiamo gli studenti a sostenere i costi dell’università, garantiamo il congedo parentale e per malattia e incrementiamo la sicurezza sociale. Riformiamo il sistema economico che permette a miliardari come Trump di non pagare un centesimo di tasse federali. E non permettiamo più che i ricchi finanziatori delle campagne elettorali comprino le elezioni.
Nei prossimi giorni proporrò anche una serie di riforme per ridare slancio al Partito Democratico. Sono profondamente convinto che il partito debba liberarsi dai vincoli che lo legano all’establishment e torni a essere un partito di base della gente che lavora, degli anziani e dei poveri. Dobbiamo aprire le porte del partito all’idealismo e all’energia dei giovani e di tutti gli americani che lottano per la giustizia economica, sociale, razziale e ambientale. Dobbiamo avere il coraggio di sfidare l’avidità e il potere di Wall Street, delle case farmaceutiche, delle compagnie assicurative e dell’industria dei combustibili fossili.
Allo stop della mia campagna elettorale ho promesso ai miei sostenitori che la rivoluzione politica sarebbe andata avanti. E questo è più che mai il momento giusto. Siamo la nazione più ricca della storia del mondo. Se restiamo uniti senza permettere che la demagogia ci divida per razza, genere o origine nazionale, non c’è nulla che non possiamo realizzare. Dobbiamo andare avanti, non tornare indietro.
Bernie Sanders, senatore del Vermont, è stato candidato alle primarie democratiche delle elezioni presidenziali americane di quest’anno insieme a Hillary Clinton Traduzione di Emilia Benghi © 2016 The New York Times Company
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Corriere della Sera


Il protezionismo 

Trattati commerciali addio le prime picconate di Trump
FEDERICO RAMPINI NEW YORK.
Le prime picconate di Donald Trump non riguardano voi. L’avversario del libero scambio che ha conquistato la Casa Bianca ce l’ha col Messico e con la Cina. I due trattati che ha sempre denunciato come strumenti di distruzione dell’industria Usa e del lavoro, sono il Nafta (con Canada e Messico) e il Trans-Pacific Partnership (Tpp) con diversi Paesi asiatici. Dell’altro trattato in corso di negoziato, il Ttip fra Stati Uniti e Unione europea, il presidente-eletto non si è mai occupato. È comunque improbabile che ne voglia rilanciare l’iter. Però potrebbero indurlo a qualche ripensamento le multinazionali americane che lo stanno accerchiando coi loro lobbisti. Il
Wall Street Journal
lancia un’ipotesi: subito «un trattato bilaterale Usa-Gran Bretagna »; un regalo insperato per Theresa May, una ricompensa per Brexit, uno schiaffo agli altri europei. Che cosa accadrà, realisticamente, al commercio internazionale? Siamo alla vigilia di una escalation di protezionismi come negli anni Trenta? Chi ha più da guadagnarci o da perderci?
Il fenomeno Trump non è un terremoto improvviso, è l’ultima scossa di uno sciame sismico. La globalizzazione com’era stata costruita nell’ultimo quarto di secolo – dalla regìa Usa – è in crisi dal 2008. Il commercio internazionale ristagna, ha smesso di essere il motore trainante della crescita. Le opinioni pubbliche di tutto l’Occidente sono diventate scettiche o apertamente ostili alla globalizzazione, perché i risultati non sono stati affatto all’altezza delle promesse. Perfino i maggiori beneficiari come la Cina, praticano un protezionismo occulto: basta leggersi le lamentele di tante imprese occidentali discriminate, che vengono raccolte nei rapporti annuali delle camere di commercio a Pechino. Il Wto, tribunale degli scambi mondiali, è sommerso di ricorsi e processi per concorrenza sleale. In questo quadro la campagna di Trump è stata estrema nei toni, ma contro il Tpp si era pronunciato anche Bernie Sanders durante le primarie democratiche. Hillary Clinton, che aveva appoggiato quel trattato quand’era segretario di Stato, ha preso le distanze in campagna elettorale, fino ad affermare che in caso di vittoria non lo avrebbe firmato. L’ultimo a difendere quel trattato era Obama. Che sperava di farlo passare in una sessione parlamentare di fine anno. Ora ha rinunciato.
Quali sono le mosse più probabili di Trump? Un editoriale e diversi articoli del Wall Street Journal tracciano degli scenari e lanciano degli avvertimenti al neopresidente. La fonte è significativa. Il grande quotidiano economico- finanziario di Rupert Murdoch è stato l’unico organo della stampa scritta ad aver mantenuto dei rapporti “normali” con Trump durante la campagna. Inoltre è il giornale di riferimento di quell’establishment capitalistico che sta “accerchiando” Trump con i suoi lobbisti, molti dei quali sono già entrati nella squadra di transizione presidenziale e nel toto-nomine governativo. Le multinazionali Usa sono state le maggiori beneficiarie della globalizzazione e hanno molto da perdere dal protezionismo. I consigli del Wsj spingono Trump verso una versione minimalista delle sue promesse elettorali. Gli consigliano di limitarsi a qualche misura anti- dumping contro la Cina, qualche dazio punitivo, tutte sanzioni che peraltro aveva già cominciato a usare Obama applicando le regole del Wto contro la concorrenza sleale. Riformare il Nafta è un’altra opzione che il Wsj abbraccia: il trattato è vecchio di un quarto di secolo e ha bisogno di aggiornamenti. Poi c’è l’idea di passare ad accordi bilaterali di libero scambio con gli alleati più fedeli ed omogenei: Regno Unito, Giappone. Viceversa, il Wsj lancia una serie di moniti a Trump. Guai se dovesse «far saltare per aria il ruolo centenario degli Stati Uniti come àncora del sistema internazionale dei mercati aperti». Stia bene attento a non «abbandonare la migliore opportunità degli ultimi decenni di liberalizzare Paesi come il Vietnam e la Malesia che avevano alte barriere contro i prodotti americani». Infine, l’allarme più grave: «Il danno strategico è il più considerevole. Il Tpp sarebbe stato un contrappeso geopolitico all’influenza della Cina nell’Asia-Pacifico e avrebbe rafforzato la leadership Usa. Ora sarà la Cina a stringere i propri accordi nella regione. I regimi autoritari sono pronti a sostituire l’America come potere dominante ». (È esattamente quel che sosteneva Obama).
Trump darà ascolto al Wall Street Journal, ai lobbisti che ha accolto nella sua squadra, alle multinazionali? Oppure all’operaio bianco del Michigan che lo ha portato alla vittoria? Per quanto riguarda la Ue, chi si faceva illusioni di poter riesumare il negoziato sul Ttip per migliorare le clausole in difesa di lavoratori, consumatori, salute e ambiente, deve affrontare un interlocutore ben diverso da Obama. Ammesso che Trump voglia occuparsi di quel trattato, non sarà per venire incontro agli ambientalisti o ai sindacati.
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FRA MINACCE E PROPAGANDA FEDERICO RAMPINI 14/11/2016
DUE giorni prima aveva promesso di «unificare l’America». Ieri sera Donald Trump ha rilanciato la minaccia più lacerante che ci sia: «Espellerò dai due ai tre milioni di immigrati». Parole gravi, che aveva già pronunciato in campagna elettorale, ma che seminano più allarme e paura in bocca al presidente-eletto. L’annuncio fatto ieri nell’intervista alla Cbs è solo parzialmente mitigato da alcuni correttivi.
SEGUE A PAGINA 23
PRIMO: in contemporanea il presidente della Camera Paul Ryan — i cui voti sono necessari per fare passare riforme dell’immigrazione — ha contraddetto implicitamente Trump. «La priorità — ha detto Ryan — è rendere il confine più sicuro », cioè prevenire gli ingressi di nuovi clandestini, anziché deportare quelli che già sono qui. Lo stesso Trump peraltro ha già declassato il Muro col Messico, precisando che in certe zone della frontiera potrebbe accontentarsi di costruire… una “cinta”. Infine ci si può sempre consolare col fatto che Trump era partito in campagna elettorale dalla minaccia di espellere tutti gli 11 milioni di immigrati senza permesso di soggiorno. Se è già sceso da 11 a 3, di qui all’Inauguration Day del 20 gennaio c’è speranza?
Ma le parole del neopresidente fanno molto male, comunque. Intere comunità di stranieri, che da anni vivono e lavorano, pagano le tasse, hanno i figli a scuola, si sentono piombare in uno stato di angoscia, non sanno cosa sarà di loro. Trump sostiene di voler cacciare per primi «i criminali, i membri delle gang, i trafficanti di droga». Fosse vero, non arriverebbe a due o tre milioni. La verità è che lo stesso reato di immigrazione clandestina può trasformarti in “criminale”, allora sì che la platea dei soggetti a rischio di espulsione si allarga molto.
Dalle minacce ai fatti per fortuna la distanza è abissale. Trump non ha i mezzi per individuare gli immigrati senza documenti di soggiorno, arrestarli e rinviarli nei paesi di provenienza. Dovrebbe dispiegare un esercito per farlo. Le forze federali specializzate ( Border Patrol, Immigration and Customs Service) sono inadeguate. Le polizie locali prendono ordini da sindaci e governatori, non dalla Casa Bianca. È il federalismo, bellezza: quella bandiera dei poteri locali che per decenni fu orgogliosamente rivendicata dalla destra, ora diventa l’ultimo contropotere in mano alla sinistra. Due Stati come la California e New York (il primo e il terzo per popolazione e ricchezza) sono governati dai democratici e non daranno la caccia all’immigrato. Il sindaco di New York, Bill de Blasio, negli ultimi anni aveva distribuito agli immigrati senza “Green Card” una carta d’identità cittadina che equivale ad una sorta di sanatoria di fatto. De Blasio ha già annunciato che, qualora l’Amministrazione Trump dovesse chiederglieli, distruggerà gli archivi per impedire che quelle liste di stranieri siano usate ad altri fini.
Comunque è poco probabile che Trump voglia andare fino in fondo. La caccia al clandestino che gli procurava applausi nei comizi, nella realtà lo caccerebbe in un mare di guai. Anche ammesso che al prezzo di una militarizzazione del paese si riesca a lanciare una caccia a milioni di persone, sarebbe la paralisi di interi settori economici. Ristoranti e alberghi, pulizie a domicilio, fattorini per le consegne, l’agricoltura e l’edilizia: se ci sono 11 milioni di immigrati senza documenti di soggiorno, è perché l’America ha bisogno di loro. La caccia allo straniero provocherebbe rapidamente la rivolta di tanti piccoli e grandi imprenditori, una base sociale che Trump non vorrà inimicarsi. Non è questo il modo per rispondere alle tensioni — reali — legate alla società multietnica. Lo stesso operaio bianco del Michigan che ha votato Trump perché si sente un dimenticato, uno straniero in casa sua, non andrebbe a raccogliere pomodori in Florida per il salario di un ecuadoregno.
Poiché Trump ha dimostrato di essere un bugiardo seriale, un impostore e un venditore di fumo, è probabile che i proclami xenofobi resteranno tali: rumore e propaganda. Magari il neopresidente farà qualche visita al confine col Messico, inaugurerà un cantiere di costruzione di un pezzettino di Muro (o cinta?), si prenderà il merito per l’espulsione di qualche migliaio di spacciatori, e dichiarerà vittoria. Tanto più che già da qualche anno, per fattori macro-economici esterni, i flussi d’ingresso dal Messico si sono fortemente ridotti.
Intanto però una generazione di studenti e alunni delle scuole, nati in questo paese da genitori “clandestini”, avranno vissuto l’incubo di vedere padre e madre arrestati, rinchiusi in centri di smistamento, espulsi verso paesi con i quali non hanno più un vero rapporto da molti anni. Inauguration Day è lontano due mesi, e già questa presidenza comincia malissimo.
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“Choccati da Trump ma non staremo zitti” La scrittrice: “Nel mio Midwest c’è una tradizione progressista, non soltanto bianchi arrabbiati” Elisabetta Pagani  Busiarda 15 11 2016
L’America che conosco è bella e generosa. E vi assicuro che la mia conoscenza di questo Paese ha radici profonde». Marilynne Robinson, premio Pulitzer per Gilead e scrittrice amata dal presidente uscente Barack Obama, vive e ambienta i suoi romanzi in Iowa, in quel Midwest bianco, operaio e rurale che si è buttato tra le braccia di Donald Trump. «Ma il risultato di queste elezioni è quasi un caso fortuito. Si è dato così per scontato che avrebbe vinto Hillary Clinton che molti hanno votato il candidato repubblicano per protesta. La crisi si è fatta sentire, sono stati tempi duri qui, è vero, ma non ho mai visto la meschinità e la rabbia che lui ha cercato di sfruttare». Oscilla fra pessimismo e speranza la signora del Midwest, e si rallegra per le proteste che percorrono gli Usa: «Sono importanti per dare un’immagine reale del Paese, che in maggioranza ha votato contro Trump. Un’opposizione determinata, legale e propositiva sarà cruciale per il nostro futuro».
Hollywood si è schierata in massa contro Trump, così come centinaia di scrittori. Ora il mondo della cultura si farà sentire?
«È una situazione senza precedenti ed è presto per capire quali idee emergeranno, ma ogni scrittore che conosco ci sta pensando. Saremo all’altezza delle esigenze del momento».
Intanto da una costa all’altra si protesta al grido di «Not my President».
«Trump è stato eletto legittimamente, ma è giusto ricordare a noi stessi e al mondo che non ha vinto con il voto popolare. Il dolore reale che molti sentono per questo risultato è la prova della forza degli ideali che ha provato a minacciare. Quindi queste proteste sono positive, mi rassicurano. Se degenereranno, so che la gente le abbandonerà. Detto questo, Obama ha ragione, ora serve una transizione ordinata».
Si è dato per scontato che le donne gli avrebbero voltato le spalle ma non è stato così: non hanno voluto rompere il famoso soffitto di cristallo?
«Le donne per me sono un mistero. Lo sono anche gli uomini, ma almeno non mi aspetto di capirli. Sicuramente è stato un errore pensare che fossero solo interessate a questioni di genere. Inoltre, e da persona religiosa mi addolora dirlo, tendono a farsi influenzare dalla Chiesa, che era a favore di Trump».
Il Midwest viene dipinto come un’area ferita dalla crisi, dove covano rabbia e frustrazione. C’è però anche il Midwest letterario che ha cresciuto grandi scrittori, da Franzen a Eugenides.
«È una regione di grandi città e università: Hemingway era di Chicago, Fitzgerald di Minneapolis. Storicamente ha una forte tradizione progressista, che si riflette in molti libri. Non credo che il fenomeno Trump darà vita a una nuova letteratura».
Ha sentito Obama dopo le elezioni? Per molti commentatori, oltre a Clinton, è lui il grande sconfitto.
«Non ci siamo sentiti. Credo che il governo abbia pagato lo scotto dello stallo in cui versava a causa dell’opposizione repubblicana. La gente voleva smuovere la situazione, e a molti Trump è sembrato abbastanza prepotente da riuscire a farlo».
Trump alla Casa Bianca scompagina tutti gli schemi. Cosa si aspetta?
«In campagna elettorale lui stesso non ha chiarito il suo programma. Quello che so è che ha detto cose tremende, il che è allarmante, ma un presidente non lavora da solo. Dovrà fare i conti con il fatto che far divertire le folle e governare sono cose diverse. Non sono ottimista». 
Si è discusso degli effetti politici ed economici della sua presidenza. E sul piano culturale?
«Sa che la sua forza risiede nella popolazione poco istruita e non risulta che abbia interessi culturali, non so che politica adotterà. Potrebbe però stimolare arte interessante nell’opposizione, che è la parte creativa e intellettuale del Paese». 
Via i musulmani, un muro con il Messico, che fine fa l’America multietnica?
«Fa parte della nostra identità nazionale, è troppo radicata per sparire». 
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