martedì 15 novembre 2016

Due approcci al movimento No Tav che riflettono "epicamente" su tutto tranne che sul contraddittorio rigetto della modernità a sinistra

Risultati immagini per no tavNon sempre, ma spesso, l'opposizione alle grandi opere è sinonimo di populismo luddistico nostalgico di un idillio immaginario. Altra cosa è invece quando ci si oppone in nome di una moderintà più avanzata [SGA].


I paradossi dell’alta velocità 

Tempi presenti. «Un viaggio che non promettiamo breve» di Wu Ming 1, per Einaudi. Una narrazione collettiva del movimento in Val di Susa

Giuliano Santoro Manifesto 15.11.2016, 18:59 
È possibile narrare una lotta ricostruendone l’epica e senza retorica? Quella che un tempo si sarebbe chiamata «lotta di longa durata» è l’oggetto di Un viaggio che non promettiamo breve (Einaudi, pp. 650, euro 21), narrazione ibrida di Wu Ming 1 sul movimento No Tav.
Per comprendere la polifonia della Valle di Susa, la forza che sprigiona da differenti radici («il movimento operaio, la tradizione antifascista, il cristianesimo di base, l’orgoglio di categoria dei ferrovieri») e fili rossi che hanno la capacità di intrecciarsi, il testo mette all’opera molti degli strumenti sperimentati in questi anni dal collettivo Wu Ming. È un oggetto narrativo non identificato che tiene assieme complessità e radicalità, inchiesta e narrazione, reportage e analisi. Il rigore delle fonti e la sperimentazione narrativa, per usare le parole dell’autore. 
La logica dell’Alta velocità è tipica del violento paradosso di certi discorsi del potere. L’onere della prova non spetta a chi comanda. Non è richiesto a chi vorrebbe costruire la «grande opera» di dimostrarne la necessità. Al contrario, è chi vi si oppone che ha il compito di argomentare a parole e con le azioni l’inutilità della stessa per fermare la distruzione dispendiosa che la accompagna. Il movimento No Tav della Valle di Susa da anni si è sobbarcato questa fatica, riuscendo a produrre conflitto e seminare spirito critico. Il libro costruisce una grande opera collettiva che si muove tra saperi e pratiche, fatta di sudore e idee, suole per strada e testi sottolineati, trappole aggirate e terreni conquistati. 
I No Tav come una trivella scavano a fondo nel senso comune, anche quando gira a vuoto in paludi semantiche. Quando entrano in scena le gabbie vere e proprie, le celle per i militanti o i recinti attorno ai cantieri, trovano il modo di portare la lotta dentro le prime o espugnare le seconde.
Il suo autore, in sintonia coi protagonisti del libro, si mette sulle spalle un carico non da poco. A partire da quello, cruciale, di farci evadere dalla logica dell’Alta Banalità, entità che serpeggia tra titoli di giornale e cenacoli letterari e che minaccia il paesaggio svuotandolo di senso. 
Questo non è semplicemente il conflitto di un luogo che resiste ad un flusso. È la storia di un luogo che da sempre viene attraversato dai flussi, «senza soluzione di continuità tra locale, nazionale e planetario». È per questo, proprio perché in Valle conoscono bene i flussi, che vogliono dettarne tempi e modi di passaggio, per governarli dal basso e approntare la giusta misura della relazione con altri territori. Universale e locale, dunque. A partire dalla vexata quaestio, anch’essa a forte rischio di banalità nei discorsi correnti, delle pratiche di lotta e delle spirali repressive. All’indomani del movimento di Genova la nobile tradizione della nonviolenza venne utilizzata come clava, in maniera a volte schematica, per mortificare il vicino di corteo e produrre rotture. Si lanciavano anatemi senza proporre alternative, lasciando ai movimenti la scelta tra immobilità e testimonianza. Invece quelli che lo storico attivista (e pacifista) No Tav Alberto Perino descrive come «nonviolenti da salotto» non hanno calpestato i prati della Valle. Al contrario, Wu Ming 1 racconta come il movimento abbia saputo affrontare la questione in maniera laica, non rinunciataria e neppure nichilista, a partire dalla loro efficacia. 
Per rappresentare il Male del Tav, Wu Ming 1 chiede aiuto al suo illustre collega H. P. Lovecraft. Il quale approva per via epistolare, grazie alle magiche vie di comunicazione degli scrittori, l’artificio allegorico: il Tav come un’Entità, un mostro che incombe «inevitabile, ineluttabilmente dietro ogni angolo di ogni esistenza, perché l’avvenire è scritto, cronoprogrammato». Solo che, diremmo col poeta, nel finale libro di Wu Ming 1 come nella storie della Valle ribelle «il futuro non è ancora scritto». A proposito di futuri da scrivere, bisogna precisare ancora una cosa. Questo non è esattamente un libro sui No Tav. È scritto piuttosto come un lungo excursus propedeutico. È una specie di rimessa in ordine degli appunti. 
Questo espediente narrativo contribuisce alla commistione di generi e di punti di vista. Al termine l’autore scopre di avercelo davvero, questo libro che ha in mente da tempo e che è costato più di tre anni di interviste e osservazioni dirette. Scopre di averlo compiuto veramente questo viaggio tutt’altro che breve di cui ancora non conosciamo l’approdo. È un testo scritto impiegando il tempo imperfetto. Ma non è un tempo narrativo, distante. È il tempo del gioco creativo dei bambini («Facciamo che io ero un indiano») che trova solidità materiale nella declinazione imperfetta dell’azione reiterata, dell’evento che assume continuità e stabilisce un nuovo ordine. 


No Tav, la guerra della comunicazione 

Tempi presenti. «Cattivi e primitivi» di Alessandro Senaldi, per ombre corte. Una ricerca etnografica per mettere in evidenza i meccanismi retorici e le pratiche discorsive che hanno contribuito a forgiare il dibattito pubblico sulla Torino-Lionetà negli ultimi anni 

Francesca Coin Manifesto 15.11.2016, 19:15 
Giunge puntuale e opportuno il nuovo libro di Alessandro Senaldi, Cattivi e primitivi. Il movimento No Tav tra discorso pubblico, controllo e pratiche di sottrazione, appena uscito per ombre corte (pp. 214, euro 18), nella nuova collana Etnografie. Un testo la cui pubblicazione è scandita emblematicamente dalla richiesta da parte del gruppo di otto senatori francesi, al lavoro da febbraio nella Commissione finanze del Senato di «congelare per una quindicina d’anni il finanziamento di nuovi progetti di linee ad alta velocità» per «dare priorità alla modernizzazione delle reti esistenti». 
Nonostante il silenzio dei media mainstream italiani, in Francia la controversa linea Torino-Lione trova sempre meno consensi: non a caso la richiesta degli otto senatori fa seguito al parere contrario espresso già due volte dalla Corte dei Conti francese, secondo la quale un’eventuale decisione dello stato di proseguire con questo progetto sarebbe «estremamente preoccupante per l’equilibrio futuro delle finanze pubbliche». 
Le ragioni dei No Tav risuonano nel Senato francese, dunque, dove le fondamenta del tunnel ferroviario paiono diventare sempre più fragili. In Italia, viceversa, l’opposizione alla Torino-Lione viene ancora liquidata come pregiudizio di «una patetica retroguardia di primitivi, ostili al progresso», quei valligiani «anti-democratici» e «arretrati culturalmente», tragicamente affetti da sindrome nimby – not in my backyard.
È in questo contesto che è utile leggere il libro di Alessandro Senaldi, particolarmente efficace nel servirsi della ricerca etnografica per mettere in evidenza i meccanismi retorici e le pratiche discorsive che hanno contribuito a forgiare il dibattito pubblico sulla Tav negli ultimi anni.
Nei media italiani, è stato demandato a una questione di ordine pubblico. Senaldi parla propriamente di una guerra che si serve della comunicazione per legittimare l’uso degli strumenti della repressione per neutralizzare la dialettica politica.
Il testo si serve dell’etnografia per offrire uno sguardo ravvicinato delle motivazioni e i valori del movimento No Tav, protagonista negli ultimi anni di una instancabile attività di resistenza e contro-informazione oltre che di più di mille procedimenti giudiziari. 
Le interviste raccolte durante l’estate 2013, tra i presidi di Venaus e del Vernetto e il campeggio tenutosi in Località Gravella a Chiomonte, vengono qui contrapposte alla narrazione dominante. Emerge, tra le maglie strette di una quotidianità fatta di fermi, identificazioni, misure cautelari e accuse di terrorismo, una comunità tenuta insieme dalla passione e dalla necessità di difendere con le unghie e coi denti un fragile ecosistema e una democrazia che pare sussistere anzitutto nei vecchi borghi.
Senaldi richiama Jakobs e parla di un «diritto penale del nemico» da affiancare al «diritto penale del cittadino», a descrivere l’esistenza di un regime di diritto distinto per gli abitanti della Valle. Il diritto del nemico rimanda a una «forzatura della norma giuridica» volta a sospendere lo stato di diritto per alcuni soggetti. 
Il recente documentario Archiviato. L’obbligatorietà dell’azione penale in Valsusa aggiunge evidenze inquietanti a questa interpretazione, collezionando in un film realizzato con il patrocinio di diverse associazioni di giuristi le violenze subite dai valligiani, descrivendo uno stato di eccezione gravemente lesivo delle libertà politiche eppure mai considerato degno di attenzione politica. 
Il testo di Senaldi si sofferma a lungo sul bisogno di sottrarre all’inchiesta giudiziaria l’unica narrazione legittima di quanto avviene in Valle. Emerge chiaramente da questo testo, cui fa da epilogo il recente caso Chiroli, l’ex studentessa di antropologia condannata a due mesi con condizionale per l’uso del noi partecipativo nella sua tesi sul movimento No Tav, come le contro-narrazioni non siano mai fine a se stesse. Lo scontro di narrazioni rimanda sempre al tentativo di aprire o chiudere spazi di agibilità politica. Tolti i fermi, le misure cautelari e il massiccio ricorso alle autorità repressive, emerge, in questo senso, tra le righe del testo, un’altra immagine del movimento No Tav. 
La generosità di una Valle che trabocca della volontà collettiva di allontanare da sé la repressione per celebrare i colori autunnali e l’attualità di una storia partigiana che vive ancora tra le case dei montanari e il presidio resistente. «Il tristo mondo della repressione», ha scritto di recente Nicoletta Dosio, simbolo della lotta No Tav e del coraggio di sottrarsi a misure cautelari vissute sempre più come «ingiuste imposizioni», «appare lontano e impotente di fronte a questa collettività forte e serena che, senza retorica ma con determinazione, sa proteggere i suoi figli e difendere le ragioni della lotta comune».

Laboratori di democrazia per contrastare il modello dominante
NO TAV. Intervista con Marco Aime. L’antropologo, autore di «Fuori dal tunnel» edito da Meltemi, oggi ospite a Roma per l'apertura della Fiera Più libri più liberi. «Il movimento No-Tav può essere letto sotto profili diversi. Io ho scelto di indagare in che modo la comunità valsusina si è trasformata in seguito alla lotta»
Alessandra Pigliaru Manifesto 7.12.2016, 17:34
«L’idea è maturata poco a poco, mentre seguivo le vicende e l’evolversi del movimento e della resistenza all’opera». Marco Aime descrive così il momento in cui ha deciso di dedicare un volume al No-Tav. Si intitola Fuori dal tunnel (pp. 297, euro 22) ed è stato appena pubblicato per Meltemi (di cui il catalogo è stato recentemente acquisito da Mimesis). «Circa tre anni fa – prosegue l’antropologo – ho iniziato la vera e propria ricerca sul campo, recandomi frequentemente in valle, intervistando molte persone, partecipando alle riunioni e alle manifestazioni, per comprendere la natura del movimento».
Ospite oggi a Roma nell’ambito di «Più libri più liberi» lo abbiamo incontrato per alcune domande.
In che modo il No-Tav interroga un antropologo? Quanti livelli della questione ha potuto indagare e quale ha prediletto?
Personalmente ho seguito un filone che ha segnato il mio lavoro fin dall’inizio: quello dell’antropologia alpina, ma mentre prima mi ero prevalentemente occupato di tradizioni della montagna, questa volta ho voluto cimentarmi con la realtà attuale di una valle. Il movimento No-Tav può essere letto sotto profili diversi: politico, economico, ecologico, molti autori prima di me hanno affrontato la questione del tunnel e delle grandi opere in genere, in chiave economica, tecnologica, ambientale. Io ho scelto di indagare in che modo la comunità valsusina si è trasformata in seguito alla lotta e forse si può dire, che si è costruita proprio grazie alla minaccia esterna.
Lei parla di «laboratorio di democrazia» e di «un’alternativa necessaria per impedire l’assolutismo politico e culturale». In che senso?
La domanda di fondo che ci pone la valle di Susa è: una comunità ha o meno il diritto di decidere sulla propria salute e su quella delle generazioni future? Oppure deve soccombere al volere della cosiddetta maggioranza? «Cosiddetta» perché sappiamo benissimo che chi governa non ha sempre il maggior numero di voti, inoltre ci si deve chiedere se «democrazia» significhi dittatura della maggioranza o rispetto delle minoranze. Domanda ancora più urgente se posta alla luce di un’opera la cui validità è stata messa in dubbio da molti esperti non di parte. La riflessione in valle, a partire dalla questione Tav si è poi estesa ad altri temi come i beni comuni, l’acqua pubblica, una economia etica, che mettono in discussione il modello di sviluppo dominante.
Le interviste che ha condotto l’hanno spinta verso un lavoro cucito tra le narrazioni. Un libro plurale come lo è il movimento della Val di Susa?
Esatto. In primis ho cercato di restituire il più possibile le voci dei protagonisti. Da un lato perché quello era lo sfondo della mia ricerca, dall’altro perché il movimento No-Tav è spesso stato vittima di una stampa che se si eccettua il manifesto e il Fatto Quotidiano, si è sempre dimostrata ostile. Poi perché si tratta di un movimento anomalo rispetto a quelli tradizionali, quelli che ho vissuto nella mia gioventù negli anni Settanta. Un movimento che ha saputo far convivere anime quanto mai lontane tra di loro dal punto di vista ideologico, politico e di storie personali, riuscendo a unirle in una lotta il cui scopo fondamentale è la difesa dell’ambiente, tema su cui si è trovato un accordo generale. Forse è proprio questa la specificità del movimento: il non essersi connotato su un piano ideologico, ma su un tema sostanziale e di aver saputo fare convivere forme ed espressioni di lotta quanto mai diverse tra di loro.
La «comunità» non è un concetto astratto bensì, soprattutto nella vicenda in divenire del No-Tav e come lei stesso scrive – un contrappeso al modello dominante…
Come ha scritto Victor Turner, le relazioni sociali umane sono caratterizzate da due modelli principali, che si affiancano e si alternano. Il primo è quello della società come sistema strutturato, differenziato e spesso gerarchico di posizioni politico-giuridico-economiche, per esempio lo Stato; il secondo è quello della comunità non strutturata di individui uguali, che agiscono da contraltare rispetto alle decisioni. In democrazia la Communitas come la chiama Turner, dovrebbe avere un peso maggiore, cosa che non sempre accade.

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