domenica 6 novembre 2016

Geografia, mappe e guerra: una mostra


Il potere di atlanti, cartine e mappe, fra propaganda e politica. Dai toponimi della Grande guerra alla terra vista dall'Apollo 17 

Luigi Mascheroni Giornale - Dom, 06/11/2016 -






Mappe di guerra
Ultraoltre. Una mostra in corso alla Fondazione Benetton dal titolo La geografia serve a fare la guerra? Atlanti e opere d'arte raccontano in tre percorsi la forza di persuasione delle carte
Luciano Del Sette Alias Manifesto 12.11.2016, 20:45
Anche a volerlo togliere, e potrebbe sembrare scelta scontata, quel punto interrogativo non scompare del tutto. Diventa segno che apre altre domande; dubbio che si propone subito dopo aver raggiunto un’apparente certezza; espressione di un giusto disorientamento finale e di un’inquietudine difficili da esprimere. La geografia serve a fare la guerra? è il titolo della mostra a cura del geografo Massimo Rossi, fino al 19 febbraio 2017 presso la Fondazione Benetton di Treviso. Quattro spazi per un viaggio di molti secoli, testimoniato da un numero per scelta ristretto di pezzi espositivi, così da agevolare la comprensione del discorso. Questo l’incipit della presentazione «Chiariamo innanzitutto che è l’uomo a fare la guerra e che per raggiungere i suoi obiettivi è disposto a utilizzare tutte le discipline disponibili; quindi non solo la geografia ma anche la fisica, la chimica, la geometria, la matematica, la linguistica, la storia, l’antropologia… Tutti i saperi servono a fare la guerra, ma è anche vero che non si può fare la guerra senza la geografia».
Il punto interrogativo del curatore nasce dal titolo invece affermativo di un pamphlet del geografo marxista Yves Lacoste, scritto quarant’anni fa, La géographie, ça sert, d’abord, à faire la guerre, La geografia serve, principalmente, a fare la guerra, La découverte Editeur. Lacoste afferma il forte legame tra geografia e potere e l’importanza della geopolitica, ma Rossi non ricerca la continuità con tale interpretazione, né intende ancorare la geografia alle logiche militari «… al contrario, l’esclusione dell’avverbio d’abord e l’inserimento del punto di domanda ci consentono di storicizzare e articolare geografia e sapere geografico in più stimolanti declinazioni e contaminazioni con altre discipline e punti di vista». Assunto su cui poggia la mostra è che la geografia, meticciandosi con le scienze umane e territoriali, esplora i rapporti tra comunità e luoghi. Ma soprattutto storicizza le modificazioni topografiche attraverso la geografia sto rica, la storia dei viaggi e delle esplorazioni, la geografia regionale, la geografia urbana.
Una disciplina, afferma Rossi, assimilabile a un cantiere perennemente aperto, cui le connotazioni settoriali faticano a porre codici e limiti. È bene precisare ancora che il nucleo da cui la mostra scaturisce, la Grande Guerra, rappresenta solo il pretesto («gigantesco», lo definisce Rossi) per un discorso assai più ampio. Gli allestimenti di Fabrica, fucina creativa della Benetton, conferiscono al percorso luci ed evidenze particolari. Il primo spazio, «Rocce e acque», mette l’accento sull’uso strumentale del concetto di «confine naturale» per trasformare elementi del paesaggio in linee divisorie. Prova ne sia il regio Proclama di Guerra del Regno d’Italia contro l’Impero Austro – Ungarico «A voi la gloria di piantare il tricolore d’Italia sui termini sacri che la natura pose ai confini della Patria nostra». Il confine naturale è, al contrario, puro artificio, materializzato in carte e mappe attraverso cui si cercava di far passare l’idea di un’Italia unita ben prima che tale fosse, politicamente e nell’espressione di valori comuni. Il passaggio successivo, «Segni Umani», entra nello studio del geografo, interprete sulle carte del tempo storico cui appartiene, dove segni e simboli sono frutto di mediazioni culturali.
Grande inganno costruirono, a partire dalla seconda metà dell’800, le mappe etno – linguistiche, raffigurazione delle nazionalità dentro presunti confini specifici. Alle smentite degli antropologi, secondo i quali l’appartenenza a un gruppo etnico costituiva pura invenzione, facevano da contrappeso le manipolazioni nazionaliste della storia. Davano loro manforte, ad esempio, la Geographische Verbreitung der Menschen-Rassen, mappa delle razze pubblicata nel 1848 da Justus Perthes; la Veduta d’Italia, Litografia Corbetta, 1853, che mostra la penisola rovesciata e all’orizzonte Tunisi e Malta, mire coloniali; l’Atlante della Nostra Guerra, 1916, e la Carta dell’Europa etnico – linguistica, della De Agostini. Un angolo dello studio è riservato a Cesare Battisti geografo, autore di un lavoro sul Trentino nel quale rivendicava il ruolo determinante della sua disciplina per conoscere, capire e diffondere i valori economici, politici e sociali di un luogo. La sezione «Mappe e Arte» illustra un rapporto già espresso all’entrata da The Colours of Cultural Map di Pietro Ruffo, e ribadito nel planisfero circondato dalle nuvole del fiammingo Abramo Ortelio (1570), occhio di Dio sul mondo e sulle guerre di religione che lo martoriavano; nei tappeti geografici afghani, nella foto della terra scattata dall’Apollo 17, nella TerraCotta di Marco Ferreri. La geografia serve a fare la guerra? Viene da rispondere sì calpestando la gigantesca mappa militare sul pavimento dell’ultima sala. La punteggiano i simboli del primo conflitto mondiale: trincee, batterie di cannoni, filo spinato, postazioni… Mappa in continuo divenire grazie alle riprese degli aerei da ricognizione. Mappa e insieme cronaca aggiornata della più grande tragedia del ’900. Mappa come ulteriore contributo e frammento di un discorso che la mostra vuole lasciare aperto, affinché altre, inevitabili, impreviste domande si affaccino. Forse destinate a rimanere prive di una risposta certa.


«La cartografia ti rivela l’ordito della società»
Intervista. Parla Massimo Rossi, curatore della mostra «La geografia serve a fare la guerra?», in corso alla Fondazione Benetton di Treviso. Insegna all'università di architettura a Venezia
Luciano Del Sette Manifesto 12.11.2016, 20:52
Massimo Rossi insegna Geografia del territorio contemporaneo allo IUAV, Istituto Universitario di Architettura di Venezia. Capire le mappe, che lui definisce un mezzo di comunicazione vecchio come il mondo, è materia di studio e oggetto di personale passione, confluiti nell’idea della mostra. «Guardare al ruolo della geografia nel contesto della Grande Guerra mi sembrava una prospettiva interessante. Sono partito da ciò che normalmente si intende per carta geografica: una questione geometrico – matematica. Da una sfera tolgo la terza dimensione e quindi diventa piatta. Già c’è qualcosa che non va. Le tre dimensioni diventano due, perciò devo adattarmi. Scelgo un sistema di proiezione e, a seconda del sistema, dilato, restringo. Cioè inserisco un punto di vista. La costruzione delle carte, dunque, ha a che fare con chi le fa e il contesto cui appartiene.
Questo significa che la narrazione della geografia attraverso le mappe è soggettiva al pari della narrazione storica?
Certamente. Ogni cartografia, quando cominci a studiarla, ti rivela l’ordito della società che ha voluto esprimere. Negli anni ’80 del diciannovesimo secolo ci fu una rivoluzione nel modo di pensare le mappe. Dalla questione geometrico – matematica, un atto di fede, ‘la carta è così’, si passò alla carta quale esito culturale e riflesso della società. Il sistema della geografia dell’800 e ’900, che derivava dalle teorie di Darwin, dalla botanica, portò a formare una disciplina rivolta al concetto di nazione. La geografia europea tradusse questo pensiero, condizionato poi dalle tensioni sociali della Grande Guerra. Nacquero cartografie che ‘urlavano’ lo spirito del tempo, vale a dire le pretese territoriali nazionali secondo ciascuno stato. La geografia stava imparando a confezionare carte mirate a esprimere concetti.
La mostra deve molto alla ricerca negli archivi 
Quando metti insieme le carte conservate negli archivi della Società Geografica Italiana, Archivio storico dello Stato Maggiore, Archivio del Genio, dello Stato a Firenze… ti accorgi che sono state declinate a seconda dei punti di vista. Il problema è dimostrarlo, perché sembrano soltanto carte geografiche. I luoghi sono qui, non si spostano; per andare da qui a qui c’è una strada. In realtà sono io, cartografo, che scelgo la scala, decido quel colore, se mettere o non mettere un toponimo. La mia carta è costruzione sociale e culturale finalizzata a significare qualcosa. Cito ad esempio una cartografia ottocentesca dell’impero britannico che raffigura con grafica liberty il Commonwealth in divenire. La Britannia, color rosa tenue, è al centro del mondo. In rosa, sul planisfero, i suoi possedimenti e i tracciati delle rotte commerciali. In basso l’immagine di Atlante che regge il mondo. E sul mondo è seduta la raffigurazione di Britannia. Un’iconografia esteticamente gentile, che tale non appare se la decostruisci spogliandola dei suoi orpelli».
La strumentalizzazione delle carte riguardò da vicino anche la Grande Guerra
La Grande Guerra sotto l’aspetto geografico è la chiave narrativa che abbiamo scelto, con l’intento di far capire in che modo l’opinione pubblica sia stata manipolata attraverso le carte e la geografia si sia fatta manipolare dal potere.
Visitando la mostra, la questione dei confini naturali emerge come punto nodale
I confini naturali sono un equivoco e una bugia enormi, che ci hanno però portati in guerra. Nei trattati dei geografi del tempo esistevano l’Italia svizzera del Canton Ticino, francese, inglese perché si rivendicava il diritto su Malta, austriaca. Temporaneamente soggette a dominazioni straniere. Si utilizzava la geografia fisica per assegnare dei valori assoluti, che erano invece soggettivi. Pensiamo al ruolo straordinario che ha una carta geografica: è l’unico modo per vedere un confine, perché quel confine è tracciato su di essa. Usare il Po per dividere due regioni costituisce un falso. Un fiume è fatto dal suo intero bacino idrografico. Tagliarlo a metà risulta credibile grazie a una riga sulla carta.
Cos’è oggi una carta geografica?
Le carte non si camminano più. C’è un occhio che fotografa dall’alto, le foto vengono plottate e stampate. Nessuno fa più collaudi. Oggi abbiamo un’altissima tecnologia e una carenza drammatica di informazioni. Le foto da un aereo o da un satellite non possono sostituire le carte: mancano i toponimi, le curve di livello, una semantica che metta in relazione i luoghi. Nella fotografia c’è tutto, si dice. Bugia. Quando progetti hai bisogno della memoria storica, cioè delle carte dei secoli passati. Sei in mezzo alla campagna e un’indicazione dice «Via della palude» Della palude neanche l’ombra. Ma le carte del catasto testimoniano che c’era, duecento anni fa. Prova a costruire un grattacielo su quel terreno.

Nessun commento: