venerdì 25 novembre 2016

Il comitato d'affari del momento




La Repubblica

La gratitudine di Marchionne: «È il momento di sostenere il premier» manifesto 24.11.2016, 23:59
Nuova photo-opportunity fra Renzi e Marchionne. Ieri il premier ha visitato gli stabilimenti Fca di Cassino per raccogliere l’endorsement dell’Ad e convincere gli operai a votare Sì. Marchionne non si è risparmiato. «È il momento di sostenere il nostro primo ministro», ha detto ai giornalisti stranieri, l’eventuale vittoria del No lo preoccupa: «L’Italia potrebbe non essere nella posizione più elegante per affrontare questo shock». Poi ha vantato la trasformazione del suo gruppo. Quanto a contratti e licenziamenti, in Italia sappiamo di che parla. Infine gli Usa: non c’è più Obama, il vero artefice del rilancio di Chrysler. Ora c’è Trump: «Lavoreremo con la sua amministrazione», ha tagliato corto Marchionne.

Marchionne: io dico Sì Ma a Cassino gli operai deludono il premier “Ti voteremo contro” Renzi nell’impianto della nuova Giulia: “Il futuro è qui, però c’è chi è nostalgico della 126”PAOLO GRISERI Rep
La riforma è la modernità, il fronte del No è la nostalgia. La metafora è quella della nuova Giulia, la scommessa di Alfa Romeo per conquistare i mercati mondiali, contrapposta «all’antica e gloriosa 126 che ancora molti di noi ricordano con simpatia». Non tanto per l’auto, quanto per l’utilizzo che ne faceva chi oggi ha 60 anni e all’epoca era ventenne. La 126 è stata la prima automobile prodotta a Cassino nel 1972. La Giulia è l’ultima nata sulle stesse linee.
Matteo Renzi arriva in elicottero nello stabilimento sotto l’abbazia benedettina per raccontare la parabola automobilistica: «Questa storia, quella della rinascita di Fca, ci dice molto sull’Italia di oggi», spiega il premier e decritta: «Tutti noi abbiamo nostalgia e affetto per le auto del passato ma sappiamo che il futuro dei nostri figli non si nutre di nostalgie». Il tema è quello dell’innovazione, del nuovo modo di produrre in un mondo digitale e connesso (la famosa “industria 4.0” cui l’Anfia dedica il suo convegno annuale) ma è anche quello di un’Italia divisa «tra chi ha fame di futuro e chi del futuro ha paura preferendo soffermarsi a piangere sul passato».
È un nodo che riguarda soprattutto la sinistra, la mutazione genetica subita tra gli anni Sessanta, quando incarnava a la richiesta di modernità e sviluppo del Paese, e le posizioni di oggi, spesso arroccate sulla difesa dell’esistente. «Se avessimo dato ascolto al partito del “no”, a coloro che prevedevano la fine dell’automobile e si opponevano a ogni modifica nella fabbrica, oggi non saremmo qui in uno stabilimento con 4.300 persone ». Il paragone di Renzi è implicito ma non è un caso se la battaglia contro Marchionne è stata condotta da quella stessa Cgil che oggi guida il fronte del No al referendum.
Il sindacato di Camusso come i nostalgici della 126? Non è la prima volta che il premier si presenta come l’uomo della modernità contro il piccolo mondo antico. «Difendere l’articolo 18 è come provare a mettere il gettone nell’iPhone», aveva detto alla Leopolda. Era l’ottobre del 2014, sembra un’altra epoca. Il Renzi sviluppista di Cassino è un premier in difficoltà nei sondaggi che utilizza la metafora della Giulia Alfa Romeo per provare a risalire la china. Visita rapidamente le linee con Marchionne. Il manager gli riconosce «il merito di avere il coraggio di scommettere sul futuro, la capacità di andare avanti anche se lo prendono a schiaffi». Un endorsement per il Sì? «Io sostengo il Sì ma andiamoci piano con gli endorsement - spiega Marchionne - non so quanto faccio un favore al Sì sostenendolo troppo. Ma qui non si tratta di Marchionne che appoggia Renzi. Si tratta dell’Italia che avranno i nostri figli, della possibilità di far ripartire questo Paese. Per il resto sono nauseato dagli insulti di questi giorni».
Poco lontano, a lato della linea, Mauro, 40 anni, osserva in silenzio. Qui nella fabbrica che è ripartita, chi prenderà più voti? «Credo che qui vincerà il No. Siamo una fabbrica grande, ci saranno i Sì e i No com’è normale. Ma penso che prevarrà il voto contro». Per quale motivo? «La gente vota No per mandare a casa Renzi. Perché è arrabbiata». Arrabbiati voi? Avevate la cassa e adesso, lentamente, state tornando a produrre, avete un reddito sicuro, che cosa temete? «Chi vota no lo fa perché ha paura che le cose cambino». Lei voterà no? «Sono confuso ma alla fine credo che voterò no. Non mi fido dei politici. Se gli dai più potere di quello che hanno oggi c’è il rischio che ne approfittino». Antonio è iscritto alla Cisl. Ha 52 anni. Risponde al telefono: «In questi giorni sono in cassa integrazione a rotazione». Come voterà al referendum? «Voterò Sì perché spero di dare una mano per rendere l’Italia più efficiente». Si fida dei politici? «Lo so che quelli del No dicono che non bisogna fidarsi. Ma dico: ci sta bene come siamo messi adesso? Poi penso che non ci saranno cataclismi né se vince il Si né se vince il No». Anche Pierluigi è in cassa a rotazione: «Porto a casa 1.000 euro al mese. Ho due figli e per fortuna mia moglie lavora. Penso che in questa fabbrica vincerà il No. La gente non vuole avere governi non eletti, vuole potersi scegliere i politici». Questo cambierà la sua vita? «Non lo so». L’ultima parola è di Mauro, lo scettico: «Sa che cosa avrebbe potuto portare un po’ di voti al Sì in questa fabbrica? Un giro come si deve tra le linee a parlare con la gente. Invece Renzi è arrivato ed è andato via quasi subito. Qualcuno ci è rimasto male». Nella fabbrica sotto l’abbazia, il diavolo si nasconde nei dettagli.
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Marchionne: “Sì a Renzi Positiva la riforma, nauseato dagli insulti” Paolo Baroni  Busiarda
«Se vincono i No? Il mercato saprà adeguarsi» risponde Sergio Marchionne a chi gli chiede cosa accadrà dopo il 4 dicembre. «E’ una situazione gestibile - aggiunge - . Il problema è quale indicazione diamo, di un Paese che non è disposto a cambiare». L’ad di Fca parla a Cassino, lo stabilimento del rilancio del marchio Alfa, dove ieri si è svolta l’assemblea annuale dell’Anfia, l’associazione delle imprese della filiera auto. Matteo Renzi è intervenuto poco prima dal palco scagliandosi contro «i profeti nel No, che se avessero prevalso a suo tempo oggi in Italia non ci sarebbe più un’industria automobilistica». Secondo il premier «l’auto è una grande metafora del Paese: non si può vivere di nostalgia, ma occorre guardare avanti e tornare a immaginare il futuro», alzando sempre di più la posta.
Quando a fine mattinata l’ad di Fiat Chrysler incontra i giornalisti la politica diventa così un tema obbligato. «Spero sinceramente che al referendum ci sia un voto positivo», dichiara Marchionne «assolutamente nauseato dagli insulti e dalle cose pazzesche che sento nei dibattiti. Per di più abbiamo confuso le cose: che ci piaccia o no Renzi e la riforma costituzionale. Renzi scade nel 2018 e ad allora potremo esprimere il nostro punto di vista. La riforma costituzionale è un altro discorso». A Marchionne, comunque, «dispiacerebbe enormemente se ci fosse un No. Non so se dicendo questo aiuto o meno Renzi. La riforma non è perfetta, si può sempre migliorare, ma qualcosa bisogna pur fare». Vada come vada l’ad di Fca «apprezza molto Renzi: con tutti gli insulti e le sberle che sta prendendo sta comunque andando avanti. E per questo lo stimo».
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“In Europa rivogliono i tecnici” Il premier si sente accerchiato L’Economist sceglie il No. E parte il totoministri: Bini Smaghi all’Economia Fabio Martini  Busiarda
L’autorevole Economist» vota No al referendum e auspica un governo tecnico al posto di quello guidato da Matteo Renzi? Raccontano che quando il presidente del Consiglio ha letto l’editoriale molto antipatizzante che gli ha dedicato il settimanale inglese, prima ha avuto un moto di fastidio, ma poi ha pensato di «valorizzarlo». Di trasformarlo in uno spauracchio da cavalcare nell’ultima settimana di campagna elettorale: cari italiani, state attenti che se cado io, arriva un governo tecnico.
Nelle segrete stanze il commento di Renzi è stato molto secco: l’«Economist» è stato chiaro, loro vogliono un nuovo governo Monti o qualcosa del genere, un governo che si allineerà, non fiaterà più in Europa, ma io non ci starò mai e lo racconterò agli italiani. Rilanciando lo spettro di quel «governicchio tecnichicchio» che Renzi - immaginandone la impopolarità - da tre settimane aveva qua e là ventilato, ma che ora è pronto a rilanciare con più energia di prima. .
L’editoriale dell’ultimo numero dell’«Economist» è un autentico pugno nello stomaco. Secondo il settimanale britannico, Renzi «ha sprecato quasi due anni ad armeggiare con la Costituzione. Prima l’Italia torna ad occuparsi delle riforme vere meglio è per tutta l’Europa». Per l’«Economist» le riforme vere sono «quelle strutturali, dalla giustizia all’istruzione», perché la riforma costituzionale proposta da Renzi «non si occupa del principale problema dell’Italia: la riluttanza a riformare». Il settimanale inglese si produce anche in una analisi della psicologia collettiva degli italiani: «Nel tentativo di porre fine all’instabilità che ha portato 65 governi in Italia dal 1945 introduce la figura dell’uomo forte. E questo nel Paese che ha prodotto Benito Mussolini e Silvio Berlusconi ed è vulnerabile rispetto al populismo».
Ma la parte più spiazzante è quella nella quale l’«Economist» si occupa anche dell’eventuale dopo-Renzi: in caso di vittoria del No, non è scontata «la catastrofe che tanti in Europa temono. L’Italia potrebbe mettere insieme un governo tecnico, come ha fatto tante volte in passato. Se, invece, la sconfitta ad un referendum dovesse innescare il crollo dell’euro, allora vorrebbe dire che la moneta unica era così fragile che la sua distruzione era solo una questione di tempo».
Certo l’«Economist» ha spesso il gusto per le prese di posizioni spiazzanti, programmaticamente diverse da quelle del «Financial Times» e tuttavia - restando espressione di quell’establishment collocato sull’asse Londra-Bruxelles - ovviamente non «parla» agli elettori italiani ma semmai agli investitori della City e non solo: per rassicurarli, per scongiurare collassi finanziari che nessuno in Europa vuole. E «parla» anche all’establishment politico europeo che non ama Renzi e col quale il presidente del Consiglio è entrato più volte in collisione. Sono arrivati anche a Roma i boatos che - tra Londra e Bruxelles - parlano di un nuovo governo - affidato al presidente del Senato Pietro Grasso o a Pier Carlo Padoan - con Lorenzo Bini Smaghi all’Economia e Mario Monti agli Esteri. Renzi, pur considerando questi boatos fantasie, non sottovaluta l’ostilità che oramai lo accompagna a Bruxelles e soprattutto sa bene che la sconfitta dei Democratici negli Usa lo ha lasciato più solo in caso in cui il dopo-referendum, rivelandosi incerto e contrastato, chiamasse in causa le principali cancellerie internazionali. Come accadde nel 2011 con Mario Monti.
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Al lavoro nella war room del Sì “Non è vero che siamo sotto” Una cinquantina di giovani smanettoni per la caccia agli indecisi Carlo Bertini Busiarda
Mancano dieci giorni e nella tana del giaguaro che tenta il sorpasso in corsa, non ci sono musi lunghi da sconfitta annunciata. Indirizzo, piazza Santi Apostoli 75, ma si potrebbe chiamare piazza delle vittorie dell’Ulivo, per quello che evoca nella memoria dei militanti anni ’90. La Boschi è di casa, Matteo Renzi non ci ha ancora messo piede, ma la sua presenza qui, oltre a correre sul filo dell’etere, trasuda dai muri. Nessuna sua fotografia, ma sulle pareti di questa war room molto all’americana quelle di gente comune, operai, ragazzi, donne, che narrano ad altri come loro i vantaggi del Sì per i cittadini. «Io voglio diminuire i politici e tu?», «Io voglio meno burocrazia e tu?», sono il perno della narrazione del “ragazzo di provincia”. Testimonial da marciapiede, tipo quelli usati da Hillary, anche se dirlo non porta bene.
Una cinquantina di giovani, 25-30 anni - educati, parlano a voce bassa, ben vestiti, niente piercing e dreadlock per capirci - smanetta sui pc. Tra tavoloni e tavolini molti piddini e “leopoldini”, in quattro team all’opera: area video, call center, ufficio stampa, area sito e social. E sopra, la stanza del caffè. I comunicatori multi-tasking sanno che quelli del No sono partiti prima e ora hanno più followers, ma non sono allarmati, «il vento è cambiato e si annusa nell’aria».
Il tassista fuori dal coro
«Allora jelo posso dì, voto pur’io Sì’». «E perché mi aveva detto che votava No?». Una smorfia e un gesto come a dire che il perché è ovvio. Il mood è che ora tutti si vergognano di confessare che votano a favore del governo, questo il succo della questione. Dicono che il tassinaro romano sia un buon termometro del sentire popolare, la confessione che «tutti nel mio parcheggio votamo Sì, tranne uno che è cocciuto», la motivazione «abbiamo capito che quelli del No ce vogliono fregà», sono un tonico per i renziani in trincea. Lo scambio di battute sull’auto bianca che la porta al Comitato, raccontato dalla campaign manager Simona Ercolani ai volontari, secondo loro è illuminante. E uno ti soffia nell’orecchio quella che deve apparire come la grande verità nascosta: «Non è vero che siamo sotto».
«Francesco, devi andare da Vespa e mi spiace, lo so che così saltano gli eventi in Sicilia», annuisce col capo l’ufficio stampa Rudy Calvo mentre chiama alla pugna il costituzionalista Clementi. Sulle ginocchia cartellina divisa per fasce televisive, mattina, pomeriggio, sera. Da Mattino Live, a Del Debbio, spazi da riempire nella settimana clou, dal 28 novembre al 4 dicembre, ospiti in studio da piazzare. Intorno il brusio.
La bufala sulla guerra
Da fuori chiamano per sapere come fare un comitato e il «porta a porta», ma non solo. Al call center ci sono i laureandi e laureati, background giuridico per districarsi meglio. «Il fronte di sinistra - così lo chiama Piercamillo, team leader dei social - ha lanciato pure questa bufala che con la riforma sarà più facile la dichiarazione di guerra e noi dobbiamo controribattere che non è vero».
«I sondaggi che a dieci giorni dal voto ci danno sotto caricano i ragazzi a impegnarsi sul territorio, sono un fattore mobilitante in questa fase», sorride Rudy Calvo. E sul territorio tutti a battere sul «door to door», in tasca il kit del volontario, penna Usb con materiale, spillette, bracciali, matite.
Guru a caccia di indecisi
I guru americani di stanza qui ora non ci sono, «stamattina c’era il Cacciatore», così chiamano David Hunter, socio di Jim Messina, arruolato per la conquista del target più prelibato, i mitici «indecisi». Apericene, format cool, per organizzare il consenso, cocktail rinforzati si sarebbe detto una volta per quei rendez-vous nelle case chic. Oggi è uno dei modi che questi ragazzi suggeriscono ai volontari sul campo. La Ercolani sfreccia da un lato all’altro, c’è il video di Franca Valeri per il Sì da render virale. Camicia bianca, fisico asciutto, ingegnere in Technogym, Mattia 26 anni, guida il call center. «Diamo supporto ai volontari per fare i banchetti, visualizzare sulla mappa gli eventi. Cosa ci chiedono? Come si eleggono i senatori, i risparmi sui costi...».
La violenza della rete
E la polemica su Renzi che si dimette se perde? Nessuno ci pensa, esorcizzano la questione. Qualcuno ricorda che «quando lo disse a Natale scorso lanciando il referendum, dopo non ci fu alcuna polemica». Dunque la colpa non è sua. E lo scoramento, il timore di perdere? Nella tana del giaguaro si corre e basta. L’unica paura è la violenza in rete, sulla pagina facebook del comitato hanno postato la foto di un proiettile, testimonial come il ballerino Roberto Bolle coperti d’insulti, «ogni slogan che lanciamo ci aggrediscono, stiano tutti molto più calmi».
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C’è la moglie di Brunetta dietro i tweet a favore dei 5 Stelle Ma la rivelazione non placa le polemiche tra Movimento e Pd Federico Capurso Busiarda
Una querela inoltrata dal sottosegretario a Palazzo Chigi Luca Lotti, due interrogazioni del Partito democratico a Camera e Senato e giorni di polemiche furibonde in Parlamento tra i dem e i cinque stelle: tutto nasce dall’account Twitter gestito sotto falso nome da «Beatrice Di Maio». L’anonimato dura poco. Il quotidiano Libero, con un colpo di scena, svela l’identità dell’idolo dei social pentastellati, i cui tweet al vetriolo contro Mattarella, il governo e il Pd erano seguiti da migliaia di persone. Beatrice Di Maio sarebbe, in realtà, Titti Ottaviani, moglie del capogruppo forzista alla Camera Renato Brunetta, tenuto - giura lei - all’oscuro di tutto.
Nulla a che vedere con il Movimento, dunque, come invece avevano ipotizzato i parlamentari del Pd negli scorsi giorni. La prima reazione arriva dal blog di Beppe Grillo: «Hanno parlato di cyberfango, il Pd ha sprecato soldi pubblici con un’interrogazione parlando di “una macchina del fango automatizzata per colpire il Pd”, per chiedere se Di Battista o Di Maio ne fossero a conoscenza. Altri hanno parlato persino di “hacker russi filo M5S”. Le comiche!», si legge nel post. E arrivano, poco dopo, gli attacchi dei parlamentari pentastellati. «La realtà e la verità, come al solito, sono un muro contro cui i troll del Pd sono andati a sbattere violentemente», commenta Danilo Toninelli, mentre il membro del direttorio Carla Ruocco punta decisa al sottosegretario Lotti (che aveva considerato diffamatorio un post di Beatrice Di Maio in cui era stato definito «mafioso»). «Querelare la satira e la libertà di pensiero è sempre grave e pericoloso - denuncia Ruocco -. Diventa grottesco se abbinato a una campagna di disinformazione farlocca e costruita sul nulla». In scia, i capigruppo alla Camera e al Senato, Giulia Grillo e Luigi Gaetti, che in una nota congiunta chiedono se, dopo le accuse, dai parlamentari del Pd arriveranno anche le scuse. Poi, da Grillo e dai parlamentari cinque stelle, parte un duro attacco al quotidiano La Stampa, che per primo aveva reso nota la denuncia contro l’account di Beatrice Di Maio.
Alla virulenza degli attacchi del blog di Beppe Grillo e dei grillini nei confronti di questo giornale, fa fronte la solidarietà espressa dalle senatrici del Pd Maria Spillabotte e Magda Zanoni che si preoccupano della deriva autoritaria «dei troll del Movimento che stanno insultando chi ha fatto il proprio lavoro di giornalista». Lotti, protagonista della vicenda, annuncia di non voler tornare indietro sulla querela che, a questo punto, colpirà la moglie di Brunetta.
«Ho denunciato chi mi ha dato del mafioso e credo che sia giusto che ci si veda in Tribunale, ha spiegato a margine di un incontro a Salerno per il Sì al referendum. Il risarcimento, comunque, andrà ad associazioni benefiche di Firenze». Chiamato in causa dagli attacchi dei cinque stelle, risponde anche Emanuele Fiano, firmatario dell’interrogazione alla Camera su Beatrice Di Maio. «Un account che diffamava le istituzioni è stato chiuso, a dimostrazione che la questione esisteva in tutta la sua gravità, commenta Fiano. Il problema dei 5 stelle è che gli strumenti della democrazia vanno bene solo quando non contrastano le loro opinioni». Il senatore Andrea Marcucci, autore dell’omologa interrogazione del Pd presentata però a Palazzo Madama, si chiede se i «troll» del Movimento 5 stelle «siano tutti parenti di Brunetta». Ma è la richiesta di scuse arrivata dai capigruppo pentastellati che provoca le reazioni più forti tra i parlamentari dem. «Fa sorridere che a chiederlo siano proprio i cinque stelle, che basano la propria attività politica sulla calunnia e sulla menzogna», contrattacca Andrea Romano.
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L’Economist si schiera “Meglio se vince il No” Renzi: ci vogliono deboli Il settimanale finanziario: e poi un governo tecnico La redazione si divide. Esultanza di GrilloTOMMASO CIRIACO ENRICO FRANCESCHINI Rep
DOPO VENT’ANNI di battaglia contro Silvio Berlusconi, l’Economist mette nel mirino Matteo Renzi. «Ha sprecato quasi due anni ad armeggiare con la Costituzione. Prima l’Italia torna ad occuparsi delle riforme vere, meglio è per tutta l’Europa», scrive il settimanale, tracciando anche scenari sui futuri assetti di governo: «Le sue dimissioni potrebbero non essere la catastrofe che tanti in Europa temono. L’Italia potrebbe mettere insieme un esecutivo tecnico, come ha fatto tante volte in passato». Una sconfessione pesante e un’apertura a una soluzione non politica, che provoca euforia tra i cinquestelle - con il blog di Beppe Grillo pronto a rilanciare a tutta pagina l’articolo - ma che non preoccupa Renzi. «Tutti sanno che se vince il Sì si aprirà una battaglia in Europa sui dossier più caldi - è il ragionamento - mentre con il No ci sarà una nuova soluzione “alla Monti”, e nessuno fiaterà a Bruxelles. Noi non ci staremo mai». Solo con le riforme, insomma, «l’Italia diventerà il Paese più stabile d’Europa: è evidente che qualcuno preferisca un esecutivo tecnocratico ». Lo schiaffo dell’Economist arriva nel giorno in cui Sergio Marchionne visita lo stabilimento di Cassino assieme al premier, spendendosi per il Sì il 4 dicembre. Il contro endorsement del giornale britannico, però, è fragoroso. «La riforma - si legge - introduce la figura dell’uomo forte. E questo nel Paese che ha prodotto Mussolini e Berlusconi, ed è vulnerabile rispetto al populismo ». Un restyling costituzionale, prosegue l’articolo, che non si occupa del «principale problema dell’Italia: la riluttanza a riformare ». Meglio sarebbe stato partire invece da altri interventi «strutturali », come la giustizia e l’informazione. Prevalesse il fronte del No, promette in ogni caso l’Economist, nessun dramma. E se provocasse il collasso dell’euro? «Allora vorrebbe dire che la moneta unica è così fragile che la sua distruzione era solo questione di tempo». L’affondo anti-Renzi, secondo indiscrezioni, avrebbe però diviso la redazione dell’Economist. Da una parte la direttrice Zanny Minton Beddoes e alcuni giovani editorialisti. Dall’altra, per il Sì, il corrispondente dall’Italia, i responsabili dei servizi sull’Europa e altri analisti. «Abbiamo appoggiato il Remain e Hillary – commenta una fonte interna al giornale - La scelta per il No potrebbe dunque essere considerata il bacio della morte ». Nel senso, cioè, di un terzo endorsement sconfitto nelle urne.
A nove giorni dal voto, intanto, moltissimo si muove, anche in chiave interna. E si segnala per attivismo anche Silvio Berlusconi: «Non credo che Mattarella potrebbe consentire delle elezioni con l’Italicum – è la tesi del Cavaliere - perché avremmo il rischio di ritrovarci Grillo al governo ». L’ex premier, inoltre, stuzzica l’attuale capo dell’esecutivo: «Ha sbagliato mestiere, avrebbe dovuto fare il presentatore tv. Io l’avrei preso». Non replica Renzi, impegnato nel suo tour elettorale. Il leader giura che le inchieste non influenzeranno il referendum - «un Paese maturo vota con grande libertà e tutti dobbiamo “scalare una marcia”» - e continua a battere soprattutto su un punto: «Il fronte del No vuole che si apra una nuova stagione di instabilità nel Paese».
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Bce, banche e rischio M5S i tre spauracchi dei mercati dopo il verdetto delle urne I timori degli investitori vanno oltre l’esito della consultazione. Faro puntato su mosse di Draghi, crisi del credito e pericolo di un’ondata populistaFERDINANDO GIUGLIANO Rep
L’inaspettato endorsement da parte dell’Economist del No al referendum costituzionale ha rilanciato il tormentone su quali siano le aspettative dei mercati rispetto al voto del 4 dicembre. La domanda richiede dei passaggi logici da brivido. Gli investitori non la pensano, ovviamente, allo stesso modo tra loro. L’Economist, per quanto autorevole giornale finanziario, può esprimere solo un’opinione tra le molte che circolano nelle trading room di Londra e di New York.
Di certo, c’è solo che il referendum sta catalizzando l’attenzione degli analisti internazionali, che da diverse settimane vengono a Roma ad incontrare la Banca d’Italia, il Ministero dell’Economia e i diversi partiti politici. Invece di fare il tifo per un risultato o per l’altro, a molti di loro interessa, più pragmaticamente, capire quali siano gli eventuali scenari in caso di vittoria del Sì o del No.
La vittoria del Sì viene data come la meno probabile, se non altro sulla base dei sondaggi. In quel caso, l’aspettativa è quella di una discesa dei rendimenti sui Btp e di un rinnovato interesse per alcuni titoli bancari. Anche questa ipotesi non è però priva di rischi: la domanda che in molti si fanno è se Matteo Renzi punti ad elezioni anticipate. In quel caso, il pericolo è che Renzi possa essere sconfitto dal Movimento 5 Stelle, il cui programma include un referendum per l’uscita dall’euro, percepito come destabilizzante.
Maggiore attenzione è ovviamente dedicata all’ipotesi di una vittoria del No. In questo caso, molto dipenderebbe dall’impatto sulla stabilità politica. Lo scenario che potrebbe portare a una reazione nervosa sui mercati è quello di eventuali elezioni anticipate, magari con una legge elettorale che favorisse i 5 Stelle. Un nuovo governo Renzi, oppure un esecutivo istituzionale sarebbero visti con minore preoccupazione.
L’altro problema di una vittoria del No riguarda la situazione del sistema bancario. Gli analisti sono convinti che anche con un’eventuale Sì, l’operazione di ricapitalizzazione del Monte dei Paschi di Siena resterebbe estremamente complessa. Il pessimismo si infittisce ovviamente in uno scenario in cui Mps dovesse cercare nuovi azionisti in un contesto di instabilità. Il timore è l’effetto domino, tale da mettere a repentaglio l’aumento di capitale di UniCredit.
L’altra incognita riguarda il comportamento della Banca Centrale Europea. Quattro giorni dopo il voto di dicembre, Mario Draghi dovrebbe annunciare il destino del quantitative easing, che potrebbe terminare a marzo. Gli investitori si aspettano un estensione degli acquisti di titoli di Stato di almeno sei o nove mesi.
Anche se ci dovesse essere turbolenza sui mercati nei giorni successivi al referendum, questo annuncio dovrebbe essere sufficiente per rassicurare gli investitori in Btp. I rendimenti italiani resterebbero sopra quelli spagnoli, ma è più difficile che gli investitori azzardino a scommettere contro una banca centrale. In caso contrario, invece, la paura di un allargamento pronunciato degli spread è molto forte.
L’altro dubbio riguarda il comportamento della vigilanza Bce nei confronti del Monte nel caso in cui l’aumento di capitale dovesse fallire. Entro fine anno, da Francoforte potrebbero partire le lettere che indicano alle banche quali sono i requisiti patrimoniali del cosiddetto “secondo pilastro”. La domanda è quanto dura la Bce deciderà di essere nei confronti di una banca che ha fallito in maniera evidente gli stress test.
In una fase politica così calda, l’editoriale dell’Economist farà discutere. Ma al di là di quello che sostengono le opposte tifoserie, le decisioni che incideranno maggiormente sulla nostra stabilità finanziaria potrebbero essere quelle che verranno prese dopo il 4 dicembre, a Roma e a Francoforte.
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Il troll di casa Brunetta “Sì, lady cyber-fango è mia moglie: fa satira” TITTI GIOVANNONI AMMETTE : “IO BEATRICE DI MAIO”CARMELO LOPAPA Rep
La spy-story col finale che non ti aspetti. Il “complotto” via web, con presunte implicazioni internazionali, che porta al pc di casa di una benestante arredatrice di interni. I cinguettii al veleno che diventano un macigno di cyberfango, ma nascondono la chioma bionda di una Titti.
Tommasa Giovannoni Ottaviani, per gli amici Titti Brunetta, consorte del più noto Renato, capogruppo di Forza Italia alla Camera. Ecco chi si cela dietro Beatrice Di Maio, finto nickname Twitter che da aprile ha sparato – è il caso di dire - una sfilza di messaggi pesantissimi sul conto del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, del premier Renzi, dei suoi ministri (Graziano Delrio soprattutto), del suo entourage. E giù fino al sottosegretario Luca Lotti, definito appena un “mafioso”.
Il quotidiano Libero ne rivela l’identità, lei ammette, in un’intervista pubblicata ieri: «Sono io, ma Renato non ne sapeva niente». Dopo che dieci giorni fa la Stampa aveva portato alla luce l’esposto depositato proprio dal sottosegretario toscano vicinissimo a Renzi. Vicenda dai profili surreali e dal risvolti paradossali, se non restassero agli archivi (e agli atti giudiziari della denuncia) gli insulti e le allusioni da querela che hanno scatenato la reazione di Palazzo Chigi. Che fosse uno pseudonimo, quella Beatrice Di Maio (ora oscurato), era chiaro a tutti. Presentato l’esposto, si era scatenato il fuoco di fila del Pd con tanto di esplicite accuse alla galassia dei troll targati Cinquestelle. Fino al sospetto estremo, i presunti link con hacker russi. Il giallo ci stava tutto.
«E invece ho deciso da sola di entrare su Twitter e di usare ovviamente un nick name, come fanno tanti altri » ha spiegato Tommasa Giovannoni Ottaviani, cinquantenne consorte di Brunetta dal 2011, madre di due figli, romana, sempre elegante e sorridente nelle foto patinate, una carriera da arredatrice. «Se Lotti si è offeso mi dispiace e me ne scuso», è l’unica concessione fatta, motivando il tutto con una sorta di diritto alla satira e allo sfogo via web al pari di «tanti altri». Ma la signora Brunetta una tra tanti non è. «Lui non c’entra, non ha mai saputo nulla di quel che facevo, gliel’ho raccontato l’altra sera» ha spiegato. E lui? Il capogruppo di Forza Italia? «Una costruzione complottistica da spectre infrantasi su una arredatrice di interni. Altro che macchina del fango, una follia, un boomerang», spiega in serata Brunetta al telefono. «Timori per la denuncia? Nessuno. È l’account di una signora per bene che non ha mai visto Grillo e Casaleggio, che dedica un paio di tweet al giorno dalla vena satirica alla realtà politica ». E gli insulti, le allusioni? «Fanno parte del linguaggio della rete che va sempre giù pesante. Piuttosto, mi chiedo una cosa - rilancia - di messaggi come quelli ce n’erano a decine sulla rete, nelle vignette, sui giornali, il contesto di allora era quello, e poi quei cinguettii incriminati risalgono ad aprile, perché la denuncia viene fuori adesso? Aspettiamoci altre puntate al veleno, che si risolveranno in altri boomerang. Ma non mi intimoriscono, vado avanti». Le teorie complottistiche sull’identità svelata intanto si sprecano sui social. Mentre Grillo sul blog passa al contrattacco. «È stata montata la bufala sul cyberfango, ora chiedete scusa: non è un fake, né un troll, né un algoritmo, né antani con scappellamento a destra. Hanno parlato perfino di hacker russi filo M5S. Le comiche». Luca Lotti, che di quegli insulti è stato comunque bersaglio, non demorde: «Ho denunciato chi mi ha dato del mafioso, giusto che ci si veda in Tribunale, il risarcimento andrà ad associazioni benefiche di Firenze». Grillini o brunettiani, poco importa chi ci sia dietro il nickname, insomma. La denuncia farà il suo corso.
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LA TERRA DESOLATA DELLA DEMOCRAZIA ANDREA MANZELLA Rep
NESSUNO dubita che non sia democratica la vittoria di Trump. Ma tutti temono che la democrazia americana non sia sufficientemente attrezzata per sostenerne il peso. Questa contraddizione è il dramma di tutte le “vecchie” democrazie: impreparate a mettere in sicurezza fenomeni straripanti di autoritarismi e di populismi, pur elettoralmente legittimati.
Dappertutto, il costituzionalismo politico del nuovo mondo “globale” deve fare uno sforzo gigantesco per “aggiornarsi”, per trovare un equilibrio all’altezza delle minacce. Con una diversa composizione istituzionale di poteri e contropoteri, di centro e periferie, e con mutati concetti di sovranità e di cittadinanza. Le democrazie del mondo devono, insomma, “reinventarsi”. “Democratizzare le democrazie” non è un gioco di parole ma un programma di rinnovamento istituzionale per armonizzare, nell’epoca delle masse senza partiti: l’efficacia dei livelli di governo, gli statuti di opposizione, le zone dei controlli neutrali, i diritti dei cittadini.
L’Italia non è in condizioni diverse dalle altre democrazie dell’Occidente. Comunque vada il nostro referendum (confuso con Armageddon) anche noi, come tutti gli altri, dovremmo ammodernare la nostra Costituzione alla luce di quel che avviene intorno e, soprattutto, dentro di noi. E anche noi — come suggeriscono le riflessioni sull’America profonda e ignorata — dovremmo cominciare dalle radici della convivenza sociale: le comunità locali.
Il Presidente del Consiglio dice che avrebbe preferito un neo-Senato composto esclusivamente da sindaci. Ha perfettamente ragione. I comuni italiani sono 7998. I sindaci-senatori sarebbero solo 21. Ma la questione non è di sproporzione numerica. È di sostanza rappresentativa. Un Senato “tutti-sindaci” avrebbe avuto almeno il senso di una rappresentanza forte e vera dei problemi del Paese reale.
Nei comuni passano, infatti, e si incrociano le grandi crisi di un tempo non solo italiano. In essi il morso della disoccupazione, dei “ritirati” dal lavoro, esce dalle statistiche e si fa vita vissuta: con gli “abbandonati” nelle grandi periferie urbane ma, forse ancor più penoso, nel “vicinato” dei piccoli centri. Nei comuni, ancora, specie in quelli minori: dove l’irruzione dei profughi e delle loro culture provoca alterazioni nei modi di convivenza e nelle consuetudini locali, quale che sia l’osservanza o la ripulsa del dovere d’accoglienza.
A ben vedere, dunque, è sui comuni che si addensano le ansie pesanti di due vuoti. La perdita dell’identità personale “fondata sul lavoro”. La perdita della “coscienza di luogo”. Sono proprio quei vuoti, nel sentire collettivo e nella rete sociale, che animano la protesta vociferante dei populismi. Cioè di movimenti che nascono “veri”, da concretissimi disagi, ma che poi si falsificano: per lo scarto tra velleità e gestione, per involuzioni organizzative illiberali.
La capacità di rappresentanza dei sindaci si è fatta perciò difficile quanto cruciale. Si può, dunque, rimpiangere l’occasione perduta di “costituzionalizzare” il loro lavoro. Restano, però, la loro centralità sostanziale e la questione istituzionale dell’adeguamento delle loro funzioni.
Nel 1993 una buona legge elettorale dette autonomia e rilievo ad una rappresentanza comunale che era stata fino allora immersa nella palude di patti proporzionali stipulati da lontano. Quel bene pubblico deve rimanere fermo (contro la riproduzione, tra obbedienze e ribellioni, di un impudente dirigismo: “populismo dall’alto”). Allora, però, si parlò di “partito dei sindaci”: come promozione di personalità. Ora è diverso. La “verticalizzazione” dei governi nazionali — in un mondo “liquido” alla ricerca affannosa di condizioni di stabilità e di “statualità” — è diventata inevitabile. Così la rappresentanza dei sindaci significa, innanzitutto, “intermediazione”: tra gli indirizzi politico-economici, che si giocano al centro e sul piano internazionale, e la “scommessa di vivere” che si gioca quotidianamente nei territori.
In questo senso, i sindaci devono poter funzionare da contropoteri sociali, in due direzioni. Come richiami a mondi concreti: contro le fughe in avanti del pur necessitato leaderismo nazionale. Ma anche come frangiflutti dell’ondata di piena populista.
La miscela di populismo e autoritarismo non è invincibile. Vedremo quale sarà la rete di protezione che riusciranno a creare i vecchi anticorpi della democrazia americana. Ma la convinzione è che la partita si giochi vivificando le comunità politiche di base. Da tempo Robert Putnam aveva denunciato la solitudine di massa nei luoghi dove Tocqueville vide la originaria forza costitutiva dell’associazionismo americano. Per ripetuti errori di attuazione del principio costituzionale di autonomia, presentano uguale degrado i nostri valori locali: malgrado la loro grande storia. Bisogna, allora e dovunque, ricreare un reticolo istituzionale che parta dai territori “perduti” per tentare di assorbire l’immensa bolla di delusioni e di rancori generata dalle ingiustizie, reali e percepite, del corso del mondo. Puntare su governi funzionalmente adeguati ai problemi dei luoghi sarebbe, anche per noi, un inizio umile ma onesto.
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DOVE NASCE LA VOLONTÀ DI RIFORMARE LA COSTITUZIONEMASSIMO L. SALVADORI Rep
 È un Leitmotiv dei sostenitori del No al referendum del 4 dicembre l’argomento secondo cui è una mera forzatura propagandistica che vi sia un nesso tra la crisi della governabilità in Italia e la Costituzione entrata in vigore nel 1948. Su questa tesi hanno insistito e insistono in particolare gli ex presidenti della Corte costituzionale Zagrebelski e Onida e il magistrato Armando Spataro. Cercherò di contraddire quanto da essi sostenuto in base a ciò che dice a chiare lettere la storia politica e costituzionale d’Italia a partire dalla elaborazione e firma della Costituzione oggi in vigore.
Tre i punti che intendo sottolineare (non sono certo il primo a farlo). Primo, che il testo costituzionale espresse un accordo raggiunto solo dopo accesi contrasti tra i maggiori partiti emersi sulla scena dopo il 1945 — Dc, Pci e Psi — e fu il frutto del comune interesse a trovare in un sistema a basso tasso di governabilità del Paese una reciproca assicurazione dato il vivo timore che i campi opposti nutrivano l’uno nei confronti dell’altro. Secondo, che il bicameralismo perfetto, inizialmente respinto sia da Pci e Psi, decisi sostenitori del monocameralismo (e anche contrari alla Corte costituzionale!), sia dalla Dc, favorevole a un Senato che rappresentasse le professioni e gli enti regionali, fu infine individuato come strumento di quella reciproca assicurazione e architrave per rallentare il processo legislativo mediante il ping-pong tra le due camere. Terzo, che è contraria ad ogni evidenza storica la presa di posizione a difesa di una architettura costituzionale che il Parlamento — di fronte a carenze sempre più marcate — ha ripetutamente cercato di modificare senza concludere nulla: ad opera delle Commissioni bicamerali presiedute dal liberale Bozzi (1983-85), dal democristiano De Mita e dalla comunista Iotti (1992-94), dal pidiessino D’Alema (1997-98) col sostegno inziale di Berlusconi (il quale poi ha tentato a sua volta di varare la propria riforma).
Dunque: è dal seno del Parlamento che da quasi quarant’anni è sorta la volontà di riformare la Costituzione. Ma ora — di fronte al dato che a farsi interprete di tale volontà è l’attuale governo — i fautori del No la presentano come animata da un progetto eversivo, sostenendo che la responsabilità di quanto non funziona è da ricondursi non ai limiti della Costituzione fondata sul bicameralismo perfetto, ma ai partiti. Non si domandano quale sponda questa Costituzione abbia offerto e offra all’agire dei partiti che essi deplorano?
Credo siano istruttive le riflessioni — che, provenienti dalle parti opposte, si possono leggere nel saggio di Guido Crainz nel volumetto edito da Donzelli Aggiornare la Costituzione — sugli “intralci” inseriti nella Costituzione per frenare e ostacolare l’efficienza del processo legislativo.
Affermava Togliatti in sintonia con Nenni, entrambi piegatisi alla rinuncia al monocameralismo: «Tutte queste norme sono state ispirate dal timore: si teme che domani vi possa essere una maggioranza che sia espressione libera e diretta di quelle classi lavoratrici, le quali vogliono profondamente innovare la struttura politica, economica e sociale del Paese: (…) di qui la pesantezza e la lentezza nella elaborazione legislativa (…) e di qui anche quella bizzarria della Corte Costituzionale », di qui «tutto questo sistema di inciampi, di impossibilità, di voti di fiducia, di seconde Camere, di referendum a ripetizione, di Corti costituzionali, ecc.». Questo il parere di Togliatti e questa l’ammissione del leader della sinistra Dc Dossetti, il quale parlò di «una voluta intenzionalità nel delineare certe strutture non perché funzionassero ma perché fossero deboli (…): il governo anzitutto (…), quindi la doppia Camera, con pari autorità ed efficacia, quindi un congegno legislativo che (…) non poteva esprimere un’efficienza qualsiasi». De Gasperi, così come Pci e Psi temevano la Dc, paventava «l’accesso al potere di un partito che aveva intenzioni totalitarie e dittatoriali». Passarono gli anni e nel 1973, sulla base di una deludente esperienza, l’eminente giurista democristiano Mortati definì il Senato «un inutile doppione»; Terracini nel 1978 concluse che «per rendere più rapido e snello il lavoro del Parlamento » occorreva abolire il Senato; e seguirono Iotti, Berlinguer e Ingrao. Dalla diffusa consapevolezza della necessità di riforma della Costituzione nacquero le citate Commissioni bicamerali e anche il progetto di «Grande riforma», rimasto allo stadio di retorica politica, di Craxi: espressioni ad un tempo di propositi di innovazione e di miserandi fallimenti.
Facciano gli illustri costituzionalisti e magistrati citati la loro battaglia, ma non mettano in un cassetto la storia che sta dietro al progetto governativo di riforma, come se non fosse esistita e di pregnante significato. Dimenticavo che D’Alema, Berlusconi, Brunetta, Salvini, Grillo, Meloni, Gasparri promettono che, caduto col No il governo dell’eversore Renzi, provvederanno essi a varare, in tempi brevi e in concordia, le necessarie e buone riforme istituzionali. A loro l’Italia, se gli italiani vorranno.
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QUATTRO SCENARI PER IL DOPO MICHELE AINIS Rep
E SE invece questo referendum non fosse un finimondo? Se il 5 dicembre scoprissimo che non è cambiato nulla? Gettiamo in un cestino gli ansiolitici, proviamo a spalancare gli occhi sugli scenari che ci attendono. Sono quattro, come le stagioni.
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MA IL loro paesaggio è già dipinto, quale che sia il responso delle urne. Primo: la Costituzione. Siamo alle prese con la sua riforma da trent’anni; se lasciamo passare questo treno, chissà quando ne incroceremo un altro. Quindi l’alternativa è fra rivoluzione e stagnazione. Sicuro? Dal 1989 in poi sono state approvate 13 leggi di revisione costituzionale, che hanno corretto 30 articoli della nostra Carta e ne hanno abrogati 5. Insomma: di riforme ne abbiamo cucinate, eccome. Però piccole, leggere. Sono le macroriforme che ci risultano indigeste. È successo con 3 Bicamerali, è risuccesso nel 2005 con la Devolution di Bossi e Berlusconi. Invece nel 2012 l’introduzione del pareggio di bilancio, promossa dal governo Monti, ottenne la maggioranza dei due terzi in Parlamento, tanto da rendere impossibile il referendum.
E adesso? Comunque vada, s’apre una stagione di microriforme. Se vince il Sì, perché la Grande Riforma sarà stata già timbrata, lasciando spazio solo a qualche aggiustamento; d’altronde anche il presidente Renzi, anche il ministro Boschi, ammettono che il loro testo presenta talune imperfezioni da correggere. Se vince il No, lo stesso. Ne trarremo giocoforza la lezione che gli italiani accettano soltanto interventi chirurgici, puntuali, sulla Costituzione. E in entrambi i casi procederemo a piccoli passi, senza sbalzi, senza troppi scossoni. Se non altro, eviteremo d’inciampare.
Secondo: la legge elettorale. Verrà emendata, a prendere sul serio il «foglietto » ( copyright Bersani), ovvero l’accordo siglato all’interno del Pd: e dunque via il ballottaggio, premio di governabilità, sistema di collegi. Ma anche a non prenderlo sul serio, resta pur sempre l’esigenza d’approvare una nuova legge elettorale, immediatamente dopo il referendum. O quella della Camera, o quella del Senato. Difatti: se la riforma costituzionale cade nelle urne, insieme ad essa cade anche l’-I-talicum (che presume una sola Camera politica); quindi tocca rimpiazzarlo. Se invece la riforma sopravvive, ci sarà da scrivere la legge elettorale del Senato, per renderlo operante. Mutando l’esito del voto popolare, non mutano gli effetti.
Terzo: il governo. Dovrebbe restare indenne da un’eventuale bocciatura: è un esecutivo, non un’Assemblea costituente. E ha davanti un referendum, mica una mozione di sfiducia. Invece no, non in questo caso. Il quesito che ci interrogherà fra dieci giorni si è caricato d’elementi politici, fino a oscurare il merito costituzionale. Sbagliato, però inevitabile; dopotutto votiamo (per la prima volta) su una riforma battezzata dalla stessa maggioranza, dallo stesso esecutivo ancora in sella. Dunque se prevale il Sì, Renzi rimane a cavallo; altrimenti verrà disarcionato. Davvero? Lui è pur sempre l’azionista di maggioranza del partito di maggioranza alla Camera, grazie al premio somministrato dal Porcellum. Sicché dopo Renzi c’è Renzi, oppure un renziano.
Quarto: le elezioni. Quando si vota? Dipenderà dal referendum, dicono tutti gli analisti. Se vince il No, elezioni anticipate; altrimenti la legislatura toccherà la sua scadenza naturale, nel 2018. Errore: si voterà comunque in primavera. Anche se vince il Sì, soprattutto in questo caso. Per una ragione politica: a quel punto, il presidente del Consiglio passerà all’incasso, come farebbe chiunque altro nei suoi panni. Per una ragione istituzionale: si può tenere in vita, per un paio d’anni ancora, un Senato abrogato dal voto popolare? Sarebbe come se nel 1948, dopo l’entrata in vigore della Carta repubblicana, si fosse lasciato sopravvivere il Senato regio, come un fantasma intrappolato nella città dei vivi. Sicché mettiamoci tranquilli: il voto del 4 dicembre è solo un antipasto. E il pasto cuoce già nel forno. Speriamo di non farne indigestione.
michele. ainis@ uniroma3. it ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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