venerdì 18 novembre 2016

In fondo già un po' ci manchi



Corriere della Sera



Ultimo giorno di sondaggi Il No ancora avanti di otto punti

 Per almeno due italiani su tre sarà un plebiscito sul premier Trump non aiuta il Sì, Cuperlo e Verdini ininfluenti sul risultato

Nicola Piepoli  Busiarda

Dopo il «tempo della Brexit» e il «tempo di Trump» c’è il «tempo del referendum». A partire da oggi non si potranno più pubblicare sondaggi, il che significa che il Referendum sulla Riforma Costituzionale è alle porte.
Quasi tutti gli italiani si dimostrano informati sulla data del referendum e tre quarti pensano di essere informati anche sui suoi contenuti. Noi sappiamo a priori che si tende a sopravvalutare questa informazione: alcuni test eseguiti indicano una conoscenza corretta della riforma in un italiano su tre. Non meno di due italiani su tre, tuttavia, voteranno di pancia, quasi che il referendum fosse pro o contro l’attuale presidente del Consiglio.
Qualsiasi sia la ragione che spingerà gli italiani a votare, la ricerca ci dice che la maggioranza della popolazione andrà a votare. Non si tratterà del 90%, come dice il nostro sondaggio, ma probabilmente si supererà il 50% e potremmo arrivare a 30 milioni di voti validi. Ci troviamo di fronte a un paradosso: rispetto ai referendum recenti, non validi perché non avevano raggiunto il quorum del 50% più uno degli aventi diritto al voto, questo non ha bisogno di quorum ma lo avrebbe comunque superato.
Il trend mostrato dagli intervistati è stabile per il No in misura che sembra essere solo marginalmente discutibile. Cosa ci dice infatti il trend, avendo noi compiuto finora 12 rilevazioni in 7 mesi? Che il Sì aveva cominciato alla grande a maggio per essere doppiato dal No a metà luglio. Dopo questo mese non c’è stata praticamente storia: una continua maggioranza di No.
A questo punto si aggiungono altri paradossi: il primo è dato dagli indecisi che di solito tendono a schierarsi su posizioni positive mentre in questo caso aggiungono marginalmente acqua al mulino del No. Ma ancora più paradossali i perché di questa probabile vittoria del No. L’opinione pubblica infatti vede nella vittoria del presidente Usa, Donald Trump, un fattore rafforzativo della vittoria del No.
A questo si aggiunge un secondo fattore disgregativo che è il Sì di Denis Verdini, interpretato dall’opinione pubblica come un «amico del giaguaro Trump». Il Sì di Verdini infatti aumenterebbe la possibilità, secondo gli intervistati, di scissione del Pd. Ma cosa sta avvenendo nel Pd? Gli italiani, che hanno un fondamentale buon senso, pensano in maggioranza che la presenza di Gianni Cuperlo all’interno della coalizione del Sì non cambi molto le carte in tavola. In ogni caso le tensioni all’interno del Pd potrebbero per una certa parte dell’opinione pubblica essere un elemento per chiarire che il Pd in questo momento ha due anime che non stanno più bene insieme e che potenzialmente hanno vie diverse da perseguire.
Il vero pericolo quindi è una scissione del Pd, con una maggioranza intorno a Renzi e una minoranza intorno a D’Alema: situazione che porterebbe il Pd su quote inferiori alle attuali e non sufficienti, nel corso dei prossimi anni, a fargli governare il Paese.
Ma è tutto così semplice? Le forze internazionali e le forze locali unite anche controvoglia nell’obiettivo di una sconfitta di Renzi al referendum? Di regola la politica italiana ha portato a soluzioni creative molto diverse da quanto l’opinione pubblica si aspettasse e in questo momento il ricercatore si augura che una soluzione appartenente al pensiero andreottiano del «tutto si aggiusta» prenda corpo per un futuro migliore del Paese, malgrado il pessimismo piuttosto diffuso dell’opinione pubblica sul proprio futuro.
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Nei corridoi del Transatlantico cresce l’idea di un esecutivo istituzionale guidato da Grasso Fabio Martini
Sembra un formicaio impazzito. Nel Transaltantico di Montecitorio da giorni gli onorevoli vanno e vengono, agitati dalle notizie che planano dai piani alti del Palazzo e da un enigma battente: se vince il No, che governo verrà? Cinque della sera, aula vuota, davanti alla buvette si incrociano Francesco Saverio Garofani, presidente della Commissione Difesa, il miglior amico di Sergio Mattarella in Parlamento; Bruno Tabacci; Luigi Meduri, già presidente della Regione Calabria e Beppe Fioroni, ministro nell’ultimo governo Prodi ed è lui a scherzare: «Niente paura siamo tutti democristiani!». E Tabacci, che ha sempre coltivato rapporti al massimo livello, da Mario Draghi a Romano Prodi, fino a Carlo De Benedetti, la vede così: «Il Sì, come spero, può ancora vincere, ma in caso contrario credo che l’ipotesi più plausibile sia quella di un governo istituzionale, capace di pacificare il fronte interno e quello dei rapporti con l’Europa. Certo, bisognerà vedere le proporzioni di un’eventuale vittoria del No. Un conto è 51 a 49 e altro conto sarebbe 60 a 40».
L’analisi di Bruno Tabacci è la più condivisa anche nei crocchi vicini, quelli di sinistra, di destra e di centro: l’agenda sarà dettata dalle percentuali finali del referendum e al tempo stesso tanti segnali lasciano pensare che, se Renzi si dimetterà, il primo tentativo di formare un nuovo governo possa essere affidato al presidente del Senato Pietro Grasso. Chiamato alla guida di Palazzo Madama senza mai essere stato parlamentare, scontata l’iniziale inesperienza, nell’ultimo anno, Grasso è entrato nel ruolo, ritagliandosi un profilo istituzionale. Non ha un buon rapporto personale con Renzi e con Berlusconi, ma a differenza della presidente della Camera ha evitato interviste e interventi di taglio politico e d’altra parte Grasso sa che un’eventuale “chiamata” sarebbe dovuta alla sua carica istituzionale, non certo all’ultradecennale amicizia con Sergio Mattarella.
A Grasso sembra pensare anche un personaggio come Massimo D’Alema, destinato a riprendere influenza in caso di vittoria del No: «Se Renzi volesse per forza dimettersi, il Capo dello Stato, in poche ore, potrà trovare una personalità al di sopra delle parti». Ma tutto questo Matteo Renzi lo sa. Sa che se dovesse cedere il governo, la «transumanza» di parlamentari «bersaniani» e «franceschiniani» che quasi tre anni fa lo premiò, stavolta potrebbe tradirlo. Mettendo a repentaglio anche la sua idea di tenere la guida del Pd. E infatti, da Palazzo Chigi, trapela l’ultima «pazza idea» coltivata da Renzi: in caso di vittoria del No, prendere atto della sconfitta, impegnandosi davanti al Capo dello Stato a dare la parola agli elettori, non prima di avere approvato la legge di Bilancio e una nuova legge elettorale. Un Renzi-bis di tre mesi per portare il Paese alle elezioni ad aprile 2017. Annuisce il senatore Augusto Minzolini, reduce da incontro con Silvio Berlusconi: «Sbagliato immaginare Forza Italia nel governo o in maggioranza, semmai daremo una mano per fare quella legge elettorale che Renzi proverà a fare per andare subito a elezioni». Ma con una sconfitta netta del Sì, Renzi perderà partito e governo? Dice il senatore bersaniano Miguel Gotor: «In ogni caso sarà Renzi a decidere: se lui molla, la palla passa a Mattarella. Ma senza mai dimenticarci che Renzi non è caduto dal cielo, ha avuto una fortissima investitura popolare e la sua leadership un giorno terminerà soltanto con una spinta eguale e contraria».
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Renzi dice no al governo di scopo “Non resto solo per galleggiare” In caso di sconfitta al referendum il premier conferma l’intenzione di lasciare Bersani e la minoranza Pd sono contrari: per noi deve andare avanti Alessandro Di Matteo  Busiarda
Niente «governicchi», nessun «galleggiamento» e tantomeno «inciuci»: se dovesse vincere il No al referendum «e se il giorno dopo qualcuno volesse fare pasticci, prendetevi quelli di prima». Matteo Renzi sembra aver rinunciato al tentativo di spersonalizzare il voto di dicembre, anche se continua a ripetere che il «referendum non è sul governo o sul Jobs act» e avvisa che si può votare Sì «anche se ti sta antipatico Renzi», perché la scelta è su una riforma «che aspettiamo da 20 anni».
Ma, sondaggi alla mano, il leader Pd si è ormai convinto che è quasi impossibile spoliticizzare la campagna referendaria e che, a questo punto, tanto vale tornare nei panni del rottamatore. Un messaggio, questo, rivolto non solo agli elettori ma anche, e forse soprattutto, agli interlocutori politici, dentro e fuori il Pd. A cominciare da Silvio Berlusconi, spiega un parlamentare renziano, che punta sulla vittoria del No immaginando poi un nuovo governo di larghe intese.
Il leader democratico viaggia ormai ad una media di 4-5 comizi al giorno, l’obiettivo è convincere quella «maggioranza silenziosa» che si nasconde nel bacino di elettori che non hanno ancora deciso. È a loro, soprattutto, che è rivolta la comunicazione di questi giorni.
Non lascia niente di intentato, ribadisce che la legge elettorale «cambierà in ogni caso», qualunque sia il risultato del voto. Soprattutto, tira bordate contro l’Europa: «Basta con l’austerity, non accetteremo che nei Paesi orientali dell’Ue si costruiscano i muri con i soldi italiani». Linea che non piace alla minoranza Pd, per Roberto Speranza è quasi «anti-europeista» e lo stesso Romano Prodi non è entusiasta: «Se spariscono le bandiere Ue la polemica rischia di prendere un significato equivoco», dice il professore a Repubblica.
Ma è proprio questa la linea sulla quale Renzi insisterà, non solo nelle prossime settimane. Il premier fiuta la trappola, le parole dette anche ieri da Pier Luigi Bersani non lo convincono: «Anche con una vittoria del No, il governo deve andare avanti. E se Renzi avrà una diversa opinione, ci penserà Mattarella». Ecco, in Renzi al momento prevale l’idea di non restare a Palazzo Chigi a farsi rosolare, come dice a più di un parlamentare Pd: «Se gli italiani diranno No e vorranno tornare nelle mani dei politici di prima, di quelli che per anni hanno pensato soltanto a galleggiare... Beh, è evidente, a galleggiare sono sicuramente più bravi gli altri». Tra i suoi soprattutto è forte la tentazione di fare piazza pulita senza farsi condizionare. Come dice un renziano doc: «Non lasceremo a M5s e Salvini la possibilità di spararci mentre siamo al governo. Si valuterà con Mattarella cosa fare, ma a quel punto Renzi, alla guida del Pd, avrà le mani libere e tornerà a fare il rottamatore a tempo pieno fino alle elezioni. Non faremo il bis del governo Monti».
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L’ULTIMA CACCIA AGLI INDECISIFederico Geremicca Busiarda
L’ultima  fotografia legalmente possibile degli umori del Paese alla vigilia del referendum immortala un elettorato ormai sfinito che marcia verso il voto del 4 dicembre con le idee, però, non ancora del tutto chiare. Secondo la rilevazione dell’Istituto Piepoli (14 novembre) l’esercito degli indecisi rappresenterebbe tutt’oggi un quarto del totale: ed è proprio questo 25% o giù di lì di cittadini incerti ad esser ormai diventato l’ultimo territorio di caccia grossa per i sostenitori del Sì, costretti ad un finale di campagna che forse non immaginavano.
Certo, dopo la débâcle americana - che ha rinverdito altri fiaschi clamorosi: a partire dal voto europeo del 2014 - sondaggi e sondaggisti sono stati investiti da commenti ironici o apertamente sarcastici. Eppure un filo comune lega la miriade di rilevazioni effettuate dall’avvio della campagna ad oggi: partito in vantaggio (56 a 44, per Piepoli) il Sì ora si trova a dover inseguire (46 a 54). E se gli indecisi sono via via diminuiti, restano in numero ancora così alto da non far dormire sonni tranquilli ai sostenitori del No.
È per questo che la bussola di Matteo Renzi è ormai decisamente orientata in quella direzione. Ed è per questo - per la conquista del voto degli indecisi - che si sentono e si continueranno a sentire tesi, argomenti e lettura dei fatti talvolta realmente sorprendenti.
L’ultimo in ordine di tempo, è la sorta di appello rivolto in queste ore dal premier-segretario alla cosiddetta «maggioranza silenziosa». Uno scandalo, secondo alcuni; mentre altri considerano quel richiamo poco più che un approdo inevitabile, considerati i tempi e l’aria che tira in giro per il mondo.
Alla «maggioranza silenziosa», fece appello per primo Richard Nixon, facendo di quella entità - dunque - una «cosa di destra» nel senso comune. Sepolta nel corso degli anni, è stata ora rispolverata da Trump nella sua trionfale campagna: The silent majority is back and we’re going to take our country back (la maggioranza silenziosa è tornata e stiamo per riprenderci il Paese). Renzi l’ha evocata in questi giorni per la prima volta: ed il suo riferimento non stona con una linea che, fin da prima del referendum, è stata sempre attentissima - anche attraverso semplificazioni talvolta discutibili - a cogliere umori e consensi dell’elettorato di centrodestra.
Un mix di liberalismo in economia e di populismo in politica che Eugenio Scalfari - al suo manifestarsi - definì «populismo democratico»: e oggi si coglie appieno la fondatezza di quella definizione. Il punto che resta da definire è se questo «populismo democratico» sia davvero il male minore di fronte al dilagare di populismi assai meno democratici o se il rilancio di una politica di sinistra-sinistra sia un antidoto migliore: se si guarda al voto americano e alla condizione nella quale versano - dalla Gran Bretagna alla Francia, dalla Spagna alla Grecia - i laburismi e i socialismi europei, qualche dubbio è lecito.
Anche per questo, in fondo, il referendum del 4 dicembre e l’incertezza che lo circonda può esser considerato da Renzi una sorta di prova generale delle elezioni politiche che verranno. Nello scontro col fronte del No, infatti, il premier sta come sperimentando un ampliamento dello spettro delle risposte possibili ai problemi sul tappeto. E cosi, alle soluzioni classiche patrimonio della sinistra (e di scarso successo, in giro per l’Europa), sta accompagnando suggestioni e temi cari all’elettorato moderato: e cioe, all’imperscrutabile «maggioranza silenziosa». Fra tre settimane il verdetto: che riguarderà certo il referendum, ma potrà riverberare effetti anche molto più in là.

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L’avanzata del No è in testa di sette punti ancora indeciso un italiano su quattro 
In un mese i contrari alla riforma aumentano del 3%. Per gli elettori la consultazione sarà soprattutto un referendum pro o contro Renzi

ILVO DIAMANTI
A DUE SETTIMANE dal referendum costituzionale gli orientamenti di voto sembrano definiti. Infatti, nell’ultimo periodo, il No ha allargato il proprio vantaggio. Secondo il sondaggio condotto nei giorni scorsi da Demos per Repubblica, ha raggiunto il 41%, mentre il Sì è sceso al 34%. La distanza è, dunque, di 7 punti, mentre il mese scorso era di 4. E in settembre di 8, ma a favore del Sì. In due soli mesi, dunque, le posizioni si sono decisamente invertite. E il No ha recuperato ben 15 punti. Ovviamente, occorre usare prudenza prima di considerare conclusa la partita. Meglio tener conto della “lezione americana”, impartita in occasione delle elezioni presidenziali. D’altronde, gli elettori incerti e reticenti, in questa occasione, sono ancora il 25%. Uno su quattro. La decisione ritardata (o non dichiarata) e l’in-decisione potrebbero determinare variazioni profonde, nell’esito del voto. Fino a rovesciare le previsioni. Com’è avvenuto proprio la settimana scorsa negli Usa. Dove il successo di Trump è apparso imprevisto. Anche se non era del tutto imprevedibile, visto che le distanze emerse dei sondaggi non erano così lontane dal margine di errore statistico. Nel caso del referendum, si aggiunge la complessità del quesito, che quasi il 45% degli italiani (intervistati) ammette di conoscere «poco o per niente». La geografia degli orientamenti, anche per questo, appare composita. Il “fronte del Sì”, in particolare, è più esteso nel Nord, ma si restringe nelle regioni del Centro e del Sud. Mentre il No prevale fra i più giovani e nelle componenti sociali più istruite. Tuttavia, sul voto referendario, più delle motivazioni sociali ed economiche, pesano quelle politiche. Solo fra gli elettori del Pd, infatti, il Sì risulta (nettamente) maggioritario (75%). Mentre negli altri partiti (con la parziale eccezione dell’Ncd) prevale la posizione opposta. In modo più o meno largo. Nella Lega e nel M5S, in particolare, il No è espresso dai 3 quarti degli elettori. Tra i Fratelli d’Italia: dal 60% - circa. I dati dell’Atlante Politico di Demos, però, evocano, soprattutto, l’idea di un voto marcatamente personalizzato. Da - e intorno a - Renzi. In modo coerente e conseguente alle scelte originarie del Premier. Il quale, attraverso il referendum, vorrebbe ottenere la legittimazione elettorale che ancora non ha avuto. D’altronde, oltre il 60% del campione nazionale (intervistato da Demos) considera il prossimo voto proprio così. Un referendum “a favore o contro Renzi e il suo governo”, che sta assumendo un orientamento decisamente negativo. Anche perché il giudizio popolare, al proposito, si sta deteriorando in modo rapido e profondo. Oggi, infatti, il 40% degli elettori attribuisce un voto positivo al governo. Dunque, 4 punti in meno rispetto al mese scorso e 6 rispetto a un anno fa. Questo giudizio, però, può essere letto anche in modo inverso e speculare. Che 6 persone su 10, dunque la larga maggioranza, valuta il governo negativamente. Peraltro, la stessa tendenza si osserva in rapporto alla figura e alla leadership di Renzi. Stimata positivamente nella stessa misura del governo: 41%. E in calo, anche in questo caso, di 4 punti nell’ultimo mese. Ma di 7 nell’ultimo anno. È una conferma del legame stretto fra il governo e il premier, nella percezione dei cittadini. Che si riflette sulle intenzioni di voto al referendum. Per questo una vittoria del No implicherebbe le dimissioni da Capo (del governo), secondo la maggioranza degli elettori: il 56%. In crescita di 3 punti nell’ultimo mese. Ma sancirebbe anche la fine della sua leadership nel Pd, secondo il 51% degli intervistati. Anche per questo il Pd, nelle stime elettorali, non cresce. Perché è, ormai, un partito personale. Il PdR. E ruota intorno alle sorti del Capo. Così, staziona intorno al 30%. Affiancato dall’unico soggetto di opposizione, oggi, plausibile. Il M5S. Che “rischierebbe” di vincere, in caso di ballottaggio. Mentre la Lega e Forza Italia sembrano riprendere quota. Ma volano basso. Intorno al 13%. A lunga distanza dai due rivali: Renzi e Grillo. PdR e M5S.
È come se la politica in Italia fosse sospesa. In attesa del referendum. Da cui dipenderà non solo la sorte di Renzi e del suo governo, ma anche degli altri principali partiti. Degli altri leader. Così, purtroppo, in pochi discutono della materia del referendum. Salvo i costituzionalisti e alcuni esperti. Oltre ai leader e ai militanti (schierati a prescindere). La posta in palio è un’altra. Il destino politico di Renzi. Il futuro – prossimo della politica, in Italia. E non ci sono parole per dire quel che sarà e saremo. Fra poco più di due settimane. Dopo il 4 dicembre. Ci mancano le parole perché non sappiamo. Quel che sarà e saremo.
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E l’attivismo del premier non inverte la tendenza 
IL GOVERNO. ARRETRANO I CONSENSI, PD E M5S ALLA PARI

ROBERTO BIORCIO FABIO BORDIGNON
L’INSTANCABILE attivismo del premier, nel corso delle ultime settimane, non sembra avere prodotto effetti apprezzabili, se misurati con il metro del consenso popolare. Al contrario: l’esecutivo e il suo capo arretrano di qualche punto, rispetto ad ottobre, nel giudizio dei cittadini. Mentre, nelle intenzioni di voto, Pd e M5S sono ormai appaiati. Sospinti dal vento americano, tornano invece a crescere, nel frammentato campo del centro- destra, la Lega e Salvini.
Quatto punti in meno per il governo - le cui valutazioni positive si fermano al 40% -, quattro punti in meno per Matteo Renzi, che comunque guida la graduatoria dei leader (41%). La rottamazione di Equitalia, le polemiche con l’Ue, la moltiplicazione degli annunci - l’ultimo sugli sgravi fiscali per i neo-assunti nel Mezzogiorno non sembrano incidere sulla fiducia nel governo, che resta elevata tra gli intervistati più anziani e meno istruiti.
Il grande protagonismo mediatico del premier-segretario non aiuta il Pd®, che scivola sullo stesso livello del M5S, nella competizione tra partiti, e partirebbe in svantaggio nel confronto diretto del ballottaggio. Soprattutto, non ha arrestato l’avanzamento del No, nelle scelte per il Referendum costituzionale.
Del resto, l’eterogeneo schieramento che si oppone alla Riforma è riuscito, almeno per ora, a sommare le forze dei rispettivi partiti. Tale risultato è garantito, in primo luogo, dalla elevata compattezza degli elettorati delle due formazioni più radicali, nella loro opposizione al governo: il M5S e la Lega. Di Maio e Salvini possono essere considerati i veri leader del fronte del No: i più apprezzati, tra chi intende bocciare la Renzi- Boschi. Il peso elettorale del M5S rimane sostanzialmente invariato, mentre i suoi leader arretrano di qualche punto.
I cambiamenti più significativi, tra quelli registrati dall’Atlante politico di Demos, riguardano invece la Lega, che cresce di ben quattro punti – da meno del 10% a quasi il 14% - tornando a superare Forza Italia (12%).
Il segretario del Carroccio, Matteo Salvini, candidatosi sabato scorso alla guida del centrodestra, sale al 38% dei consensi, fermandosi a tre sole lunghezze da Renzi. Ma il suo partito, che mantiene un elevato consenso nel Nord e nelle ex-regioni rosse, trova difficoltà a superare il 5-6% nel Centro Sud, dove la protesta contro il governo premia soprattutto il M5S.
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Dopo il voto  Renzi-bis, governo tecnico o urne anticipate le carte del Quirinale se la riforma non passa
Il premier perderebbe le leve del potere e il ruolo di leader del Pd se decidesse il ritiro unilaterale: meglio il rimpasto

IL PUN TO DI STEFANO FOLLI Rep
ERA stato Giorgio Napolitano, anni fa, a ricordare che non esistono “governi tecnici”: esistono solo governi “politici” in quanto ricevono la fiducia da una maggioranza parlamentare. In precedenza, molto tempo prima, anche Ugo La Malfa sosteneva lo stesso principio. Quindi nemmeno Mario Monti, peraltro nominato senatore a vita il giorno prima dell’investitura proprio da Napolitano, guidava un “governo tecnico”, bensì un esecutivo fondato su una regolare maggioranza. Una larga maggioranza, verrebbe da aggiungere.
Il tema è riaffiorato in queste ore quando il presidente del Consiglio e segretario del Pd è tornato a insistere sul punto: in caso di vittoria del “No” il 4 dicembre, egli sarà contrario a qualsiasi ipotesi di “governo tecnico”. Definizione che nel suo linguaggio equivale all’incirca a “governicchio”, ossia compagine di basso livello destinata a vita breve. Ovviamente Renzi sa bene che tutti i governi, nel momento in cui ricevono la fiducia, diventano espressione della maggioranza che li ha votati. È interessante allora capire cosa intende il premier con questo riferimento ai “tecnici” o ai governi di corto respiro (una volta si sarebbe detto “balneari”, ma in questo caso saremo in dicembre e si dovrebbe parlare semmai di governo “natalizio”). Di certo a Palazzo Chigi si pongono il problema del dopo referendum in caso di sconfitta della riforma Boschi. E Renzi sembra aver colto il centro del problema. Nell’eventualità del “No” vittorioso il Quirinale tornerà a tutti gli effetti al centro della scena. Ciò significa che si trasformerà nel “motore di riserva della Repubblica che si accende quando le altre istituzioni si inceppano”, secondo una nota immagine di D’Alema.
Non c’è dubbio che il motore istituzionale sarebbe inceppato se il “No” vincesse. Ma non sarebbe un passaggio più complesso di altri già vissuti in passato. Ci sarebbe da ripensare e riscrivere la legge elettorale su cui sta per pronunciarsi anche la Consulta; e si dovrebbe estenderla al Senato con le dovute differenze. Soprattutto si tratterebbe di restituire equilibrio a un paese lacerato non su una qualsiasi riforma, ma sulla Costituzione: la carta fondamentale, la cornice della convivenza. S’intende che questo vale anche in caso di vittoria del “Sì”. Se prevalessero i sostenitori della riforma, magari con uno scarto minimo, non sarebbe di buon gusto dare il via a una sorta di baccanale: al contrario si presenterebbero delicati problemi di attuazione della legge. Il nuovo vestito costituzionale dovrà essere adattato alle istituzioni già esistenti e la norma elettorale andrà comunque rivista, non tanto per i vaghi impegni politici presi in queste settimane, quanto per rispettare la sentenza della Corte Costituzionale.
QUINDI la centralità della presidenza della Repubblica sarebbe confermata anche in questo caso. Le lacerazioni del paese andrebbero ugualmente curate con sollecitudine perché gli strappi degli ultimi giorni, con il veto-non veto (in realtà una semplice riserva) posto al bilancio dell’Unione, sono destinati a lasciare una traccia. Indicano che il governo Renzi sta giocando con spavalderia tutte le carte a sua disposizione in vista del 4 dicembre. Come ha detto non senza candore il sindaco di Firenze, Nardella, “con la stessa maggioranza silenziosa che ha fatto vincere Trump in America, vincerà il “Sì” in Italia”.
TUTTAVIA, se Renzi-Trump fosse sconfitto nelle urne, sarebbe giocoforza per lui presentarsi dimissionario davanti a Mattarella. Questo non equivarrebbe a uscire di scena. Anzi, la critica ai “governi tecnici” fa pensare l’esatto contrario. È come se Renzi intendesse dire fra le righe al capo dello Stato, di cui non può non riconoscere il ruolo cruciale, che lui e il Pd non intendono appoggiare un’eventuale personalità indipendente a cui il Quirinale avesse in animo di rivolgersi. Una simile opzione rientrerebbe senza dubbio nelle prerogative presidenziali, purché si riuscisse a cucire una maggioranza in Parlamento. Ma oggi è evidente che l’unica maggioranza possibile continua a essere l’attuale, magari rinsaldata da qualche forma di convergenza con il centrodestra berlusconiano (a cominciare dalla legge elettorale).
Quindi è plausibile - ma nessuno conosce al momento le intenzioni di Mattarella - che Renzi sia rinviato alle Camere, magari dopo un giro di consultazioni e forse un incarico esplorativo (il presidente del Senato Grasso?). In Parlamento la maggioranza affermerebbe la sua esistenza perché nessuno nel Pd e fra i centristi avrebbe voglia di correre alle elezioni dopo una sconfitta. Del resto, sarebbe comunque necessario riassestare la legge elettorale. Potremmo quindi assistere alla nascita di un Renzi-bis attraverso un sostanziale rimpasto dei ministri. È chiaro che il premier sarebbe gravemente indebolito dalla sconfitta, ma non dovrebbe essere difficile per lui giustificare la nuova investitura: avrebbe evitato il “governicchio” e assicurato la stabilità. Viceversa, un ritiro unilaterale per rinchiudersi nella segreteria del partito, farebbe perdere a Renzi le leve del potere e non gli garantirebbe la sopravvivenza come leader del Pd.
In ogni caso è facile immaginare che il mandato del presidente della Repubblica non si limiterebbe alla riforma elettorale. Il Renzi-bis dovrebbe darsi come priorità, d’intesa con il Quirinale, di far dimenticare gli strascichi del referendum e restituire serenità a un paese diviso. Nonché di curare le ferite aperte con l’Europa. Se Renzi fallisse, sarebbe il programma di un governo istituzionale di fine legislatura.
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Renzi fissa i suoi paletti “Mai un governo tecnico Italicum via comunque” 
Il premier e le ipotesi di sconfitta: “Non sono il tipo che fa quel genere di pasticci, fanno salire le tasse” 

GOFFREDO DE MARCHIS Rep
ROMA. Matteo Renzi dice cosa non succederà, dal suo punto di vista, se vince il No al referendum sulla riforma costituzionale. «Non posso essere quello che si mette d’accordo con gli altri per fare un governo di scopo o un governicchio», spiega intervenendo a Rtl 102,5. Che è un modo per continuare la campagna referendaria lasciando intravedere quelli che lui chiama «strani pasticci», senza il successo del Sì, pasticci che non lo vedranno protagonista: «Li faranno, ma non con me».
Naturalmente, il presidente del Consiglio non può spingersi oltre, non può mandare un messaggio catastrofico. «Il 5 dicembre - aggiunge - non c’è l’invasione delle cavallette o l’Armageddon. Se vince il No, semplicemente, rimane tutto come adesso ». Anche un’altra frase svela i pensieri futuri del premier e contemporaneamente cerca di entrare nella testa degli elettori: «Il governo tecnico lo abbiamo avuto più volte e sono salite le tasse». Si parte da qui dunque per immaginare gli scenari che fanno a Palazzo Chigi tenendo conto dei sondaggi, compresi quelli in possesso della presidenza del Consiglio, che pronosticano la vittoria del No.
Il futuro è nelle mani del capo dello Stato Sergio Mattarella, ma una risposta alle soluzioni offerte dal Quirinale dovrà darla, innanzitutto, il premier in carica. Al momento la reazione di Renzi è la più imprevedivile, in caso di sconfitta. Ma le sue frasi di ieri fanno capire che qualcosa si sta muovendo per prepararsi un piano B. L’impressione è che Renzi potrebbe ancora guidare l’esecutivo per andare a votare il prossima anno, una volta corretta la legge elettorale anche in base alle indicazioni della Corte Costituzionale. Ieri ha confermato: «L’Ita-licum cambierà, a prescindere dal risultato». Con un Renzi bis, l’ex sindaco affronterebbe le urne per la prima volta. Non nelle condizioni sognate in partenza: con un sistema di voto che garantisca subito un vincitore e una maggioranza certa. Ma se l’esecutivo futuro dev’essere solo lo strumento per cambiare l’-I-talicum e poi correre alle urne nella primavera del 2017, perchè non dovrebbe essere il segretario del Pd a guidarlo? Se comunque dovrà uscire una maggioranza con alleanze spurie, cioè con le larghe intese, perchè non provare a vincere le elezioni e fare lui stesso quelle alleanze?
È un’ipotesi, che prevede quiaccettazione o di un rinvio alle Camere o di un reincarico. Con una scadenza a breve termine. L’altra strada è pilotare, da segretario del Pd, la nascita di un “governo del presidente”, non di scopo ma legato direttamente alla figura del capo dello Stato, magari guidato dal presidente del Senato Piero Grasso, aspettare che passi la burrasca della sconfitta e poi rientrare in pista nel voto del 2018. In questo caso però le controindicazioni sono maggiori. Non è affatto detto che nel Pd gli equilibri rimangano quelli attuali. Qualcuno già vede movimenti di ministri oggi, figuriamoci dopo la mancata vittoria del Sì. Un governo Padoan ha esattamente l’identikit escluso nelle dichiarazioni di ieri. In più il 2017 sarà un anno complicato per l’economia. Senza crescita tornerà lo spettro delle clausole di salvaguardia con l’aumento dell’Iva. Un colpo alle ambizioni dei partiti chiamati a sostenere questo esecutivo fino al 2018.
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