venerdì 4 novembre 2016

La caduta degli dei democratici. L'industria dell'informazione produce rozzobruni per reazione


Rampini è semplicemente vergognoso [SGA].

Orbán, Maduro e Al Sisi tutti i leader che tifano Trump 

Con il tycoon si schierano le destre autoritarie e xenofobe E in Italia lo promuove il 21% contro il 7% nei Paesi nordeuropei

FEDERICO RAMPINI Rep 4 11 2016
NEW YORK. Se votasse il resto del mondo, Hillary Clinton stravincerebbe. Ma l’elenco dei paesi dove Donald Trump avrebbe un risultato decoroso, è sorprendente. In testa arriva la Cina, seguita dall’Italia. Il nostro è fra tutti i paesi democratici quello dove Trump raccoglie più consensi (ancorché minoritari). Lo rivela un’indagine dell’autorevole Pew Research Center, uno dei maggiori istituti demoscopici americani. All’interno dell’inchiesta intitolata Global Attitudes Survey, è stata posta una domanda molto specifica. Non si tratta di esprimere simpatia/antipatia, o un giudizio generico sull’attitudine a governare gli Stati Uniti. La domanda del Pew è questa: «Quanta fiducia hai che il candidato Trump farebbe la cosa giusta negli affari internazionali? ». Dunque è un quesito che riguarda la competenza e l’affidabilità in politica estera o nelle questioni economiche globali (dai trattati di libero scambio alla Siria, dal Messico ai rifugiati). Domanda legittima, che si pone ogni quattro anni quando l’America sceglie il suo presidente. L’impatto di questa elezione è mondiale, per la leadership e l’influenza degli Usa. Già ai tempi di George W. Bush infuriò un dibattito — molto straniero — sul “diritto” che gli altri popoli dovrebbero avere di esprimere un loro voto, visto che il presidente degli Stati Uniti può invaderli, bombardarli, colpirli con sanzioni, eccetera.
Il tema affrontato dal Pew Research Center è un terreno minato per Trump. Non avendo mai ricoperto un incarico di governo, a differenza di Hillary che è stata capo della diplomazia Usa, lui è in svantaggio. Dunque non stupisce che all’estero l’affidabilità di Trump per «fare la cosa giusta negli affari internazionali» riceva voti bassi. Quello che colpisce sono le differenze tra paesi. In Italia il 21% lo promuove, mentre nelle democrazie nordeuropee lui non supera il 7%. Perfino in Francia, dove pure le affinità fra Marine Le Pen e Trump sono evidenti, l’affarista newyorchese col 9% riceve meno della metà dei consensi italiani. Può giocare un effetto Berlusconi? Gli analisti americani da tempo sottolineano le analogie tra i due “imprenditori scesi in politica”. Un’altra chiave può essere l’effetto Putin. Nel micro-test che sono i commenti al mio blog sul sito di Repubblica, osservo una nicchia di tenaci simpatizzanti del leader russo che difendono a spada tratta il suo “amico americano”. La ricerca Pew conferma questa pista: dopo l’Italia i Paesi dove Trump riscuote i voti più alti sono Ungheria e Polonia, in preda a derive autoritarie e xenofobe, con varianti locali dell’Uomo Forte putiniano. In quanto alla Cina, anche lì ho avuto la possibilità di condurre un piccolo test personale quando andai al seguito di Obama per il G20 di settembre. Nella cerchia delle mie conoscenze cinesi ho trovato giudizi duri su Hillary Clinton. Il regime non le ha mai perdonato una sua dichiarazione fatta proprio a Pechino — «i diritti della donna sono diritti umani» — e da allora i media la descrivono come una nemica della Repubblica Popolare. Da notare che nell’indagine Pew mancano purtroppo sia i russi sia i messicani: verosimilmente agli antipodi gli uni dagli altri.
Il sondaggio compiuto sulle opinioni pubbliche straniere, coincide abbastanza con gli orientamenti dei rispettivi leader. Molti governanti si sono espressi in modo esplicito e hanno già “votato” per il loro presidente favorito. Jackson Diehl sul
Washington Post ha elencato tutti i leader che hanno offerto un
endorsement a Trump. In testa, come previsto, ci sono il premier ungherese Viktor Orbán e il presidente ceco Milos Zerman. Seguiti dal generale golpista egiziano Abdel Fatah Al Sisi, dal presidente turco Erdogan e dalla destra fondamentalista indiana. Poi c’è un elenco di simpatizzanti che hanno fatto trapelare la loro preferenza per Trump ma non sono arrivati all’endorsement esplicito: fra questi il premier israeliano Benjamin Netanyahu e il leader polacco Jaroslaw Kaczynski, più il presidente venezuelano Maduro. In generale il tratto comune che unisce l’Internazionale pro-Trump è il rifiuto dell’immigrazione o l’opposizione alle campagne sui diritti umani. Un altro curioso parallelismo: i Paesi che amano Trump sono quelli dove è più probabile che la famiglia Trump abbia qualche investimento o legami d’affari. Il Wall Street Journal ha ricostruito la ragnatela di rapporti economici tra Donald, i figli, e alcune potenze straniere. In cima ai partner d’affari ci sono personaggi dell’Azerbaijan e della Turchia. In altre occasioni sono spuntati intrecci con la Russia e con gli ambienti filo-russi in Ucraina.


The Donald ha sfidato la Storia per conquistare l’America razzista 
Il repubblicano ha fatto rivivere divisioni etniche e religiose a lungo latenti nel Paese Se vincesse, tutta la nazione sarebbe sconfitta Insultando messicani e musulmani, ha rilanciato l’interpretazione più restrittiva dell’identità Usa Alla base di molte sue idee c’è la negazione del ruolo che le minoranze hanno avuto negli Stati Uniti
EVAN CORNOG Rep 4 11 2016
La campagna presidenziale di quest’anno è insolita sotto molti aspetti, ma è tipico della tradizione americana che le divisioni razziali, etniche e religiose abbiano un ruolo importante nella vita pubblica. Donald Trump ha inaugurato la sua campagna bollando gli immigrati messicani come sfruttatori, narcotrafficanti e quant’altro, invocando poi il blocco totale dell’immigrazione musulmana, ha definito i quartieri urbani degradati inferni di violenza e fatto suo lo slogan nixoniano “law and order” (legge e ordine), in contrasto con le critiche mosse alla polizia per la recente epidemia di violenze ai danni di giovani afroamericani. Gli storici da tempo evidenziano l’ironia insita nel fatto che questa nazione di immigrati ha così spesso interpretato in senso restrittivo l’identità americana, cercando di limitare l’immigrazione di chi giudicava incompatibile con le istituzioni o i principi degli Stati Uniti.
Per la massima parte del diciannovesimo secolo, il grande male agli occhi dei nativisti fu l’arrivo dei cattolici dall’Irlanda. Molti dei primi coloni di Stati come il Massachusetts appartenevano ovviamente a sette protestanti che consideravano il Papa e i suoi cardinali forze oppressive a livello mondiale o provenivano da nazioni che avevano sofferto per mano degli eserciti o delle flotte delle potenze cattoliche.
Il metro dell’intensità e della natura dell’odio dei nativisti per il cattolicesimo è dato dal testo dell’opera di propaganda anti-cattolica più sensazionale del secolo, “Le terribili rivelazioni di Maria Monk”. Pubblicato nel 1836, questo scritto fasullo si spacciava come denuncia della licenziosità e della generale depravazione dei preti e delle suore in un convento con adiacente seminario a Montreal, in Canada. I lettori potevano indulgere in fantasie erotiche e contemporaneamente trovare conferma ai loro pregiudizi religiosi: per cui il libro divenne un best- seller, probabilmente l’opera letteraria contemporanea più venduta negli Stati Uniti prima de “La capanna dello zio Tom”.
Dopo la Guerra Civile una nuova immigrazione proveniente da un Paese avulso da qualsiasi versione del cristianesimo comportò una nuova drastica forma di restrizione all’immigrazione. Il Chinese Exclusion Act del 1882 escludeva i “lavoratori” cinesi, una categoria talmente vaga da comprendere in pratica chiunque, eccetto i diplomatici. (Questa restrizione rimase in vigore sotto varie forme fino al 1943.) Una delle motivazioni era che il peculiare aspetto fisico dei cinesi non ne avrebbe permesso l’integrazione nella società americana e quindi era opportuno escluderli a priori.
Nello stesso periodo in cui gli immigrati cinesi assumevano la valenza di problema politico negli Stati americani dell’Ovest, la crescita dell’immigrazione di cattolici dall’Italia e di ebrei dall’Europa orientale parve incarnare una nuova “minaccia” agli occhi di chi era convinto che gli unici cittadini desiderabili della repubblica fossero bianchi e protestanti.
Verso la fine del ventesimo secolo il timore dei movimenti politici radicali in Europa attizzò il nativismo americano, al pari dell’esperienza della Prima guerra mondiale. Questi elementi, stratificati sui pregiudizi anticattolici e antisemiti incoraggiarono una legge fortemente restrittiva sull’immigrazione, l’Immigration Act del 1924, che stabiliva quote mirate a ridurre drasticamente l’immigrazione complessiva e in particolare a tagliare il numero dei cattolici e degli ebrei in arrivo.
Nel 1924, il partito democratico, nelle sue due componenti, l’ala protestante del sud e quella delle grandi città del nord (che puntava sui voti degli immigrati), arrivò alla convention di New York diviso tra due canditati, William McAdoo, ex ministro del Tesoro, sostenuto dai nativisti, e Alfred Smith, governatore cattolico dello Stato di New York. Sull’immigrazione il partito si spaccò, tanto che la convention durò tre settimane e dopo 103 votazioni si arrivò a un compromesso candidando John W. Davis, poi stracciato dal presidente in carica, il repubblicano Calvin Coolidge. Quando, quattro anni dopo, fu Al Smith a correre, venne a sua volta sconfitto duramente dal portabandiera repubblicano Herbert Hoover.
Ovviamente nella storia della nazione a soffrire maggiormente della privazione dei diritti civili sono stati gli elettori afro-americani, che dopo l’emancipazione godettero del potere politico per un breve periodo nel Sud all’epoca della “ricostruzione” successiva alla Guerra civile, ma vennero privati del diritto di voto al termine della stessa, nel 1877. Solo con l’entrata in vigore della legge per limitare le discriminazioni elettorali, il Voting Rights Act del 1965, nel Sud riacquistarono potere politico: tuttora i tribunali federali sono chiamati a contrastare tentativi di sopprimere il diritto di voto dei neri.
L’anticattolicesimo che “Maria Monk” aveva contribuito a diffondere e di cui Al Smith era stato vittima aveva ancora un peso nel 1960, quando fu candidato alla presidenza un altro cattolico democratico, John Kennedy, tanto che in campagna elettorale Kennedy tenne un discorso a una platea di ministri protestanti in Texas, andando direttamente al punto: «Se l’esito di questa elezione dipende dal fatto che 40 milioni di americani hanno perso l’opportunità di diventare presidente il giorno in cui sono stati battezzati sarà tutta la nazione a essere sconfitta agli occhi dei cattolici e non cattolici di tutto il mondo, agli occhi della Storia, e agli occhi della nostra gente».
Le riforme degli anni Sessanta non riguardarono solo i diritti civili e elettorali, ma anche l’immigrazione. All’epoca, quasi in sordina, la legge sull’immigrazione e la nazionalità (Immigration and Nationality Act) del 1965 aprì le porte dell’America all’immigrazione regolare in misura senza precedenti da decenni. Per chi ancora vede l’”americano” come un bianco protestante il recente flusso di immigrati mina la supposta identità della nazione. E la minaccia terroristica offre lo scudo adatto ai dogma nativisti.
Quest’anno Donald Trump dà voce al nativismo al massimo livello politico dell’era post-bellica. Oggi è l’Islam, non il cattolicesimo, la religione condannata e gli immigrati latini e i neri americani sono il grande “problema”. Il partito repubblicano ha assunto per lo più una posizione scomoda a riguardo, in bilico tra l’ovvia necessità di conquistarsi voti che oggi non ha (quelli di molti latini) e il timore di perdere il sostegno degli elettori nativisti pro-Trump.

Va ricordato che 15 anni fa, dopo gli attacchi dell’11 settembre, il presidente George W. Bush tracciò una distinzione inequivocabile tra i terroristi di Al Qaeda e i musulmani in generale. A meno di una settimana agli attacchi, tenne un discorso al Centro islamico di Washington. Queste le sue parole: «Il volto del terrore non è la vera fede islamica. Non è l’essenza dell’Islam. L’Islam è pace. Questi terroristi non rappresentano la pace. Rappresentano il male e la guerra». L’America conta milioni di musulmani tra i suoi cittadini e apportano un contributo prezioso al nostro paese. Sono medici, avvocati, docenti di giurisprudenza, membri delle forze armate, imprenditori, negozianti, mamme e papà. E devono essere trattati con rispetto. Nella nostra rabbia ed emozione i nostri connazionali devono trattarsi con rispetto reciproco.
Se è vero che il nativismo e il razzismo hanno sempre fatto parte della politica americana è anche vero che è sempre esistito un altro elemento, fatto di tolleranza e inclusione. Gli ideali della Statua della libertà non sono sempre sostenuti appieno, ma restano ampiamente condivisi. In uno spot pubblicitario a favore della candidatura di Hillary Clinton appaiono i familiari di Humayun Khan, capitano dell’esercito americano, morto per salvare il suo reparto da un attentatore suicida in Iraq nel 2004. Al termine del filmato il padre del capitano, con gli occhi pieni di lacrime chiede «Signor Trump, ci sarebbe posto per mio figlio nella sua America? ». Forse questa elezione risponderà al quesito se nella nostra America c’è spazio per il capitano Khan. Se la risposta è no, allora, mutuando le parole di Kennedy, «sarà tutta la nazione a essere sconfitta ».
( Traduzione di Emilia Benghi)
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La Fondazione Clinton finisce nella morsa dell’Fbi 

Dopo il mailgate l’inchiesta sugli affari di famiglia. Tensioni tra i federali 

Paolo Mastrolilli Busiarda 4 11 2016
La morsa dell’Fbi si stringe intorno a Clinton, allargandosi dall’inchiesta sulle mail private a quella sui favori ottenuti per la Fondazione di famiglia. Questo però sta provocando fortissime tensioni all’interno del Federal Bureau of Investigation, e col dipartimento alla Giustizia, che rischiano di compromettere a lungo l’azione del governo. È molto improbabile, poi, che gli investigatori abbiano risposte definitive prima del voto, e ciò apre la porta a due scenari entrambi pericolosi: la sconfitta di Hillary aiutata dall’inchiesta dell’Fbi, costretta poi ad ammettere che non aveva violato alcuna legge; la vittoria di Hillary, seguita da una incriminazione che provocherebbe una crisi costituzionale senza precedenti.
Il «Wall Street Journal» ieri ha rivelato che l’inchiesta sulla Fondazione Clinton era cominciata nell’estate del 2015, sulla base del libro «Clinton Cash», in cui un ex scrittore dei discorsi di George Bush denunciava i favori concessi da Hillary quando era segretario di Stato a privati, aziende e governi che aiutavano la fondazione di Bill. 
In questo contesto, i servizi segreti di cinque Paesi avrebbero letto le mail della Clinton. Alcune intercettazioni segrete legate ad altri casi di corruzione avevano confermato i sospetti, ma il ministero della Giustizia aveva fatto pressioni per fermare le indagini, scontrandosi con il vice capo dell’Fbi Andrew McCabe, che poi però aveva frenato i suoi agenti. La moglie di McCabe, Jill, si era candidata al Senato in Virginia e aveva ricevuto fondi da Terry McAuliffe, amico storico dei Clinton. Fonti vicine all’agenzia dicono che il vero problema tecnico è la difficoltà di provare i reati: serve un quid pro quo evidente, e un chiaro passaggio di soldi in cambio di favori, per ottenere una condanna in tribunale. Altrimenti, in un caso di così alto profilo, il Bureau rischia di distruggere la sua reputazione.
L’inchiesta sulle mail private trovate negli apparecchi di Huma Abedin è invece cominciata all’inizio di ottobre, e il direttore Comey lo sapeva. Prima di annunciarla però aveva bisogno dei metadata, che servivano a capire quante di queste mail erano transitate dal server privato di Hillary all’account della consigliera Huma. L’Fbi ne ha trovate abbastanza per chiedere al dipartimento di Giustizia il mandato per leggerle, ma è molto improbabile che arrivi ad una conclusione in grado di scagionare Clinton prima del voto, perché ciò richiede di esaminare tutti i messaggi. Al contrario, uno solo di essi basterebbe a dimostrare l’esistenza di un reato, e un agente motivato a distruggere la candidatura di Hillary potrebbe farlo uscire come leak. Questo riporta alla mente scenari di interferenze tipo quelle dell’Fbi di Edgar Hoover tra gli Anni Trenta e Settanta, o anche a «Gola Profonda» Mark Felt, il vice capo dell’agenzia che aiutò Bob Woodward a smascherare il Watergate. 
Fonti vicine agli investigatori smentiscono che ci siano state dimissioni di massa per spingere il direttore Comey a riaprire l’inchiesta, ma le tensioni interne esistono, al punto che gli agenti sono stati richiami al silenzio. Il rischio più grave è la destabilizzazione che può seguire a questa bufera. Per l’Fbi sarebbe devastante aver influenzato le elezioni, determinando la vittoria di Trump, per poi ammettere che non esistevano reati. Altrettanto grave, però, sarebbe l’incriminazione di un presidente eletto o già in carica, che provocherebbe una crisi costituzionale senza precedenti. Davanti a prove inoppugnabili di reati, la soluzione meno traumatica diventerebbe convincere Hillary a dimettersi, ma i Clinton non sono abituati ad arrendersi. BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

Leslie, la figlia del Piemonte attira i pellegrini di Trump 

Di Ivrea, ha costruito la “casa di Donald” in Pennsylvania 

Francesco Semprini Busiarda 4 11 2016
Per arrivare al 4432 della Statale 982, occorre guidare circa un’ora da Pittsburgh verso Est, attraversare aree industriali testimoni della passata supremazia manifatturiera americana, e tuffarsi in paesaggi bucolici simili ai poggi nostrani. Ma soprattutto occorre pazienza, quella necessaria ad attendere in fila prima di raggiungere la cittadina di Latrobe. «Ogni giorno vengono almeno mille persone, ieri ne sono passate duemila, oggi saranno di più». A parlare è Leslie Baum Rossi, la proprietaria del civico 4432, dove sorge una casa di due piani con patio e cortile, un’abitazione all’americana come tante se non fosse per il «make up» a stelle e strisce pensato per le elezioni. L’abitazione è dipinta come un’enorme bandiera Usa sorvegliata giorno e notte da una gigantografia di Donald Trump all’ingresso. 
«Stavo seguendo le primarie del Grand Old Party, le argomentazioni e le proposte del tycoon mi hanno conquistato giorno dopo giorno - racconta -. Mi sentivo coinvolta da quello che diceva e le sue idee partono della soluzione dei problemi della nostra comunità». Leslie ha due passioni, la politica, rigorosamente sulla sponda repubblicana, e i Pittsburgh Steelers, la squadra di football di cui porta sempre con sé il portachiavi. È una imprenditrice immobiliare di successo (oltre 50 proprietà al suo attivo compresa quella al 4432), ha 46 anni e otto figli. Nelle sue vene scorre sangue piemontese da parte di mamma, battagliera signora di Ivrea che ha vissuto a cavallo dei due continenti. «E con cui discuto sempre di politica - dice sottovoce -. Non lo dico troppo in giro, ma lei vota democratico. Ogni giorno le ripeto “mamma non ti vergogni, con cinque nipoti che votano Gop, sei rimasta solo tu”». Al di là delle dispute partitiche Leslie è grata alla mamma perché si sente molto italiana: «C’è molto in comune con questi posti, c’è tanta voglia di riscatto». Latrobe è nella contea di Westmoreland, nella «Rust Belt», la cintura della ruggine piegata dal declino dell’industria pesante americana. È in particolare il punto di congiunzione tra la zona mineraria dove sorgono le città fantasma come Centralia, un tempo custode del tesoro carbonifero della Pennsylvania, e la zona dell’acciaio che si estende verso Nord. È la parte degli Usa che più di ogni altra ha pagato il declino industriale dovuto «a delocalizzazione, patti di libero scambio e politiche sciagurate». Qui il peggior nemico è l’Obamacare: «ha messo in ginocchio le piccole imprese». Ed ecco allora che tute blu, classe media e benestanti come Leslie hanno deciso di serrare le fila e votare Trump.
Questa è definita una delle «dieci contee del Keystone State da osservare l’8 novembre», tra quelle che potrebbero colorare di rosso lo Stato. «Vedevo che Trump era sempre più popolare tra gli elettori ma perdeva tra i delegati - spiega Leslie -. Abbiamo capito così che è molto importante votare per il delegato giusto e abbiamo creato questa “casa trumpiana” per la gente, per gli elettori e per Donald».
L’abitazione è meta di pellegrinaggio di ogni genere, giovani e anziani, famiglie, motociclisti in bandana, operai, imprenditori. «Vengono anche persone che hanno sempre votato democratico - racconta - . Ci dicono le loro perplessità su Trump e noi spieghiamo loro le nostre ragioni». Il tweet di ringraziamento di Trump alla Baum campeggia come un santino all’entrata della casa, all’interno è un trionfo di magliette, spille, adesivi e portachiavi. Nel giardino intorno si discute delle ultime vicende elettorali come in un laboratorio politico: «Leslie ha fatto quello che altri non hanno avuto il coraggio di fare», spiega Norma, una signora anziana coi capelli bianchi raccolti in un fazzoletto «rosso repubblicano». 
L’attivista piemontese ha dato voce alla maggioranza silenziosa che traina la rinascita di Trump nei sondaggi. «Vogliamo riprenderci il Paese e vedere l’America tornare a essere grande», dice Leslie che nella casa di Latrobe permette a chi non lo è di registrarsi alle liste elettorali: «In centinaia lo hanno fatto, il primo nemico da battere è l’astensionismo». Di indecisi qui ce ne sono sempre meno, specie dopo l’emailgate, come testimonia il fotomontaggio di Hillary Clinton dietro le sbarre della finestrella al seminterrato: «Quella è la fine che merita».
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