martedì 15 novembre 2016

La Grande Involuzione: il mondo in cui della Loggia e Tremonti ci spiegano il mondo

“Il populismo è la rivoluzione il centrodestra senza leader non andrà molto lontano” 
L’ex ministro: il trionfo di Trump sancisce la fine del mercatismo e del socialismo
CARMELO LOPAPA Rep 15 11 2016
 ROMA. «È la presa della Bastiglia. Non una rivolta, come pensa re Luigi XVI appena sveglio, ma una rivoluzione. Ecco, quel che sta avvenendo un po’ dappertutto segna chiaramente una discontinuità storica: la fine dell’ultima ideologia del Novecento. La fine del mercatismo e contestualmente del socialismo, l’equivalente della caduta del Muro di Berlino. Sarà pure un cambio traumatico ma non è affatto detto che sia negativo. Anzi. Sono populista? Ebbene sì, perché no?» Il senatore Giulio Tremonti dietro la scrivania del suo studio nel centro di Roma ha l’aria compiaciuta dello “studioso” che nei suoi libri (soprattutto La paura e la speranza) aveva visto lungo.
Professor Tremonti, dalla Brexit alle elezioni Usa ai movimenti nazionalisti in Europa, non pensa che la deriva dei populismi rischi di travolgere le istituzioni, Italia compresa, come scriveva giorni fa su questo giornale Ezio Mauro?
«Io sarei estremamente prudente nella valutazione degli eventi. E anche delle politiche che stanno emergendo. Certo, assistiamo all’eclissi dei socialisti, c’è l’emersione di forze diverse e il crollo delle vecchie classi dirigenti. Si fa un gran parlare di populismo. Ma non puoi fulminare questi fenomeni come la secessione della plebe. È più semplicemente l’affermazione delle ragioni degli altri, con le quali devi fare i conti».
Quindi secondo lei le istituzioni, italiane e europee, non sono in pericolo, torno a chiederle?
«Cosa sono le istituzioni europee? Una chiesa frequentata da sonnambuli e da sacerdoti che hanno perso la fede. In questa Europa non credono più nemmeno loro. L’Unione non sta più in piedi».
Pensa che vada smantellata?
«Penso che un’idea potrebbe essere una Confederazione di Stati, che si uniscano sull’essenziale, ad esempio sulla difesa, e lascino il resto alla sovranità nazionale».
Lei è un liberale, eppure il pensiero liberaldemocratico alla base delle nostre istituzioni sta per diventare minoranza. Non la preoccupa?
«Se per forze liberaldemocratiche si intendono quelle che hanno generato il governo Monti, ho qualche difficoltà a definirmi tale».
Che c’entra Monti?
«È stata l’espressione massima del pensiero mercatista applicato alla politica. E in cosa si è risolto se non in un colpo di stato post moderno? L’exploit di Grillo e del M5S è figlio di quella stagione politica, è allora che sono passati dal 3-4 al 25 per cento, nascono come opposizione a quel mondo».
Perché è schierato per il No?
«Dico No a una riforma sbagliata e a Renzi, passato dall’infanzia alla decadenza politica transitando per la sfortuna obamiana. Ma chi avrà il governo dopo di lui sarà votato alla sconfitta, dovendo fronteggiare un’emergenza finanziaria drammatica. E siccome saremo a ridosso delle elezioni, indovini chi le vince? Tutti quelli che non stanno al governo».
A proposito, la destra di Salvini come la vede?
«Come si dice in America, per fare un dollaro servono cento centesimi. La mia impressione è che serva un leader, ma non può essere l’uomo solo al comando, serve una base collettiva, il sostegno di tutti».
Non è più tempo per un nuovo Berlusconi?
«Berlusconi aveva un apparato, ma soprattutto era uomo straordinario».
Non ne vede altri all’orizzonte?
«Il suo successo temo non sia ripetibile. La leadership ci può essere, ma dovrà passare attraverso una fase, come dire, cooperativa».
Ma alla fine, lei si sente un populista o no?
«Ebbene sì, sono 20 anni che penso e scrivo cose “populiste”, intese come le ragioni dei popoli. Del resto, se la domanda fosse se sono un neocentrista la risposta sarebbe no, senza dubbio».
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L’onda Trump fa esplodere le fragilità di partiti e schieramenti
L’ora del disordine e il sentiero ancora stretto dei centristi 

DI STEFANO FOLLI Rep 15 11 2016
 Stigmatizzata da Romano Prodi, la scelta del presidente del Consiglio di non esporre più la bandiera  dell’Europa accanto al Tricolore nei collegamenti televisivi da Palazzo Chigi ha ricevuto il plauso del Front National di Marine Le Pen. Episodio marginale in apparenza, ma significativo della confusione del momento. Una politica fragile e poco convinta di se stessa avanza un po’ alla cieca, nella disperata ricerca del consenso. Ecco perché dietro il referendum s’intravede sempre più una partita di potere in cui il merito della riforma non è più l’elemento centrale oppure lo è soprattutto in termini propagandistici.
Non c’è da meravigliarsi allora se il fenomeno Trump abbia contribuito ad aumentare il disordine politico. Dei tre segmenti in cui è diviso il palcoscenico italiano, non ce n’è uno che non sia instabile. Il fronte anti-politico di Grillo dovrebbe essere il più solido, nonostante i guai dell’amministrazione di Roma: i Cinque Stelle godono o dovrebbero godere della maggiore sintonia con il neopresidente, ma il rapporto è solo unilaterale e quindi provinciale. È ancora da dimostrare che il Trump presidente abbia voglia di accreditare senza un filtro tutti i gruppi o gruppetti che oggi lo osannano. A quel che si sa, la relazione personale è soprattutto con l’inglese Farage, il padre della Brexit. Un occhio di riguardo è per Marine Le Pen, ma in modo indiretto, attraverso il discusso assistente Bannon.
L’Italia è lontana, per non dire irrilevante. Per cui la gara di Salvini, volta a imporsi come il più trumpiano della penisola, serve più che altro a far risaltare i disaccordi in una partita tutta domestica.
Le lacerazioni del Pd sono evidenti e si riassumono nelle contraddizioni di Renzi che da un lato cede per motivi elettorali alle tentazioni nazional-populiste e dall’altro guida un partito a vocazione europeista, come gli ricordano spesso Napolitano e Prodi. Ma il Pd attende il 4 dicembre per conoscere il suo destino: a seconda del risultato, vittoria del “Sì” o affermazione del “No”, il partito prenderà una strada o l’altra. Sarà il Pd personale di Renzi a tutti gli effetti, come prevede D’Alema, ovvero avvierà un processo di trasformazione interna che potrebbe ricollocarlo in un alveo di tipo socialdemocratico, più simile alla Spd tedesca che ai laburisti inglesi di Corbyn.
Infine si apre lo spazio indefinito del cosiddetto “centro” moderato. Il centro che respinge l’attivismo trumpiano/ lepenista di Salvini, ma che si trova a dover ricostruire una casa diroccata. Dei tre poli in cui annaspa la politica, quello del centro-destra moderato è il più precario. Dopo l’intervento di Berlusconi, il ministro dell’Interno Alfano si è affrettato a proporsi come protagonista della ricostruzione in un’intervista al “Messaggero”. Il senso dell’analisi è che l’equilibrio del sistema ha bisogno dei centristi; di conseguenza la frattura fra Forza Italia e la Lega deve consumarsi fino in fondo così che da essa possano nascere i nuovi moderati.
In realtà il sentiero di Alfano e degli altri centristi, a cominciare da Casini ma senza trascurare Verdini, è ancora stretto. Un successo di Renzi con ampio margine al referendum renderebbe poco interessanti i loro voti. Il partito renziano sarebbe a quel punto il partito riformista moderato. E se pure la Consulta imponesse la riforma elettorale con premio alla coalizione, la condizione dei centristi sarebbe quella dei satelliti. Tant’è che sul piano della distribuzione del potere Renzi si preoccuperebbe soprattutto di Berlusconi, almeno fino alle elezioni politiche. Viceversa, in caso di vittoria molto striminzita del “Sì”, il ruolo dei centristi sarebbe più importante. I loro scarsi voti sarebbero irrinunciabili e soprattutto il “partito di Renzi” dovrebbe essere rinviato. Questo scenario reggerebbe forse anche in caso di vittoria risicata del “No”: il premier avrebbe urgente bisogno di rinsaldare la maggioranza. Ma in quel caso sia lui sia Alfano sarebbero gravemente indeboliti dalla sconfitta. E quel che resta di Forza Italia potrebbe entrare in gioco.
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