martedì 15 novembre 2016

La lezione di Trump non è servita a niente: l'occidentocentrismo dirittumanista non riconosce errori

“Donald e Vladimir fanno riferimento a un elettorato bianco e poco istruito” 

Babaeva: “Sono visti come hooligan dell’ordine mondiale Sapranno costruire alleanza ad hoc contro qualcuno” 
Anna Zafesova  Busiarda 15 11 2016
Svetlana Babaeva è una delle più acute analiste della politica statunitense di Mosca, conosce bene l’establishment repubblicano, e non è convinta che il vero vincitore delle elezioni Usa sia Vladimir Putin: «È una percezione nata dal desiderio di un leader forte. Putin viene visto come tale, e con l’elezione di Trump ha prevalso il desiderio di uno “strong man” rispetto alla tradizione di scegliere qualcuno di cui si condividono i valori».
Esiste la «russian connection» di Trump?
«Un miliardario di 70 anni, in un mondo di business globale, potrebbe benissimo aver fatto affari con vari russi. Le accuse di legami loschi andrebbero dimostrate. Per quanto riguarda la propaganda, più che a favore di Trump era diretta contro Hillary, nella convinzione che avrebbe vinto». 
Il Cremlino avrebbe preferito Clinton?
«Non sarebbe cambiato niente, ma almeno era una certezza. Trump è imprevedibile, come Obama. Non è un politico, il suo algoritmo è sconosciuto».
In quali vantaggi può sperare Putin?
«Trump vuole un’America più forte. Che non serve alla Russia, né politicamente, né economicamente».
Che tipo di feeling può nascere tra Vladimir e Donald?
«Entrambi sono visti come gli hooligan dell’ordine mondiale. Hanno in comune un’incredibile vitalità, la curiosità verso il mondo, un certo gusto per i gesti adolescenziali. L’elettorato di Trump - maschi bianchi poco istruiti di provincia - è identico a quello di Putin, che governa il “voto di pancia” per conto delle élite che temono la rabbia popolare. Ma c’è una differenza profonda: Trump ha sfidato la Washington corrotta, le élite irremovibili indifferenti alla gente. Esattamente il sentimento che sta maturando in Russia, con la fine di 12 anni di benessere mai visto. Un giorno arriverà un Trump russo a sfidare il sistema, cioè Putin».
Da dove può iniziare un’ipotetica distensione?
«Credo che l’incontro con Putin non sarà nelle priorità di Trump, sarà impegnato a formulare la sua agenda, incentrata su tutt’altro: l’economia, le tasse, il rilancio dei progetti petroliferi, che distruggeranno definitivamente le fonti delle entrate russe».
E in politica estera?
«Possiamo immaginare alleanze ad hoc contro qualcuno, per esempio, certi leader dell’America Latina o del Medio Oriente».
Contro l’Isis?
«Potrebbero dividere le sfere d’influenza, è fattibile senza conflitti radicali, con una spartizione della Siria o un governo di coalizione. Questione di volontà politica. Il problema è un altro: l’Occidente non ha molto da dire alla Russia, a parte la Siria e il processo di Minsk».
Kiev infatti è molto preoccupata.
«L’Ucraina non sarà una priorità della Casa Bianca, considera più globali altri problemi, il Medio Oriente, la Cina. Intorno a Trump ci sono molti falchi, possiamo aspettarci tendenze bushiste, spese per nuove armi. Un giorno Trump e Putin si incontreranno, potranno piacersi, ma difficile sperare in nuovi accordi e cambiamenti sistemici».
Cosa si aspetta la Russia da Trump?
«A Mosca si danno risposte generiche, come “venire ascoltati come partner paritari”. In realtà in quasi quattro anni di rottura con gli Usa la Russia ha perso un ordine del giorno bilaterale, insieme al desiderio di realizzarlo. Non esiste una lista di richieste economiche o militari concrete agli Usa, i cui obiettivi globali sono completamente altrove. Parte dell’élite russa è affascinata da Trump e si aspetta che corra a Mosca con un’enorme agenda nuova. Avrà una grande delusione, e l’America ridiventerà il grande nemico, in tempo per la campagna presidenziale russa del 2018».
L’antiamericanismo è il perno della politica russa, nel caso di una distensione il Cremlino non saprebbe più cosa dire?
«È più perno della propaganda, l’elettore medio è convinto che a Washington non si pensi ad altro che a rovinare la Russia. Il guaio è che gli Usa inventano tecnologie elettorali. Quella della campagna di Trump è che non c’è più nulla che non si possa dire in pubblico. E noi copiamo sempre l’America, nel modo che ci conviene».
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rump-Putin, l’intesa parte dalla Siria 


Prima telefonata tra i leader: insoddisfacenti le relazioni Usa-Russia, normalizziamole Accordo sulla cooperazione nella lotta al terrorismo per combattere l’Isis con Assad 
Francesco Semprini  Busiarda 15 11 2016
La tanto attesa telefonata tra il neo presidente Donald Trump e Vladimir Putin c’è finalmente stata. I due leader hanno concordato «di lavorare per una collaborazione costruttiva» perché la situazione delle relazioni al momento «è insoddisfacente» ed entrambi si impegneranno per «normalizzarla». Il Cremlino parla di «rispetto reciproco» e di impegno alla «non interferenza negli affari l’uno dell’altro». E in concreto si «accordo su come risolvere la crisi siriana». 
Trump, già in campagna elettorale, aveva detto di voler costruire un rapporto franco con la Russia di Putin per affrontare con efficacia la guerra siriana operando sulla sponda di Assad, per poi esportare il modello in altri teatri di crisi del pianeta. È questa la dottrina in materia di politica estera su cui Donald Trump è al lavoro già dai primi giorni successivi alla sua elezione. La simpatia del presidente in pectore per Vladimir Putin non è una novità, così come la sua voglia di riavviare un dialogo con il Cremlino. Washington e Mosca devono fare «muro» contro il terrorismo, in particolare quello dello Stato islamico, secondo Trump. Al momento l’interlocutore privilegiato rimane Assad, l’alleato di Putin nella regione. La guerra siriana va pertanto combattuta dalla stessa parte del rais di Damasco, e non contro, con l’obiettivo di risolvere una crisi regionale che si trascina da oltre un lustro con «spill-over» nei Paesi circostanti, dall’Iraq al Libano. In una seconda fase si potrà procedere alla transizione politica di Damasco con l’uscita di scena di Assad, a quel punto caldeggiata da Mosca.
La dottrina, che potrebbe poi essere applicata in altre zone calde come l’Ucraina, piace all’Iran, che in quella crisi regionale ha senza dubbio una «golden share». «Nessun pregiudizio nei confronti di Trump, bisogna smettere di fare dichiarazioni affrettate», avverte il presidente del Parlamento, Ali Larijani, che esorta leader e Paesi a «mostrare più maturità». E del resto simpatie per le posizioni trumpiane in materia di lotta all’Isis erano state espresse anche da Hassan Nasrallah, leader di Hezoballah che di Teheran è a suo modo un corollario. Nell’ambito di questo nuovo risiko a stelle e strisce ispirato al bilateralismo piuttosto che al multilateralismo obamiano, un altro «amico ritrovato degli Usa» potrebbe essere l’egiziano al-Sisi, il quale vede in Trump e nella rete di convergenze alternative, un alleato per sconfiggere le formazioni radicali del Sinai. 
Sul fronte turco Recep Tayyip Erdogan, se non altro, mostra una certa curiosità nella nuova dottrina americana e per questo auspica un incontro con Trump, «anche prima del 20 gennaio», quando si insedierà alla Casa Bianca. Le novità in arrivo da Washington creano invece qualche timore negli ambienti atlantici, in particolare tra i partner Nato e nella Vecchia Europa, come dimostra il mancato contatto con il presidente della Commissione Ue Jean Claude Juncker. 
In un quadro a dinamiche invertite rimane l’incognita Cina: Xi Jinping e Trump hanno avuto ieri una conversazione telefonica, secondo cui il presidente cinese ha rimarcato che la «cooperazione» bilaterale è «l’unica via possibile».
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Quei leader dell’Est che strizzano l’occhio al Cremlino 

In Moldova e Bulgaria vincono le elezioni i candidati filo-russi I Paesi del vecchio Patto di Varsavia divisi sui rapporti con Mosca 
Lucia Sgueglia  Busiarda 15 11 2016
A cinque giorni dalla vittoria di Trump, in Est Europa, due Paesi, la Moldavia ex sovietica (ora Moldova) e la Bulgaria membro Ue e Nato, «capitolano» nominalmente a favore di Putin eleggendo due presidenti «filo-russi», Igor Dodon e Rumen Radev, fautori di legami più stretti con Mosca e una minore influenza della Ue. Facendo temere un «effetto a cascata» in vista dei voti in Francia, Austria e Germania, o persino un «nuovo patto di Varsavia» tra i membri orientali, dove vivono anche minoranze etniche russe, e i leader che guardano a Mosca sono già tanti. 
Il Paese più povero
Ma per dirla con un politologo moldavo, «i nostri leader filo-Ue hanno fatto molto di più di Putin per allontanare i nostri cittadini da Bruxelles». Che sono disillusi da crisi economica, corruzione, povertà, politiche di austerity e perdite dovute a sanzioni e contro-sanzioni russe colpevoli di aver affossato l’export agricolo verso Mosca: è il caso della piccola Chisinau, stretta fra Romania e Ucraina, Paese più povero in Europa che da 7 anni cerca un avvicinamento a Bruxelles, e ha cambiato cinque premier in tre anni. Dodon, ex vicepremier comunista oggi leader dei Socialisti (non certo un candidato fuori dal sistema), si ispira dichiaratamente a Putin invocando un potere «autoritario». Ha promesso di abrogare l’accordo di associazione Moldova-Ue e di aderire all’Unione Eurasiatica guidata da Mosca, con la benedizione del patriarca russo Kirill. Ventila di riconoscere la Crimea annessa, idea pericolosa nella Moldova che dal 1992 ospita una propria regione separatista filo-russa, la Transnistria. E ha vinto a man bassa, contro la sfidante filo-occidentale Maia Sandu, ex economista in Banca Mondiale, dopo il «furto del secolo», lo scandalo bancario che a fine 2014 ha visto «sparire» dal bilancio 1 miliardo di dollari (un ottavo del Pil nazionale): complice, agli occhi dei moldavi, il governo liberale europeista. 
A Sofia il vento anti-Nato
A Sofia, il più povero membro Ue, Radev, un militare appoggiato dai socialisti, come Dodon conservatore ed entusiasta di Trump, anti-immigrati, sostiene l’abolizione delle sanzioni alla Russia e oppone l’adesione del Paese a Nato e Ue. Promesse difficili da mantenere, anche perché i due neo presidenti hanno poteri limitati in politica estera, e i loro Paesi dipendono dai fondi Ue e Fmi per sopravvivere. Ma la loro collocazione a «sinistra», almeno teorica, amplia la narrativa delle destre europee attratte da Mosca. 
La tentazione estone
Intanto in Estonia, nei Baltici che aspettano ansiosi l’arrivo delle truppe Nato per contrastare una temuta «invasione russa» (protagonista al cinema e nelle serie tv), la crisi di governo potrebbe portare al potere il 38enne Jüri Ratas, leader del Partito di Centro, riferimento della minoranza russofona (un quarto del paese). Ma qui mettere in discussione l’appartenenza alla Nato o all’Eurozona è tabù: per la presidente Kersti Kaljulaid la Russia «è un vicino imprevedibile e inaffidabile».
Le paure della Polonia
Intanto in Polonia, forse la più ostile al Cremlino in Europa, gli ultra conservatori di Diritto e Giustizia tornati al governo ora vogliono riesumare le vittime dello schianto di Smolensk nel 2010 dove morì l’ex presidente Kaczynski per accusarne la Russia. Ad attrarre nell’orbita russa c’è la leva economica: «La Lettonia è interessata a buone relazioni con Mosca perché la nostra economia vi è legata», ha ammesso il presidente Vejoinis. 
La Lituania con l’embargo russo ha visto crollare l’export caseario. In Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia, tra i noti «fan di Putin» Viktor Orban, Milos Zeman e Robert Fico, contrari alle sanzioni, la chiave è la dipendenza energetica da Mosca, dal gas alle centrali nucleari. Nei Balcani che aspirano alla Ue si oscilla tra russo-filia e russo-fobia: dalla Serbia che ha fede comune con Mosca e cerca accordi su gas e Difesa, al Montenegro dove il premier Djukanovic ha denunciato un complotto dei partiti filo-russi per assassinarlo. 
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La Ue scavalcata dalle scelte di Trump approva un piano per la difesa comune 

Mogherini: nessun esercito europeo, usiamo meglio le risorse 
Marco Bresolin Busiarda 15 11 2016
Il 18 luglio scorso, al termine di una colazione con i ministri europei degli Esteri a Bruxelles, il segretario di Stato americano John Kerry aveva espresso il suo apprezzamento per l’inedito appuntamento: «Dovremmo ripeterlo regolarmente». Erano i giorni immediatamente successivi al tentativo di colpo di Stato in Turchia e l’asse Usa-Ue sul fronte della politica estera sembrava molto solido. 
Meno di quattro mesi dopo, Jean-Claude Juncker è ancora in attesa di un contatto diretto con il presidente eletto degli Stati Uniti. Donald Trump snobba l’Unione europea in quanto istituzione, preferisce il contatto diretto con le capitali. E a Bruxelles non l’hanno presa benissimo: «Sullo scacchiere internazionale l’Ue rischia di diventare totalmente irrilevante», sospira una fonte diplomatica.
In questo contesto ieri la capitale belga ha ospitato il primo Consiglio Affari Esteri nel post-voto americano: Donald Trump era il convitato di pietra. Non a caso il summit è stato anticipato domenica sera da una cena informale tra i ministri, dedicata proprio alle relazioni transatlantiche alla luce dell’imminente cambio alla Casa Bianca.
Non tutti i ministri, però. Il francese Jean-Marc Ayrault ha trovato il modo di giustificare la sua assenza, ma altri – come l’esponente del governo ungherese o il britannico Boris Johnson – hanno scelto deliberatamente di disertare la cena. Per Federica Mogherini, Alto Rappresentante per la Politica Estera Ue, l’assenza di Johnson dalla cena di domenica non è da classificare sotto la voce «sorprese»: «Qualcuno in Europa di solito si stupisce non quando quel Paese è assente, bensì quando è ancora presente al tavolo dei 28», si è concessa con un velo di sarcasmo.
Scambi di battute a parte, a Bruxelles il livello del «bicchiere Trump» è a metà. Tra gli ottimisti c’è chi ritiene che la Storia stia offrendo una grande occasione: fare finalmente un passo in avanti in direzione di una vera politica estera e di difesa europea. Il caso ha voluto che proprio ieri i ministri (degli Esteri e della Difesa) si siano trovati sul tavolo il piano targato Mogherini, definito da lei stessa come «ambizioso, concreto e pragmatico». Senza mettere mano ai trattati, il progetto dell’Alto Rappresentante prevede una maggiore integrazione tra i Paesi nell’ambito della Difesa, utilizzando al meglio le strutture già esistenti (vedi i battlegroups) e con un maggiore sforzo finanziario da parte dei governi. Il piano - ha voluto specificare Mogherini – «non riguarda la creazione di un esercito europeo: neppure la Nato ha un esercito, sono gli Stati nazionali alleati che li hanno». 
Ma per molti, anche con una Unione europea più integrata sul piano della Difesa, le prospettive non sono rosee. C’è infatti chi guarda con sospetto e preoccupazione a un possibile filo diretto tra Washington e Mosca, che rischia di mettere nell’angolino l’Europa, soprattutto nella gestione di crisi come quelle in Ucraina e in Siria. Senza contare che, con il passare del tempo, i governi europei che strizzano l’occhio a Putin stanno diventando sempre di più.
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Aspettando trump, l’europa è già divisa 
Stefano Stefanini  Busiarda
Donald Trump non ha dovuto muovere un dito. Gli europei si dividono da soli su come rispondere al ribaltone americano. La disunione europea potrà fargli comodo, ma non diamogliene la colpa. A meno di una settimana dall’elezione ha altro da fare che pensare all’Europa. L’incapacità di serrare le file è tutta nostra. 
L’incontro di ieri dei ministri degli Esteri Ue ne è l’impietosa cartina di tornasole. La difesa europea è un obiettivo lodevole e necessario, ma con le modeste risorse disponibili «l’autonomia strategica» del ministro Jean-Marc Ayrault è una pia illusione. Non nasconde la realtà che con Brexit l’Ue perde fra il 25 e il 30% delle capacità militari e che avrà ancora a lungo bisogno della Nato per la propria sicurezza. 
Più difesa è indispensabile e senza un’Ue unita politicamente è uno strumento senza manico. L’unità, già incrinata, è latitante dopo l’elezione di Trump. Forse perché ci aspettavamo la solita America (di Hillary Clinton) che tiene insieme gli europei e abbiamo trovato il contrario. Anche ieri l’unità è mancata all’appello. L’assenza di tre ministri (Uk, Francia, Ungheria) dal pranzo di domenica sera è stata desolante. Passi per Boris Johnson: Londra naviga verso la sponda americana dove l’attende un Presidente pro-Brexit. Passi per Peter Szijjarto: Budapest è dalla parte di Trump non di Bruxelles. Ma l’assenza francese era incolmabile, specie volendo parlare di Difesa. Prima di mandare gli inviti, bisogna essere sicuri che gli invitati che contano accettino.
I ministri degli Esteri hanno finito col parlare di un tema che riguarda più i loro colleghi della Difesa. Hanno sorvolato sui nodi politici della «partnership molto forte con la nuova amministrazione» di Federica Mogherini. Sotto la superficie della palude sono trapelati i diversi accenti di uno Steinmeier che non nasconde la diffidenza (in sintonia con la Cancelliera tedesca) e di un Gentiloni che intravede l’opportunità di un disgelo con la Russia.
Toccherebbe ai leader discutere di Trump e dovrebbero farlo in piccolo gruppo. Così fecero, per iniziativa di Tony Blair, dopo l’11 settembre. L’elezione di Donald Trump è uno scossone internazionale pacifico ma non meno forte. Il pensiero di chiamare i colleghi europei non deve aver neppur sfiorato Theresa May. Lo spirito è mancato anche agli altri. Renzi pensa al referendum, Hollande e Merkel alle elezioni. Tutti entro orizzonti nazionali. 
Nigel Farage, primo politico straniero ad incontrare il Presidente eletto, ha detto che, insieme a Brexit, l’elezione di Donald Trump è «la rivincita dello Stato nazione». Chiudendosi nei loro confini, gli stessi leader contro i quali egli alimenta la rivolta populista in Europa gli danno ragione. I ministri non potevano colmare il vuoto di fiducia nell’Europa. Anche il Presidente del Consiglio deve domandarsi se la continua messa in stato d’accusa dell’Ue non sia uno scherzare col fuoco.
Un abisso di politiche e sensibilità separa l’Unione europea dal nuovo Presidente americano, ma non è la fine del rapporto fra Stati Uniti e Europa. Le relazioni transatlantiche superano le chimiche personali. I Presidenti passano e l’America resta. 
Prendiamo un Presidente alla volta. Donald Trump ha poche simpatie per l’integrazione europea, molte per Ukip e Fronte Nazionale. Avrà tutto l’interesse a trattare con i singoli Stati anziché con Bruxelles. L’analogia con Vladimir Putin, cui il voto di domenica in Bulgaria e Moldova gonfia le vele, non è casuale. Bruxelles rischia di essere il vaso di coccio fra Mosca e Washington, specie se perde anche il soft power dell’attrazione in Europa centro-orientale e nei Balcani. 
Unita, anche senza Uk (purtroppo), l’Europa ha massa critica per fare da controparte transatlantica a qualsiasi amministrazione americana. Con quella Trump la partnership sarebbe difficile ma sostenibile. Da soli i singoli Stati europei non hanno invece alcuna chance. Purtroppo hanno cominciato male.
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Da Brexit a Trump l’inganno delle élite dietro alla crisi dell’Occidente 
Nel nuovo libro di Federico Rampini un’analisi delle cause della crescita dei populismi

FEDERICO RAMPINI Rep 15 11 2016
Il mondo sembra impazzito.
Stagnazione economica.
Guerre civili e conflitti religiosi. Terrorismo. E, insieme, la spettacolare impotenza dell’Occidente a governare questi shock, o anche soltanto a proteggersi. Senza una guida, abbandonate dai loro leader sempre più insignificanti e irrilevanti, le opinioni pubbliche occidentali cercano rifugio in soluzioni estreme.
La vittoria di Brexit nel referendum in Gran Bretagna che ha sancito l’uscita dall’Unione europea. I messaggi radicali di Donald Trump. Le derive autoritarie in Polonia e Ungheria. Che si tratti di fenomeni durevoli o transitori, passeggeri o irreversibili, tutti hanno un elemento in comune: alla paura si risponde con la fuga indietro, verso il recupero di identità nazionali. Si cerca di alzare il ponte levatoio. Di isolarsi da tutto il male che viene da «là fuori».
È una reazione comprensibile. È normale cercare di proteggersi dall’inaudita violenza di attentati terroristici di matrice islamista sul suolo europeo: un’escalation che dopo Charlie Hebdo ha colpito ancora Parigi nel novembre 2015, Bruxelles nel marzo 2016, Nizza nel luglio 2016. L’America non è immune. Ed è normale cercare una via d’uscita dalla stagnazione economica ultradecennale, che ha reso i figli più poveri dei genitori.
Immigrazione e globalizzazione, sono i due fenomeni sotto accusa. Il grande tradimento delle élite spinge alla ricerca di soluzioni nuove… oppure antichissime. Quel tradimento è reale.
Per élite intendo un ceto privilegiato che estrae risorse dal resto della società, per il potere che esercita direttamente: politici, tecnocrati, alti dirigenti pubblici nella sfera di governo; capitalisti, banchieri, top manager nella sfera dell’economia. Più coloro che hanno un potere indiretto attraverso la formazione delle idee, la diffusione di paradigmi ideologici, l’egemonia culturale: intellettuali, pensatori, opinionisti, giornalisti, educatori. Ci sono dentro anch’io.
Il tradimento delle élite è avvenuto quando abbiamo creduto al mantra della globalizzazione, abbiamo teorizzato e propagandato i benefici delle frontiere aperte: e questi per la maggior parte non si sono realizzati. Quando abbiamo continuato a recitare un’astratta retorica europeista mentre per milioni di persone l’euro e l’austerity erano sinonimi di un grande fallimento.
Il tradimento delle élite si è consumato quando abbiamo difeso a oltranza ogni forma di immigrazione, senza vedere l’enorme minaccia che stava maturando dentro il mondo islamico, un’ostilità implacabile ai nostri sistemi di valori.
Il tradimento delle élite è continuato praticando l’autocolpevolizzazione permanente, una sorta di riflesso pavloviano ereditato dai tempi in cui ”noi” eravamo l’ombelico del mondo: come se ancora oggi ogni male del nostro tempo fosse riconducibile all’Occidente, e quindi rimediabile facendo ammenda dei nostri errori.
Il tradimento delle élite ha giustificato ogni violenza contro di noi riconducendola ai nostri peccati ancestrali; e così ha illuso che il mondo possa tornare ”in ordine” se soltanto l’Occidente si pente e imbocca la retta via.
Il pensiero politically correct, dominante fra i tecnocrati, le élite e tanta parte della sinistra di governo, ha continuato a recitare la sua devozione a tutto ciò che è sovranazionale. Tutto ciò che unisce al di là delle frontiere è stato considerato positivo per definizione: trattati di libero scambio, organizzazioni multilaterali. Si è reso omaggio sempre e ovunque alla società multietnica, senza voler ammettere che questo termine in sé non vuol dire niente: «società multietnica » non ci dice qual è il risultato finale, il segno dominante, il mix di valori che regolano una società capace di assorbire flussi d’immigrazione crescenti. Da tempo gli Stati Uniti sono multietnici; lo è l’India; lo è il Brasile; lo è la Russia; lo sono la Turchia e l’Iraq con le loro minoranze armene o curde. E noi, a chi vogliamo assomigliare?
Può sembrare anacronistica l’attuale riscoperta, da destra, di un modello russo. Ma è anche questa una conseguenza del «tradimento delle élite ».
Alle paure di un’opinione pubblica angosciata dalla stagnazione economica e dal terrorismo, l’establishment globalista e ottimista ha risposto recitando a oltranza la stessa fiaba a lieto fine: «E dopo avere abbattuto le frontiere vissero per sempre felici e contenti ».
Se ormai ci credono in pochi, la colpa non è di Putin. Più in generale, per molti decenni abbiamo raccontato che in questo mondo sempre più connesso lo Stato-nazione è superato; e quindi, implicitamente, lo stesso esercizio della sovranità popolare che aveva fondato la democrazia su basi nazionali viene condizionato e limitato da forze superiori. Salvo scoprire che queste «forze superiori» non sono né oggettive né naturali; producono risultati che avvantaggiano pochi, sempre gli stessi. Come stupirsi, allora, se una parte di noi perde fiducia nella democrazia stessa?
«Non hanno dimenticato nulla. E non hanno imparato nulla». Si dice che Charles- Maurice de Talleyrand, celebre figura della Rivoluzione francese e del periodo napoleonico, diede questa definizione dei nobili esiliati, quando tornarono in patria con la Restaurazione del 1815. Evitiamo che quella frase finisca per descrivere anche la nostra generazione, il nostro tempo.
( Questo testo è tratto dall’introduzione del libro “ Il tradimento”, Mondadori)
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Nella contesa tra Usa e Cina l’ultima battaglia è sull’iPhone 
I componenti dello smartphone di Cupertino sono realizzati e assemblati perlopiù dalle aziende di Pechino. Che ora minaccia di bloccarne le vendite se il neopresidente romperà gli accordi commerciali

TIZIANO TONIUTTI Rep 15 11 2016
IL PROSSIMO iPhone sarà il primo smartphone di Apple dell’era Trump. Ma in Cina potrebbe non arrivare, togliendo alla Mela una fetta di guadagni importanti. Il
Global Times
di Pechino, ripreso dal
Guardian, lo dice chiaramente: se Trump romperà l’asse commerciale Cina-Usa, Pechino bloccherà la vendita di iPhone e vetture americane e le aziende americane ne usciranno con le ossa rotte. Il primo iPhone fu presentato nel 2007 da Steve Jobs e il presidente americano era George W. Bush.
Poi otto anni di Obama, in cui i rapporti tra l’azienda di Cupertino, California, e la Cina, dove gli iPhone vengono fisicamente costruiti, si sono fatti sempre più stretti. Ma, dopo l’elezione di Trump, la tensione tra Washington e Pechino potrebbe intaccare la solidità dell’asse industriale.
E nell’iPhone di tecnologia progettata in Usa e costruita in Cina ce n’è tanta. È sufficiente scorrere l’elenco dei fornitori e dei costruttori di Apple per vedere come lo smartphone della Mela sia un prodotto superglobalizzato, con componentistica che arriva da tutto il mondo (alcuni elementi anche dalle filiali italiane di multinazionali) per essere poi messi insieme in uno degli stabilimenti cinesi che sfornano le decine di milioni di iPhone per il mercato mondiale. Nomi come Foxconn/Hon Hai, Pegatron, Wistron, contractor con quartier generale a Taiwan e fabbriche in Cina, catene industriali inarrestabili che portano dagli Usa all’Oriente progetti,
know how e innovazione e poi riportano in America i prodotti con cui Apple è diventata un’azienda dai profitti record.
Se queste catene potranno resistere anche a uno strappo sul piano commerciale lo sapremo solo quando la macchina presidenziale di Trump girerà a regime. Intanto però, il giro d’affari è rilevante. Per iPhone 7, l’ultimo smartphone Apple, la cifra complessiva del Bom ( Bill of materials, il costo dei componenti) è aumentato rispetto ai precedenti iPhone 6/6S: produrre un iPhone 7 da 32 giga, il modello base, secondo l’analisi di Ihs Markit costa alla Mela circa 225 dollari, 212 euro. Sull’Apple Store lo smartphone costa 649 dollari, che in Italia tra cambio e balzelli diventano 799 euro. Dentro il dispositivo, c’è un mondo. Il cuore dell’iPhone, il processore A10 Fusion, è prodotto dalla taiwanese Tsmc, che ha fabbriche sia in patria che in Cina. Costa a Cupertino 26 dollari e 90. L’altro cuore, la batteria, è cinese, la produce Huizhou Desay e incide sul costo per 2,50 dollari. Lo schermo lo produce Sharp (acquisita da Foxconn) e Japan Display, una joint venture tra le giapponesi Sony, Toshiba e Hitachi. Il comparto audio è Cirrus Logic, base negli Usa e fabbriche in oriente. Lo chassis, il telaio dello smartphone è di Jabil, costruito in Cina, dai chirurgici robot dell’industria elettronica e dalle dita piccole e velocissime degli operai, che dalle campagne si muovono incessantemente verso i distretti industriali. E insieme alle aziende che li assumono ballano la danza dei mercati e l’altalena delle percentuali che legano l’America e la Cina. Guidate dai profitti realizzati con i prodotti costruiti in Oriente, ma che si muovono solo se la musica dell’innovazione “made in Usa” è abbastanza bella da generare l’interesse degli utenti finali, gli unici che fanno davvero la fortuna o meno delle trimestrali. In calo per l’iPhone 6s, ma che si prevedono da nuovo boom per il 7.
«Una spaccatura con la Cina avrebbe effetti per il mercato statunitense che andrebbero oltre Apple», spiega Carolina Milanesi, analyst della società di ricerche Creative Strategies. «Non è la prima volta che la Mela avrebbe a che fare con il tono minaccioso del governo cinese, ma nonostante i chiari rischi, vista l’importanza del mercato orientale, preoccuparsi ora sarebbe il classico fasciarsi la testa. Magari il governo cinese cercava un supporto interno per influenzare la decisione di Trump».
Tutto il quadro degli scambi hi-tech Usa-Cina restituisce l’immagine di un settore che va a velocità pazzesche, muovendo miliardi di dollari, e che fermare sembra impossibile. E non è un caso che l’ad di Apple Tim Cook arrivi proprio dalla supply chain (la catena delle forniture), e conosca benissimo i meccanismi e l’organizzazione che porta un’idea concepita a Cupertino a diventare un prodotto reale, assemblato in Cina. Apple lo scrive anche sui prodotti (basta guardare dietro un iPhone), ma la Mela qualche anno fa ha anticipato Trump, tornando a produrre negli Stati Uniti: in Texas c’è lo stabilimento dove viene assemblato il Mac Pro, il “cilindro” top di gamma del segmento Macintosh. I componenti interni sono progettati in America, ma anche in questo caso in gran parte realizzati in Oriente. Tornano poi a casa, dove gli operai statunitensi li mettono insieme e fanno la loro parte nella battaglia del mercato globale.
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IL DISORDINE DEL MONDO 

CLAUDI PÉREZ Rep 15 11 2016
UN RATTO sbarcato a Cadice nel 1347 mise fine al feudalesimo: il bacillo che portò in Europa nel giro di cinque anni uccise un quarto della popolazione del continente. Fu il colpo di grazia a un sistema già in via di decomposizione. L’apocalisse delude quasi sempre i suoi profeti — è passato un quarto di secolo dalla fine della storia di Fukuyama e l’unica certezza è che ci saranno altri anni cattivi che ci renderanno più ciechi, — ma sono passati quasi dieci anni dalla caduta di Lehman Brothers ed è già diventato chiaro che la Grande Recessione finirà col far uscire alcuni fantasmi dall’armadio della storia.
Il mondo ha scoperto con la botta di Lehman che le basi dell’economia globale erano molto più fragili di quanto si credesse. Questo ha avviato una serie di crisi: finanziaria, economica, del debito, della disoccupazione, sociale e, infine, politica. Tutte le grandi crisi iniziano e finiscono nella crisi politica, ed è qui che ci troviamo: la Brexit e il trumpismo sono le ultime due espressioni di un fenomeno più profondo che non sarà di breve durata. Il bacillo politico-economico che colpisce il Nord Atlantico — un eccentrico populista diventa presidente americano, e uccelli della stessa specie occupano o si avvicinano al potere in Francia e in Finlandia, in Ungheria e forse perfino in Germania — rischia di dare il colpo di grazia all’ordine internazionale nato nella seconda metà del ventesimo secolo.
Protetti dalla crisi dell’euro e dalla disaffezione nei confronti dell’Ue, i movimenti anti-establishment hanno messo radici in Europa. I partiti in precedenza euroscettici sono ora apertamente eurofobi e auspicano la chiusura delle frontiere, il ritorno alle valute nazionali o la trasformazione dell’Ue in una mera associazione di Stati; la pessima gestione della crisi da parte delle istituzioni, con le élite che troppe volte hanno voltato le spalle alla gente, li ha molto aiutati. Ma il colpo finale lo hanno inferto gli anglosassoni, che hanno deciso di ritirarsi dalle spiagge della Normandia. E ora arriva Trump, pronto a sospendere gli accordi commerciali con l’Europa (riposi in pace il Ttip, il trattato transatlantico di liberalizzazione commerciale), a ridurre il coinvolgimento degli Stati Uniti nella Nato, a rivedere la sua leadership nella moribonda Organizzazione mondiale del commercio, a ritirare la sua firma dall’accordo di Parigi per combattere il cambiamento climatico e a mandare a gambe all’aria l’ordine internazionale organizzato dal 1945 sulle basi imposte da Roosevelt dopo la Grande Depressione.
L’Ue si trova ad affrontare la sfida di Trump, dopo anni di crisi che hanno aperto diverse crepe nell’unità europea. E ha solo un paio di mesi di tempo per cercare consensi sul compito più urgente: concordare un piano di politica estera e sulla sicurezza, dato che gli Stati Uniti non sono disposti a continuare a pagare le difese continentali e questo può porre seri problemi con i vicini dell’Est (Russia) e del Sud (Medio Oriente e Nord Africa). All’Europa conviene investire nella sicurezza: non solo per smettere di dipendere dagli Stati Uniti, ma anche perché da quel versante potrebbe arrivare lo stimolo (keynesiano?) che la Germania ha negato al continente nel corso della crisi. Si tratta di un’occasione d’oro, inoltre, per cercare altre alleanze, soprattutto con la Cina, che potrebbe essere interessata al continente se Trump mantiene fede alla sua agenda revisionista. Ciò richiederebbe qualcosa di più del tirare a campare di Bruxelles degli ultimi anni: un accordo di ampio spettro capace di superare le brecce che si sono aperte tra Nord e Sud, tra creditori e debitori, e anche tra Est e Ovest nel succedersi delle crisi europee. Considerando ciò che è accaduto negli ultimi cinque anni, è improbabile che si giunga a questo patto: è più facile che le élite continuino a guardare da un’altra parte, che l’establishment politico, economico, finanziario — e giornalistico — che non ha visto arrivare né la Brexit né Trump continuerà a non capire l’insurrezione che si evidenzia in tutte le ultime chiamate alle urne (Brexit, Colombia, Stati Uniti) e che minaccia le prossime (Italia e Austria nel mese di dicembre, e poi Germania, Francia e Olanda nel 2017 ).
La forza alla base di questa dinamica è una formidabile rabbia sotto la quale pulsano enormi problemi di disuguaglianza e redistribuzione: il paesaggio dopo la battaglia degli ultimi decenni di eccessi del capitalismo e di carenze democratiche. I partiti che capiranno che questo è il nocciolo della questione domineranno la scena politica. Il problema non è civilizzare il capitalismo: è se lo faremo con riforme democratiche o in modi più autoritari, con una miscela di protezionismo, nazionalismo economico e isolazionismo. Gli Stati Uniti hanno già il loro Trump; è il momento per l’Europa di decidere che vuol fare da grande. Può avvicinarsi per la seconda volta in un secolo alle promesse dei demagoghi. O può cercare i suoi Roosevelt. «Non c’è che un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio», ha scritto Albert Camus. Sarebbe bene che l’Europa non scegliesse, solo per questa volta, questa strada.


L’ESORCISMO DEI DIRITTI PER FERMARE LA PAURA 

MICHELE AINIS Rep 15 11 2016
DONALD Trump vorrebbe cacciarne 3 milioni. E noi? Sotto sotto lo approviamo. Perché anche in Italia gli immigrati sono un fiume in piena: negli ultimi 25 anni il loro numero è aumentato 10 volte.
EPERCHÉ quest’invasione ci spaventa. Sarà forse un delitto aver paura? Vabbè, le statistiche ci informano che gli stranieri delinquono meno degli italiani e sono pure più istruiti ( Dossier statistico immigrazione 2016); ma è un racconto buono per i grulli, noi non ci caschiamo. Vabbè, in un anno la Germania ha assorbito oltre un milione d’immigrati; fatti loro, non vengano a farci la morale. Vabbè, un tempo fummo migranti pure noi italiani. Però è una storia che riguarda i nostri nonni, pace all’anima loro. E poi allora mica c’era il terrorismo, con la sua ferocia senza pari. Adesso c’è, e i politici non sanno trovare soluzioni. Di conseguenza abbiamo perso fiducia nei politici, e forse anche in noi stessi. Ci sentiamo confusi, spaesati. Ma dopotutto reclamiamo soltanto un po’ di sicurezza. È il primo diritto, l’unico davvero fondamentale. O no?
L’uomo moderno — scriveva nel 1929 Sigmund Freud — ha rinunziato alla possibilità d’essere felice in cambio di maggiore sicurezza. Ma sta di fatto che nel terzo millennio l’insicurezza domina la nostra vita pubblica e privata. Perché sperimentiamo matrimoni instabili, lavori precari, trasferimenti di città in città. E perché al rischio esistenziale si somma un rischio esterno, che la globalizzazione ha elevato alla massima potenza. Il rischio demografico, dato che siamo ormai 7 miliardi sulla faccia della terra. Il rischio ecologico, che s’aggrava insieme al surriscaldamento globale. Il rischio atomico, con 16 mila testate nucleari disseminate ai quattro angoli del mondo (70 in Italia), quando una ventina basterebbero per oscurare il sole. Il rischio idrico (le prossime guerre si combatteranno per il controllo dell’acqua). Il rischio economico, che non deriva solo dalla crisi dei mercati. È la diseguaglianza, è la forbice tra il Nord e il Sud del nostro pianeta (90 a 1, in base al reddito pro capite), che alimenta tensioni nonché — per l’appunto — migrazioni.
Sì, viviamo nella società del rischio, come la definisce Ulrich Beck. E il rischio alleva la paura. Però quest’ultima è una sorella inseparabile della condizione umana. Nel volgere dei secoli cambia l’argomento, non il sentimento. Anche se l’argomento principale è poi sempre lo stesso: paura dell’altro, paura del nemico che t’invade. Tuttavia abbiamo già escogitato un esorcismo, un antidoto contro il trionfo degli istinti. Consiste nelle regole giuridiche, nel rispetto del diritto, dei diritti. A conti fatti, lo Stato di diritto è proprio questo: una fortezza che protegge l’umanità dalla paura. Ma il presupposto sta nella sua capacità di garantire l’esercizio dei diritti. I diritti altrui, non solo i nostri. Perché i diritti sono di tutti, o altrimenti di nessuno.
Ecco perciò l’equivoco da cui dobbiamo liberarci: se neghiamo ai migranti i loro diritti umani, li neghiamo anche a noi stessi. E in ultimo diventiamo più insicuri. Più deboli, non più forti. La sicurezza, infatti, coincide con la sicurezza dei diritti. Tuttavia non configura un diritto autonomo a sua volta, come pretende un altro equivoco che ci intorbida le menti. Vero: la Déclaration del 1789 sanciva il «diritto alla sicurezza ». E già un secolo prima Thomas Hobbes, nel Leviatano (1651), v’imperniava la sua dottrina dello Stato. Hanno questa remota origine gli echi che ancora s’incontrano in alcune Costituzioni, come quella finlandese. Si tratta però di formule retoriche, se non anche pleonastiche. È del tutto ovvio, infatti, che ogni Stato debba proteggere i propri cittadini. Se nelle periferie milanesi si moltiplicano gli episodi di violenza, rafforzare i controlli — come ieri ha chiesto il sindaco Sala — è una misura obbligata, non una graziosa concessione dello Stato.
Insomma, la sicurezza non è un diritto, bensì un limite all’esercizio dei diritti. Vale per la privacy, che può ben essere violata quando entra in gioco l’esigenza di perseguire i criminali. Vale per cortei e manifestazioni, vietati se mettono a rischio l’incolumità pubblica. Vale per la libertà di domicilio, così come per ogni altra libertà. Ma se nessun diritto è incondizionato, allora non potrà mai dirsi assoluta la sete di sicurezza, che non assurge nemmeno al rango di diritto. A differenza del diritto d’asilo, protetto dall’articolo 10 della Costituzione. Da qui la conclusione: se per respingere i migranti proclamiamo uno stato d’assedio permanente, ne va di mezzo la nostra stessa libertà. E in ultimo l’ossessione della sicurezza ci recherà in dono la più acuta insicurezza.
michele. ainis@ uniroma3. it
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