venerdì 18 novembre 2016

Le lettere di Céline agli editori


Louis F. Céline: Lettere agli editori, a cura di Martina Cardelli, Quodlibet

Risvolto
Dalla prima spavalda lettera che accompagna il manoscritto del Viaggio al termine della notte («È pane per un intero secolo di letteratura. Il premio Goncourt 1932 su un piatto d’argento per il Fortunato editore che saprà accogliere quest’opera senza pari, momento capitale della natura umana») alle ultime, comiche e feroci, che scrive a Gallimard prima di morire, le 219 lettere qui raccolte ci mostrano un Céline arrabbiato, derelitto, incensato o dimenticato, ma sempre straordinariamente consapevole del proprio valore.

Con i suoi editori è impegnato fin da subito in un corpo a corpo estenuante, ora per difendere virgole e puntini, ora per rivendicare più austerità sulle copertine («Sobri Sobri Sobri – le stravaganze a casa, sotto le coperte!»), ora per accusarli di ogni sorta di nefandezze. Per lui l’editore è l’incarnazione del parassita: il padrone che sfrutta gli operai o il ruffiano che campa sul lavoro delle prostitute. Talvolta, più raramente, è un prezioso interlocutore con cui discutere di ciò che è davvero essenziale in letteratura: la resa emotiva, il ritmo, la famosa petite musique. Per quanto messi a dura prova dal suo carattere impossibile, i tre principali editori di Céline (Robert Denoël, Pierre Monnier e Gaston Gallimard) sono consapevoli di avere a che fare con uno scrittore immenso, che cambierà le sorti della letteratura francese. 
Céline  Non vi azzardate a cambiarmi nemmeno una virgola

Escono le terribili lettere agli editori inviate in trent’anni dall’autore di “Viaggio al termine della notte”


VALERIO MAGRELLI Rep 17 11 2016
Almeno sulla narrativa del Novecento francese, non possono esserci dubbi. Come scrisse una volta per tutte il maestro dell’antropologia, Claude Lévi-Strauss, «Proust e Céline: ecco la mia inesauribile felicità di lettore». Quanto al secondo, dunque, tanto vale mettere da parte la spinosa questione dell’antisemitismo, per arrendersi alla sua immensa statura letteraria – magari ricordando la posizione assunta da Cesare Cases, che proponeva di stamparlo la mattina e fucilarlo nel primo pomeriggio. Come che sia, siamo davanti a un autore il quale, nel rifiutare Proust a favore di Rabelais, impresse un impulso inaudito alla lingua francese. Quando si parla di Céline, inoltre, si è tranquilli di non sbagliare mai, perché l’energia del suo stile rifulge in ogni testo, anche nei più moralmente meschini. Ma tant’è, con buona pace di chi vorrebbe fondere letteratu–
ra ed etica. Lo prova adesso Lettere agli editori, un volume ottimamente curato da Martina Cardelli per Quodlibet (pagg. 256, euro 19). Il libro presenta 219 lettere, composte dallo scrittore fra il 9 dicembre 1931 e il 30 giugno 1961, poche ore prima di morire. Come nota Cardelli, toni spavaldi si alternano a pagine comiche e feroci, che ci mostrano un Céline arrabbiato, derelitto, incensato o dimenticato, ma sempre straordinariamente consapevole del proprio valore.
Le sue vicende editoriali si possono dividere in tre periodi: gli anni che vanno dal ’31 all’inizio della Seconda guerra mondiale, con la pubblicazione dei primi due capolavori ( Viaggio al termine della notte e Morte a credito), l’inizio della notorietà e i pamphlet razzisti; l’epoca dal ’44 al ’51, con l’esilio in Danimarca sotto l’accusa di collaborazionismo e l’uscita di alcune pubblicazioni semi-clandestine; infine il rientro a Parigi fino alla morte.
Tre periodi, bisogna precisare, per tre editori. Il primo fu il Robert Denoël, che nel 1931, folgorato dall’opera prima di un medico sconosciuto (il Viaggio), non esitò a pubblicarla. Nonostante la sconfitta al premio Goncourt, giunsero molte recensioni entusiastiche (specie da sinistra) e un’accoglienza da bestseller. Dopo l’uscita del secondo romanzo, che non ebbe però lo stesso successo, Denoël pubblicò tutti i pamphlet, prima d’essere assassinato nel 1945 per motivi tuttora misteriosi. La casa editrice passò allora nelle mani della sua compagna Jean Voilier, romanziera e avvocatessa che fu tra l’altro amante di Paul Valéry e Curzio Malaparte. Céline romperà con lei per passare al secondo editore, uno sconosciuto di nome Pierre Monnier, che si distinguerà per una assoluta dedizione e generosità. Monnier non solo aiutò l’autore durante dell’esilio e nel processo del febbraio 1950, ma dopo l’amnistia fu addirittura l’artefice principale del suo passaggio a Gallimard – la cui collana “Pléiade” sanciva l’assunzione fra i classici. E così fu: il ritorno a Parigi e la stesura del contratto con questo terzo editore misero fine a un doppio esilio, esistenziale e letterario.
Finalmente legittimato, e sostenuto da un romanziere antifascista come André Malraux, Céline approdava infine proprio a quella che avrebbe dovuto essere sin dall’inizio la sua vera casa. Infatti, la prima lettera di questo epistolario fu scritta appunto a Gallimard (allora edizioni della N.R.F., “Nouvelle Revue Française”). La colpa del disguido iniziale fu di Benjamin Crémieux, lo scopritore di Italo Svevo, che accettò sì il Voyage, ma troppo tardi, dato che il suo autore, come si è visto, aveva intanto firmato per Denoël. Ebbene, sapete quanto fu lunga l’attesa che irritò tanto Céline? Incredibile a dirsi: appena due mesi e mezzo… Questa quindi la trama della corrispondenza scelta dalla Cardelli. Resta da dire lo splendore, la ferocia e il sarcasmo delle missive, nonché l’abiezione del loro autore. La presunzione e l’opportunismo di Céline, sono pari soltanto alla sua grandezza. Siamo di fronte a un vero “effetto Wagner”, caso emblematico della spaventosa sproporzione fra un artista e la sua arte. La sensazione che si prova leggendo il narratore francese fa pensare a una doccia scozzese o alle montagne russe. Proviamo allora a dimenticare l’uomo, per godere appieno della sua scrittura. Toccanti le difese dei suoi testi da tagli e censure: «Non aggiunga una sola sillaba senza avvertirmi!», oppure: «Rifiuto nella maniera più assoluta di sopprimere una parola, una virgola», e ancora: «Con o senza il mio accordo, non dovete sopprimere nemmeno una lettera».
A questa appassionata difesa della libertà espressiva seguono osservazioni che illuminano una poetica basata sulla scelta dell’argot, di certe forsennate slogature sintattiche o del portentoso uso dei puntini di sospensione. È in questa nevrosi linguistica, in questa sontuosa frenesia (affidata alla prediletta immagine della “piccola musica”), che culmina la maestria di Céline. Egli lavora ad una sorta di sfregio musicale per dare vita a un francese alterato, travisato, sfigurato, frutto di crudeltà meticolosa, di feroce sapienza, di estenuato perfezionismo. La torturante bellezza dei suoi capolavori sta tutta nella forza con la quale lo stile si dimostra in grado di cantare l’orrore. Lo mostrò egli stesso, commentando con parole illuminanti la sostanza della violenza dispiegata nel teatro elisabettiano: «L’orrore è niente, senza il sogno e la musica… 3/4 di flauto, 1/4 di sangue».
Macbeth è puro Grand-Guignol senza musica, senza sogno… Prendiamo Shakespeare:

Così disse Céline ai suoi manutengoli
Carteggi. Oltre duecento «Lettere agli editori» scelte da Quodlibet tra quelle che l’autore del «Voyage» invia, fra il ’32 e il ’61: rigurgiti di odio verso quelli che considera «infami pescecani»
Massimo Raffaeli Alias Manifesto 4.12.2016, 22:56
L’epistolario di Louis-Ferdinand Céline non è una didascalia né una integrazione dei romanzi ma ne è, viceversa, la traccia itinerante così come il banco di prova. Non è un caso che il suo maggiore studioso, Henri Godard, abbia nel 2009 curato per la Pléiade, in collaborazione con Jean-Paul Louis, il volume delle Lettres (1907-1961) che pur costituendone una scelta consta di qualcosa come duemila pagine.
Esoso e sorprendente bilancio per un individuo bollato di tetraggine, di preconcetta ostilità agli umani e di inguaribile misantropia, il suo epistolario si profila come uno sfogatoio e, insieme, come una necessaria barra di appoggio, quasi una violazione del silenzio che intanto incuba il rancore, vero e proprio soundtrack della sua vita quotidiana e di una ispirazione che si manifesta per rigurgiti dell’odio. Scrisse infatti al momento dell’esordio, rendendo omaggio a Zola, tra i pochi cui riconoscesse l’onestà dello sguardo e una parola veridica, che la musica del suo stile, un argot da piccola gente, era potuta scaturire soltanto dall’odio.
Il risentimento, il rancore, una aggressività che non trova requie e ha bisogno di mutare bersaglio di continuo (come sanno i lettori del Viaggio al termine della notte, di Morte a credito e della terminale Trilogia del Nord, per tacere ovviamente dei pamphlet anni trenta, razzisti e antisemiti) insomma tutto il repertorio di una proclamata disumanità o comunque di una primitiva diffidenza nei riguardi degli uomini è la musa di Céline. O piuttosto, negli eccessi e negli improperi che non vogliono risparmiare nessuno, lì si celano i parafarnalia di una sensibilità ferita ab origine, di una condizione di minorità sociale e culturale (il figlio della merlettaia e di un modesto impiegato, l’autodidatta e il medico di banlieue) mai riscattata e in ogni caso mai accettata.
L’epistolario ci dice che Céline è un uomo incapace di ricevere un dono e, anzi, di concepirlo perché sempre sospetta nel dono una truffa, un raggiro. Le sue lettere ci dicono altresì che per lui è inimmaginabile la gratuità dell’amore, se non nella forma di un inganno da adolescenti, se persino la forma del patto e la nuda natura dello scambio gli inducono sospetto e acrimonia.
Va da sé che outsider per vocazione ed elezione, anarchico e indocile, incapace di fedeltà se non al fragore invasivo del suo genio, Céline ha maltrattato e vituperato, o peggio sistematicamente diffamato, i propri editori quali manutengoli, profittatori e infami pescicani, come attestano appunto le sue Lettere agli editori (Quodlibet, pp. 250, € 19.00), una selezione annotata e accuratamente tradotta da Martina Cardelli, che trasceglie dall’invaso delle Lettres ma specialmente dai Cahiers Céline (editi da Gallimard fin dagli anni settanta) e da diversi carteggi monografici . Le lettere sono circa duecento (solo per eccezione sono incluse missive dei corrispondenti), e vengono ordinate per cronologia, fra il ’32, l’anno in cui esplode il Voyage, e il ’61, l’anno in cui muore lo scrittore.
Tre sono i principali destinatari: prima Denoel, colui che lo pubblicò battendo sul tempo un consulente di prestigio della N.R.F. (l’esteta e diplomatico di carriera Benjamin Crémieux); quindi, negli anni della fuga da Parigi e dell’esilio danese, Pierre Monnier, che fu tanto suo editore clandestino quanto un agente decisivo per la rentrée a seguito dell’amnistia e del ritorno in Francia nel ’51; infine Gaston Gallimard (col suo maggiore editor, il critico Jean Paulhan) che acquisisce Céline in via definitiva, lo rilancia e lo immette addirittura vivo nella prestigiosa Bibliothèque de la Pléiade.
Tuttavia, Céline non si smentisce perché può variare l’occasione ma il tono delle lettere rimane uno e cioè la lamentela vittimistica. Dice di sentirsi un operaio sfruttato e depredato dei diritti d’autore, declama una panoplia di atti di accusa, perché costoro, gli editori, a vario titolo sarebbero incapaci di stampare un libro comme il faut, negati a valorizzarlo se non in presenza di paccottiglia commerciale, invischiati come sono tutti quanti da problemi di cocktail, di mondanità e di eterne vacanze. Qui l’invettiva arriva regolarmente al diapason, l’aggressività si libera in un grottesco che colpisce l’interlocutore/vittima nello stesso momento in cui sembra blandirlo o irretirlo.
Chi legge deve sentirsi necessariamente inadeguato, in colpa, ma nel frattempo lusingato dal fatto di venire omaggiato dai colpi di cotanto scrittore. Eloquente è il caso di Gaston Gallimard (e del suo povero assistente Paulhan detto Loukoum, insomma «Leccalecca»), il quale lo ha redento dalla condizione di paria, lo ha ripubblicato in blocco, gli ha versato consistenti anticipi, gli ha affiliato un consulente capace e affettuoso (il giovane romanziere Roger Nimier, l’autore di Le spade), lo ha «pléiadizzato» eppure si sente dare dell’ipocrita e del mentitore, del «cioccolataio» e del vecchio insatirito.
A lui scrive per esempio il 2 aprile del ’55 e a proposito della pubblicazione in volume dei Colloqui con il Professor Y, il solo testo di poetica che Céline abbia ufficialmente scritto in vita sua, costretto a redigerlo per motivi che oggi si direbbero di visibilità mediatica: «Lei è Compare Alibi, ha sempre la risposta pronta, evasiva o sbagliata ma sempre pronta! Certo che funzionerà se si danno da fare, se glielo ordina in quanto Papa della Sinagoga ‘N.R.F., rosso-frocio-gaullista’. Ridicola questa tiratura di 6.000 copie Vuol farmi crepare! Mi strangola! Papa rosso, frocio, gaullista! Viva Israele! Viva il ghetto N.R.F., frocio-gaullista-partigiano! E il suo Papa!»
C’è solo da aggiungere che l’invettiva per Céline non procede tanto o solo dalla intemperanza del carattere quanto dalla necessità di dare un volto e un nome agli assassini del pauvre Ferdinand, che è la maschera terminale e il personaggio essenziale, la vittima per eccellenza, della sua arte visionaria.
Basta leggere le prime cinquanta pagine di Da un castello all’altro (’57) dove Gaston nella sua scuderia tiene le fila del complotto o andare al baricentro di Pantomima per un’altra volta (’52), il romanzo del ritorno, in cui Ferdinand si vede linciato e sotterrato dagli autori della scuderia medesima, mentre i suoi nemici giurati (Sartre, Mauriac, Aragon) gli urinano addosso dall’orlo della fossa: è lì che alla faccia di lui se la ride Gaston, le vieux cochon, il vecchio porco naturalmente.

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