venerdì 11 novembre 2016

Leonard Cohen 1934-2016


Alessandro Zaccuri venerdì 11 novembre 2016  Avenire
Alessandro Zaccuri martedì 20 agosto 2013 
di Mario Luzzatto Fegiz


È morto Leonard Cohen, addio al maestro della poesia in musica
La Repubblica -



La realtà di Leonard Cohen
Icona. Morto a 82 anni il grande artista, una discografia ragionata da «I'm a man» al testamento di «You want it darker»
Guido Festinese Manifesto 12.11.2016, 22:56
Era anche uomo dei paradossi, Leonard Cohen, che amava rovesciare i vestiti stretti alla realtà, come succede spesso nelle storie buffe dell’umorismo ebraico, come succede sempre nei paradossi zen, per cui una gran tour a tappe forzate nell’opera discografica lasciata dal Gran canadese incomincia dalla coda ultima di pochi giorni fa, ottimo viatico per poi risalire lungo la corrente di una poesia in musica tanto impetuosa quanto elegante.
Si inizi dunque con la dolorosa intensità negativa, da diamante nero grezzo, di You Want it Darker, estremo lasciato di Cohen. Completato con fatica e dignità, lasciato lì a riflettere il buio di uno specchio nero affacciato sulla fine. Cohen chiude il suo cerchio iniziato sui solchi del vinile cinquant’anni prima e lo fa, non a caso, facendo interagire un coro maschile da sinagoga con la sua voce abissale, un pacificato fiume carsico di bassi estremi per dire «Sono pronto, mio signore». Lui che, in realtà, ha duellato per una vita nelle sue canzoni (e nella sua esistenza) con un dio perennemente evocato, cercato e mai trovato. Si passi da lì, con una capriola di mezzo secolo, al primo colpo da maestro, piazzato nel dicembre del ’67.
Songs of Leonard Cohen. Nei credits non appaiono, ma ci sono i magnifici Kaleidoscope dalla California a dare una mano in studio con il loro strumentario anche mediorientale a quelle canzoni semplici, eleganti e perfette, scolpite verso dopo verso, con una spanna di cuore che batte anche verso il ricordo di un’Europa lontana, da chansonnier. È nata una voce che si porterà dietro tutti i cavalieri oscuri e dubbiosi, almeno da Fabrizio De André, che vestirà di altra poesia tre anni dopo quel capolavoro di delicatezza poetica verso le donne nel disco che è Suzanne, a Nick Cave il Re Inchiostro. E c’è anche The Stranger Song, un arpeggio ossessivo che diventa un fiume di dolcezza per parlare di un uomo che guarda incuriosito a se stesso ed alla propria fragilità sorgiva, il modello evidente di quanto, anni, dopo, sarà Amico Fragile di Faber. Si noti: Cohen quando entra in studio ha l’età di Cristo, trentatre anni, non è un ragazzino, ma un giovane talento della letteratura canadese che ha fatto parlare di sé dove si annusano le persone di valore. E ha aguzzato le orecchie un signore che nella vita non ha fatto altro che scoprire artisti speciali: prima ha scovato Billie Holiday, poi Bob Dylan, ora tocca a Leonard Cohen.
La magia continua e si affina con Songs From a Room, 1969: da lì, di nuovo, De André attingerà Seems So Long Ago, Nancy, che diventa Nancy, lì trovate la monumentale Bird On The Wire, e l’epica The Partisan, dove Cohen riprende il «Compianto del partigiano» di Anna Marly, su parole originali scritte dal maquis francese Emmanuel d’Astier de la Vigerie. Nel successivo Songs of Love and Hate, del ’71, si stagliano almeno due gemme dolenti, su un discreto tappeto d’archi a fondale, per un disco che prevede anche interventi di un coro di bambini: Famous Blue Raincoat («E che ti posso dire ora fratello mio, mio assassino? Credo che mi manchi, credo di averti perdonato, credo di essere felice che tu abbia seguito la mia via»), una delle più straziate canzoni d’amore mai scritte, e Joan D’Arc.
La musica si veste di molti colori nel magnifico New Skin For The Old Ceremony, il capolavoro del ’74, sia per intervento di una squadra perfetta di musicisti, sia per la varietà di situazioni sonore inventate da Cohen, una voce che spesso è un soffio ubriaco e spiazzante, come in Lover Lover Lover e nella luciferina Leaving Green Sleeeves. Devono passare dieci anni prima che il poeta del Quebec ricominci a piazzare canzoni memorabili: ma Various Positions, 1984, è un colpo di reni inatteso e bruciante, con la potenza in legacci di Dance Me To The End Of Love, e il rotolare composto e sapienziale della sontuosa Hallelujah, che il compianto Jeff Buclkey trasformerà in una sorta di liturgia angelica.
Da lì inizia il ritorno del bardo dalla voce profonda come il mare: in I’m Your Man c’è la fortunata e ironica First We Take Manhattan, in The Future, un disco marcato da una voce che sembra arrivare dalla catacombe nascoste dell’umanità c’è Closing Time, per molti la sua vetta più alta.

Cohen è tornato, è un signore anziano che continua a vivere con la sigaretta in mano danzando sul filo di rasoio di una incredulità pronta a farsi disperato voglia di credere. E passa gli ultimi anni a regalare a intervalli periodici dischi splendidi e sussurrati, il canto ridotto a un epitomico «talking» morbidamente appoggiato sugli strumenti e su sinuosi cori femminili.
Su Popular Problems sfiora sornione una musica che dentro gli era sempre pulsata, Almost Like The Blues, su Old Ideas piazza un diretto al cuore subito in apertura, Going Home, su Can’t Forget la gemma arriva da un soundcheck in Nuova Zelanda, Got a Little Secret. Volete le cose più scure ancora? Ripartite da You Want it Darker. E poi dal primo, e così via. E così sia.

Leonard Cohen, voce seducente di un poeta tormentato e senza tabù Addio al cantautore, 82 anni. Recentemente aveva confessato: sono pronto a morire Marinella Venegoni  Busiarda
«Sono pronto a morire. Spero non sia troppo disagevole». Lo aveva appena confessato in uno dei tipici understatement Leonard Cohen al 
New Yorker
, durante le interviste di rito per l’uscita, appena a fine ottobre, del suo ultimo album 
You Want It Darker
, che dal primo ascolto presagiva la fine, suscitando lo stesso disagio di 
Blackstar
di David Bowie. Il 2016 si porta via un altro artista di razza, un poeta letterato e cantautore seminale, che con la sua sensibilità spoglia e raffinata, la voce profonda e sexy, il rifiuto della retorica, ha costruito al pari di Bob Dylan le sensibilità e gli umori di una generazione che guardava sempre avanti e altrove. 
Cohen se n’è andato a 82 anni nella sua casa di Los Angeles, ieri mattina o quando chissà. I pochi che lo avevano incontrato per la promozione dell’album lo avevano visto provato. Del resto, nelle canzoni di You Want it Darker cantava di voler lasciare il tavolo, di voler perdere nel gioco dell’amore, e la title-track era una sommessa preghiera ebraica dove assicurava «I’m Ready My Lord», con un coro registrato nella sinagoga di Montreal che frequentava da bambino.
Figura atipica nel mondo della musica popolare. A 22 anni un suo romanzo, Beautiful Losers, aveva fatto scrivere al Boston Globe: «James Joyce non è morto. Vive a Montreal sotto il nome di Cohen». Ma fin dall’infanzia in Canada - padre negoziante di stoffe, mamma figlia di un rabbino - sognava di esser musicista. Un debutto tardivo il suo, solo nel ‘67, dopo aver ammirato Elvis che aveva trovato un’espressività nella quale si riconosceva la sua generazione. Quando nacque Songs of Leonard Cohen, era un album di tutt’altra pasta, voce e chitarra, e lo dissero un po’ funereo. Conteneva alcuni dei successi che lo hanno accompagnato nel mondo fino a oggi: Suzanne e Marianne, sua musa ispiratrice scomparsa di recente, alla quale scrisse la scorsa estate: «E’ venuto il giorno in cui siamo davvero vecchi e i nostri corpi sono a pezzi: penso che ti seguirò molto presto». Amatissimo da tutti gli artisti del mondo, le sue canzoni sempre molto cantate: Hallelujah dell’84 fu incisa anche da John Cale, ed è nei nostri tempi una delle canzoni più martirizzate dagli aspiranti artisti in gara nei talent show.
Fu un uomo tormentato, nei pensieri e negli amori. Nel 1974, il brano Chelsea Hotel No.2 offrì un racconto convincente della sua breve relazione con Janis Joplin. Molto prima, aveva lasciato la Colombia University per stabilirsi con la musa di turno nell’isola greca di Hydra a scrivere romanzi e poesie. Solo nel ‘66 aveva raggiunto la prima fama grazie alla folk singer Judy Collins che aveva cantato alcune delle sue canzoni. A metterlo sotto contratto fu John Hammond, con il quale firmarono pure Bob Dylan e Springsteen. 
Soffriva di depressione, e nei ‘90 confessò di aver trovato un sollievo nella filosofia Zen. Stava rinchiuso per mesi in un monastero a Mount Baldy in California, sotto il nome di Jikan, uomo silente. Ma non ripudiò mai l’ebraismo: ieri dopo l’annuncio della scomparsa il Primo Ministro istraeliano Netanyahu gli ha reso omaggio ricordando che nel 1973 tenne un concerto davanti ai soldati, durante la guerra del Kippur. 
Leonard Cohen era un meraviglioso bardo dei sentimenti, un narratore di emozioni che cullavano l’ascolto dei suoi album e dei sempre più numerosi concerti. La sua sfortuna fu infatti di aver perso il patrimonio ingente di anni di lavoro, sottratto dalla manager Kelley Lynch (poi condannata nel 2004) che non restituì mai 9,5 milioni di dollari. Dopo 15 anni di assenza, il problema divenne una risorsa per i fans, che hanno potuto goduto in ogni parte del mondo dei numerosi tour con i quali l’artista ha poi cercato di rifarsi dalle perdite. Sul palco era spiritoso, impeccabile performer, apparentemente algido nel stile dolce e spoglio. Un artista indimenticabile, uno da Nobel anche lui come Dylan. 
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“Sei anni nel monastero con un maestro zen in cerca di semplicità”Così raccontava la sua vita in isolamento Piero Negri  Busiarda
Non è difficile immaginare come fosse realmente Leonard Cohen, basta aver visto e ascoltato uno dei suo album: vestito di grigio, o nero, molto cortese, voce dai toni bassi, frasi brevi e semplici per dire verità intime e spesso universali. 
Lo incontrai per la prima volta nel 1992, quando lui a 58 anni aveva salutato il nuovo ordine mondiale con un album e una canzone intitolati The Future: «Ridatemi il Muro di Berlino, ridatemi Stalin e san Paolo, ho visto il futuro, fratello: è un massacro». Ero pronto a parlare di politica, della sensazione che si aveva a quel tempo, che la Storia si facesse sotto i nostri occhi, lui parlò di Apocalisse: «L’umanità sta per essere travolta, siamo ai giorni finali, è difficile per chiunque trovare un senso a ciò che fa, alla sua esistenza». Gli chiesi allora quando pensava fosse iniziato il «Futuro». Rispose: «Hai presente quelle pitture rupestri nelle grotte spagnole? Siamo sempre quelli, da allora non siamo cambiati poi granché».
Dopo quell’album, e il tour che ne seguì, Cohen salì in montagna, in un monastero zen, in California. Ci rimase quasi sei anni, tornò con un quintale di carta («Dentro c’erano canzoni per due album e un libro»). Nel 2001, a 67 anni, pubblicò l’album Ten New Songs e venne in Italia a parlarne. Era sempre molto elegante, vestito di nero, il tono di voce era ancor più basso, l’ironia era diventata autoironia: «Nessuno ti chiede di andare in profondità: le mie canzoni se ne stanno lì e galleggiano sulla superficie. Ma chi vuole, trova porte e finestre per entrare», mi disse. E spiegò come Roshi, il suo maestro zen, l’aveva cambiato: «Cucinavo per lui, ero il suo attendente. Lui non parla bene inglese, la conversazione era elementare, nessuna grande idea, nessun concetto complesso. Gli portavo la cena, lui diceva: “Questo ristorante buono”. Sono suo amico da trent’anni, nel 1993 pensai che fosse il momento di passare un po’ di tempo con lui. Sono andato nel suo monastero, gli sono stato vicino, poi, senza traumi, gli ho chiesto il permesso di tornare alla mia altra vita. Ho indossato l’abito del monaco ma non ho mai cercato una nuova religione, sono sempre stato felice della mia. Quella era la forma che il mio maestro aveva scelto: per studiare con lui era appropriata e direi naturale. Ma nello zen non c’è affermazione né negazione di Dio, e dunque non c’è mai stato alcun conflitto con la mia vecchia religione».
Parlammo di ispirazione e lui ripeté una delle sue frasi proverbiali: «Se sapessi dove nascono le belle canzoni, ci andrei più spesso»; del figlio musicista: «Gli hanno chiesto: è difficile essere figlio di Leonard Cohen? E lui: non saprei, Leonard Cohen è più che altro mio padre. Buona risposta»; di The Future: «Era un manifesto geopolitico demente, ciò che il cuore potrebbe scrivere se gli si chiedesse di scrivere un manifesto geopolitico. Lo rifarei? Ora sono pacificato». Tanto pacificato da concludere, con un sorriso: «Hanno scritto che ai miei concerti dovrebbero distribuire le lamette per chi si vuole tagliare le vene. Non hanno del tutto torto, a volte so essere deprimente».
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Leonard Cohen  Poesia e pop sublime dell’asceta del rockGIUSEPPE VIDETTI Rep
ERA preparato. Attrezzato, come si dice in psicoanalisi. Leonard Cohen, cantautore, poeta e narratore canadese morto a Los Angeles a 82 anni il 7 novembre (la notizia è stata data solo ieri), se n’è andato con un corredo funebre perfettamente in ordine. Ricco di parole e note scarne, ma non meno splendente del tesoro di Tutankhamon. Il “dirge” era già stato intonato dalla voce di un rabbino in You want it darker — l’album d’addio che aveva presentato al pubblico poche settimane fa, con il distacco e la serenità di sempre — senza lasciar intendere che quelle parole di serena accettazione («Sono qui, mio Signore, sono pronto») fossero solo dettate dalla consapevolezza dell’impermanenza, ma anche dalla certezza di un’imminente dipartita. Non era difficile indovinarlo, il vecchio Leonard citava le scritture e chiamava intorno a sé la famiglia (il figlio Adam in veste di produttore), un estremo ricorso all’infanzia e agli affetti prima di dire addio. Ci eravamo aggrappati a quella voce immacolata, rassicurante, per niente screpolata dagli anni e dalla malattia, saggia e autorevole, per scongiurare il pensiero che lui, come Bowie, si stesse congedando dal mondo usando l’arte come viatico per l’aldilà — David sfidando con Black star l’oscuro terrore dell’inconosciuto, Leonard accarezzando la certezza di un nuovo inizio.
Seducente fino alla fine, anche se Borsalino e gessato avevano preso il posto di jeans e dolcevita con cui l’espatriato scese al Chelsea Hotel in quegli anni Sessanta in cui Suzanne, Bird on a wire e Famous blue raincoat diventarono il passepartout di una generazione che venerava i beatnik senza averli conosciuti e di una schiera d’interpreti (da Judy Collins a Nina Simone) a caccia di canzoni potenti. Trattava angosce, turbolenze, fragilità, paure e paranoie con la stessa sublime delicatezza con cui gli veniva di raccontare lo stupore indifeso del maschio nel momento dell’orgasmo ( Dance me to the end of love) o la crudeltà della malattia che aggredisce la virilità (“I ache in the places where I used to play”, “ Ho dolore in quei posti che mi davano piacere”, cantava alludendo ai problemi di prostata in Tower of song); la stessa grazia con la quale fece convivere mitologia e pansessualità nel romanzo Belli e perdenti. Non gli venne mai di predicare contro i padroni della guerra, dava per scontata la ferocia degli umani; preferiva concentrarsi sulle sue battaglie, sui demoni che esorcizzava in solitudine: da giovane nell’isola di Hydra, in Grecia; in maturità nel monastero buddista di Mt. Baldy, cento miglia da Los Angeles, dove si ritirò nel 1993 per otto anni. Lo scovai lì, nel 1997, quel giorno di settembre in cui il terremoto fece tremare Assisi. In montagna era già freddo, mi accolse nell’umile cella, rasato, infradito ai piedi, vestito da monaco. «Sicuro che vuol restare per la notte? Dovrà dormire sulla mia stuoia, tanto io sarò di là a vegliare Roshi, il mio maestro è malato. La chiamerò alle quattro per la meditazione del mattino», sussurrò prima di congedarsi con un inchino.
Il silenzio era d’obbligo, fu un’intervista sussurrata.
«Perché è venuto fin quassù? Babilonia non mi ha ancora dimenticato? », scherzò dopo la colazione a dir poco frugale, divertito dai crampi che mi tormentavano dopo troppe ore nella posizione del Buddha.
Avrei giurato che si sarebbe addormen-tato per sempre in quel silenzio irreale, niente più canzoni né poesie né sesso. Invece quattro anni dopo lo ritrovai a Milano, elegantissimo, una sigaretta via l’altra, profumato di Habit Rouge — il ritratto dell’ultimo Leonard Cohen — e in mano il disco del ritorno a Babilonia ( Ten new songs). «Come vede non era una vocazione duratura», disse. Ma You want it darker ci assicura che non aveva dimenticato le parole con le quali mi congedò quel giorno di settembre a Mt. Baldy. «Il vero amore è il coraggio dell’addio; la vera vita è inaugurata dalla morte». Sacrosanto. Ma a chi si è nutrito di Canzoni di amore e odio fa male pensare che se ne sia andato proprio ora che il Nobel non è più un miraggio.
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