domenica 20 novembre 2016

Mai la sinistra dirittumanista aveva riservato a Hillary Clinton l'accanimento che dimostra verso Trump

wasp
Guido Caldiron: Wasp, Fandango

Risvolto
Vuole chiudere le porte degli Stati Uniti ai musulmani, costruire un muro al confine con il Messico, cacciare dal paese milioni di immigrati che nelle città americane vivono e lavorano talvolta da decenni. Se l’American dream scricchiola e gli otto anni di presidenza di Barack Obama mostrano di non essere stati in grado di guarire in profondità le ferite del razzismo, in molti sembrano disposti ad affidare le loro residue speranze a un outsider assoluto della politica, un discusso miliardario del mattone che si è saputo trasformare in una star dei reality televisivi, Donald Trump. È lui ad aver dato voce, nel corso della più violenta e aggressiva campagna presidenziale dell’intera storia statunitense, alla paura, al risentimento, alla frustrazione e al rancore di quest’America delusa e in collera.
Interprete cinico e opportunista di una critica al “sistema” e al politicamente corretto, Trump appare perciò come l’ideale punto di arrivo di una lunga vicenda che ha visto il conflitto razziale e le discriminazioni come il sintomo più evidente e inquietante di una crisi tutta attuale e dagli esiti al momento ancora imprevedibili.
Il libro di Guido Caldiron ripercorre la strada che ha condotto gli Stati Uniti alle soglie di un’elezione inaspettata e pericolosa. Trump non è un’eccezione, è il prodotto di una cultura fortemente conservatrice che propone di difendere quel che resta della supremazia wasp contro la minaccia rappresentata dalla rapida crescita demografica delle minoranze.

Donald Trump, la stella della destra statunitense brilla nella Casa Bianca 

Saggi. «Wasp» di Guido Caldiron per Fandango. Una documentata analisi sui legami del nuovo presidente con la destra Usa 
Benedetto Vecchi Manifesto 19.11.2016, 18:51 
Ha la passione dell’archivista. Cataloga archivi, libri. Poi mette in campo l’esperienza accumulata in anni di lavoro giornalistico e definisce legami, link, linee di interpretazione per materiali grezzi e, periodicamente, pubblica libri sulle convulsione e le evoluzioni della destra politica e sociale tanto in Europa che negli Stati Uniti. Guido Caldiron è un nome noto ai lettori del manifesto per la sua capacità di interpretare un fenomeno «globale». Lo stesso fa in questo saggio uscito prima che Donald Trump diventasse presidente degli Stati Uniti e pubblicato da Fandango. 
Già il titolo – Wasp, usato per indicare i maschi bianchi discendenti da quei padri pellegrini che colonizzarono il territorio oggi chiamato Stati Uniti – è sintomo della chiave interpretativa dell’ormai presidente americano. L’humus culturale, politico, religioso di Trump sta in quel desiderio di «rifare grande l’America» e tornare alle origini dove la purezza della «nuova Gerusalemme» da edificare non è mai messa in dubbio. Anche se l’autore sottolinea il fatto che Donald Trump è un coacervo di antico, ma anche di nuovo. Più realisticamente è l’espressione di un pensiero politico postmoderno caratterizzato da xenofobia, machismo, culto di una comunità immaginata come coesa e regolata secondo i principi della domanda e dell’offerta. 
Può apparire affrettato affermarlo, ma Trump appare come espressione di un fascismo postmoderno che considerare la democrazia non un intralcio, a differenza di quello storico, ma solo come un dispositivo che è limitato alla sola libertà di parola, senza che questo si traduca mai nel mettere in discussione il monopolio della decisione politica incardinato sul rapporto tra l’élite economica e i suoi rappresentanti politici. 
Il libro è una miniera di informazioni sulla storia di Trump, del suo entourage, dei suoi legami con i settori più radical del conservatorismo statunitense. Ma mai Caldiron qualifica il nuovo presidente come populista. Piuttosto lo vede come espressione di un riflesso identitario di un paese impoverito, segnato da quell’immane processo che ha ridisegnato il modo di produzione capitalistico attraverso la delocalizzazione e la centralità della finanza come fattore di governo del ciclo economico. 
I «maschi, bianchi arrabbiati» non sono un’invenzione dei media, ma più che votare a mani basse per Trump, come talvolta emerge dai commenti europei, hanno semmai disertato le urne. Trump si è fatto interprete di quella rabbia, usando il risentimento, il livore accumulato in decenni di salari al palo e riduzione del potere contrattuale per imbastire un attacco al partito democratico, considerato, con molte ragioni, complice o subalterno agli interessi di Wall Street e di quella new economy ritenuta espressione di un cosmopolitismo ostile agli «americani». 
La scelta di parte della working class di non votare o di guardare con indifferenza alla possibile sconfitta di Hillary Clinton da parte di afroamericani, donne e giovani condannati alla proiezione nel futuro di un presente costellato di lavoretti e precarietà ha portato Trump alla vittoria. Per Guido Caldiron è la conferma di un sentimento forte, identitario presente negli Usa. E, va aggiunto, di una erosione ulteriore dell’egemonia statunitense nel mondo, che non può certo essere ripristinata mettendo indietro le lancette della Storia. E che avvolge la presidenza di Trump nelle nebbie dell’arroganza, che non esclude guerre commerciali e una ulteriore militarizzazione della politica internazionale.

La filosofia di Bannon “Metteremo insieme populisti e nazionalisti” Il consigliere del magnate: creeremo lavoro qui in America Al golf club il disgelo fra Trump e Romney: ottimo incontro Paolo Mastrolilli  Busiarda 20 11 2016
«La tenebra è buona. Dick Cheney, Darth Vader, Satana. Questo è il potere». Uno potrebbe scambiarla per la battuta conclusiva dell’ultimo film nella serie «Guerre Stellari», invece è una riflessione autentica che Steve Bannon, capo consigliere del presidente eletto Trump nella prossima Casa Bianca, ha affidato a Michael Wolff di «Hollywood Reporter», spiegando i suoi piani per il governo degli Stati Uniti. «Non sono - ha aggiunto - un nazionalista bianco. Sono un nazionalista, un nazionalista economico. Costruiremo una coalizione che metterà insieme nazionalismo e populismo, focalizzata sulla creazione dei posti di lavoro. Se lavoreremo bene alle prossime elezioni ci voterà il 40% dei neri e degli ispanici, oltre al 60% dei bianchi, e governeremo per cinquant’anni».
L’intervista rivelatrice di Bannon è uscita nel giorno di altri due eventi significativi. Il primo è stato l’incontro di Trump col candidato presidenziale repubblicano del 2012, Mitt Romney, perché ha rappresentato un’apertura verso l’establishment, nonostante gli insulti scambiati in campagna elettorale, comunque vada a finire l’idea di offrirgli il posto di segretario di Stato. «È stato un incontro - ha detto Mitt alla fine - produttivo. Abbiamo parlato delle questioni internazionali dove sono in gioco gli interessi degli Stati Uniti». Donald Trump poco dopo ha definito «ottimo l’incontro» con Romney.
Il secondo evento della giornata sono stati i fischi al vice presidente Pence durante lo spettacolo di Broadway Hamilton, perché sono la sintesi della percezione sbagliata dell’America da parte delle élite liberal, che secondo Bannon ha aiutato il suo candidato a vincere.
Il consigliere di Donald è nato in una famiglia democratica di colletti blu a Norfolk, in Virginia. Come tanti ragazzi poveri aveva cercato di costruirsi un futuro arruolandosi nella Navy, ma poi era andato a studiare a Georgetown e Harvard. L’intelligenza, dunque, non gli manca. All’inizio l’aveva messa al servizio della finanza, cioè fare soldi, ma poi l’aveva offerta a Breitbart, il sito conservatore di informazione che ha sostenuto Trump. A metà agosto è diventato capo della campagna elettorale, e la sua strategia l’ha portato alla vittoria. Bannon ha detto a «Hollywood Reporter» che la debolezza fatale di Hillary Clinton è stata dimenticare la classe lavoratrice, e fidarsi dell’informazione autoreferenziale dei media liberal. Così non ha capito cosa stava succedendo nel Paese, al contrario di Trump che «lo intuisce di pancia», aprendogli le porte della Casa Bianca. 
Bannon ora ride allo stesso modo dei media che lo bollano come razzista e antisemita, sperando che continuino a non vedere la realtà. Così lui e Donald potranno puntare sul nazionalismo economico, generare posti di lavoro e ricchezza, e creare quella «maggioranza permanente» che il consigliere di George Bush Karl Rove aveva solo potuto sognare. 

Forse servirà dare a Romney il posto di segretario di Stato, o al generale Mattis il Pentagono, per placare e distrarre i critici oltraggiati dai falchi sistemati finora nei posti chiave dell’amministrazione. O forse no. Tanto Bannon, come durante le elezioni, ha una strategia in mente che gli avversari non capiscono, ma secondo lui parla direttamente al popolo.


L’elogio dell’oscurità dello stratega Bannon “Io, nazionalista economico il potere sta nell’ombra” 
Il consigliere del presidente eletto intervistato da Michael Wolff: “I democratici sono ciechi Non capiscono chi siamo e hanno perso di vista la gente”

MICHAEL WOLFF Rep 20 11 2016
QUANDO A FINE estate incontrai nel suo ufficio alla Trump Tower Steve Bannon, allora neo-nominato stratega della campagna di The Donald, mi parlò del successo sorprendente che il suo candidato avrebbe avuto fra le donne, i latinos e gli afroamericani, oltre che tra i lavoratori bianchi. Il 15 novembre, all’indomani della sua promozione a
chief strategist, consigliere strategico alla Casa Bianca, sono tornato a trovarlo. Mi ha accolto con un «Te lo avevo detto».
E pensare che il muro di protezione dei liberal verso Trump si basava sul fatto che il candidato repubblicano era troppo disorganizzato e privo delle sfumature necessarie a gestire una corsa elettorale. Opinione confermata quando a capo della campagna in agosto venne nominato proprio lui, il direttore dello strano e oltraggioso Breitbart. Quel Bannon che oggi è diventato la persona più potente del nuovo staff alla Casa Bianca. Il buco più nero in cui i democratici potessero cadere. «L’oscurità è un bene», dice lo stratega: «Dick Cheney. Dart Fener. Satana. Questo è il potere. Aiuta quando loro (credo che per “loro” intendesse i liberal e i media, ndr) si sbagliano, quando loro sono ciechi e non vedono chi siamo e quello che stiamo facendo».
Lui, d’altronde, è l’uomo delle idee. Se il trumpismo dovrà rappresentare qualcosa di intellettualmente e storicamente coerente, sarà compito suo dargli un volto. Ma per i liberal è un personaggio poco rassicurante e difficilmente comprensibile. Nato in una famiglia operaia, dopo il liceo si è arruolato in marina, si è diplomato al Virginia Tech, ha frequentato l’Harvard Business School, ha lavorato per Goldman Sachs, è diventato imprenditore a Hollywood e infine ha trovato un suo ruolo nel mondo delle grandi cospirazioni conservatrici di destra a capo del colosso mediatico
Breitbart News Network. Ciò che sembra essergli rimasto delle sue radici operaie e democratiche è un’irreparabile acredine di classe. Che lo spinge a pensare che il partito democratico ha tradito la classe operaia. «La forza di Bill Clinton — dice — stava nel sfruttare le persone senza istruzione. È con loro che si vincono le elezioni». Allo stesso modo anche il partito repubblicano ha tradito l’elettorato operaio negli anni di Reagan. Insomma i lavoratori, sono stati traditi dall’establishment che lui definisce «la classe dei donatori». È questa la base nel malinteso che ha portato i
liberal a credere che la retorica di Donald Trump lo avrebbe condotto alla sconfitta invece che alla presidenza. E che porta Bannon a respingere l’etichetta di razzista a lui affibbiata: «Non sono un nazionalista bianco. Sono un nazionalista. Un nazionalista economico. La globalizzazione ha sventrato la classe operaia americana e creato il ceto medio asiatico. Ora dobbiamo impedire che gli americani restino fottuti. Se riusciremo, otterremo il 60 per cento del sostegno dei bianchi e il 40 per cento di quello di neri e latinos. Resteremo al governo 50 anni». Ecco perché Hillary ha perso: «I democratici hanno parlato solo con “i donatori”, i loro finanziatori. Persone che hanno società che fatturano nove miliardi di dollari ma danno lavoro solo a nove persone. Hanno perso di vista la realtà. Il nostro è invece un movimento populista dove gira tutto intorno al lavoro. Io premo per un piano infrastrutture da mille miliardi di dollari. Sarà elettrizzante come gli anni Trenta, più grande della rivoluzione di Reagan dove conservatori e populisti, saranno uniti in un movimento nazionalista economico».
È dal fallimento dell’establishment che viene l’ascesa di Bannon. «La bolla dei media è solo il simbolo ultimo di quello che non va in questo Paese» continua. «Sono una cricca di persone che parla tra loro e non ha nessuna fottuta idea di quel che accade. Un circolo chiuso dal quale Hillary Clinton ha attinto informazioni e fiducia. Permettendoci di fare breccia». Il suo trionfo, d’altronde, non è solo sull’establishment liberal, ma anche su quello conservatore, rappresentato, nel mondo dei media, da Fox News e dal suo proprietario Murdoch. «Hanno frainteso le cose anche peggio degli altri», dice Bannon. «Rupert non ha mai capito Trump, lo considera un radica- le. Io no». Una convinzione che gli ha dato forza quando è subentrato a Paul Manafort nella direzione di una campagna elettorale che tutti già consideravano perdente. La sua intuizione è stata decisiva: più la campagna elettorale pareva in caduta libera più quello poteva essere il binario giusto. Tanto più Hillary disertava i comizi per corteggiare i suoi finanziatori, tanto più Trump arringava folle sempre più vaste, 35-40 mila persone alla volta. «Qualcosa che gli riesce d’istinto», spiega Bannon. «È diretto, non usa il gergo della politica, comunica in modo viscerale. Nessun democratico ha ascoltato i suoi discorsi con attenzione e quindi nessuno ha capito che il suo messaggio economico era potente». Per questo quando tutti gli uomini di Trump pensavano che solo un miracolo potesse salvarlo, Bannon continuava a ripetere che «Hillary non ce l’avrebbe fatta». Convinzione che ora lo porta a essere una delle due teste pensanti della Casa Bianca: insieme a Reince Priebus, nuovo capo dello staff, incaricato di far arrivare i treni in orario, mentre lui, chief strategist, avrà l’incarico di delineare la visione, la narrativa e il piano d’azione del Presidente.
Un potere complicato che dovrà fare i conti con le ambizioni e le stranezze di Trump, un presidente che non ha mai ricoperto incarichi elettivi, l’agenda di una famiglia influente e le manovre di un partito dove molti lo hanno osteggiato. Una corte complessa dove Bannon dovrà giocare d’astuzia per realizzare il suo piano di rilancio del lavoro da mille miliardi di dollari. Non a caso di sé dice: «Sono Cromwell alla corte dei Tudor».
Copyright Michael Wolff Traduzione di Anna Bissanti
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Da Jefferson a The Donald quando il voto per il presidente cambia la storia dell’America 
Ci sono state elezioni conflittuali, come fu anche quella di Lincoln che portò alla Guerra di Secessione: un precedente utile a ricordare le conseguenze negative della polarizzazione politica

EVAN CORNOG Rep
L’ELEZIONE di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti ha lasciato di stucco molti americani (ed entusiasmato molti altri). Qui si era sviluppata tutta un’industria di sondaggi, e di sondaggi di sondaggi e analisi di sondaggi, e i drogati di elezioni avevano passato ore e ore negli ultimi mesi a controllare compulsivamente l’andamento presunto della competizione.
Per quasi tutta la campagna, Hillary Clinton è stata favorita per la vittoria. Il New York Times le assegnava l’84 per cento di probabilità di prevalere. È stata un’ondata di consenso tra gli elettori bianchi senza titolo di studio universitario a sospingere la vittoria di Trump, e ora giornalisti e commentatori si battono il petto e si rinfacciano l’un l’altro di aver sottovalutato questo aspetto cruciale del voto di quest’anno. Sono state rispolverate le analogie con il referendum sulla Brexit della scorsa estate (che erano state accantonate quando i sondaggi sembravano indicare una vittoria della Clinton).
Anche se fosse stata prevista, una vittoria di Trump avrebbe rappresentato uno shock per il sistema politico americano (e per gli alleati dell’America): naturalmente ora lo shock è ancora maggiore, perché inaspettato. Ma non è la prima volta che il risultato di un’elezione presidenziale americana sembra destinato a strattonare la storia della nazione in una nuova direzione.
Il primo sommovimento di questo genere arrivò con l’elezione a presidente di Thomas Jefferson nel 1800. Jefferson sconfisse John Adams, a cui aveva fatto da vicepresidente (il primo sistema elettorale della nazione stabiliva che il secondo classificato nelle elezioni presidenziali diventava vicepresidente, un difetto che venne presto corretto). Nonostante il suo ruolo, Jefferson si era fortemente opposto alla politica estera di Adams alla fine degli anni ‘90 del Settecento, quando le tensioni marittime tra Stati Uniti e Francia sfociarono nella cosiddetta Quasi-Guerra. L’elezione del francofilo Jefferson più che un cambio di rotta a molti nel partito federalista, la formazione a cui apparteneva Adams, sembrò una legittimazione del tradimento. Nel 1800 la spaccatura era fortemente sentita.
L’elezione più conflittuale nella Storia americana fu quella del 1860, una corsa a quattro che si concluse con una vittoria netta (per numero di grandi elettori) di Abramo Lincoln (n termini di voto popolare, prese poco meno del 40 per cento). L’affermazione di Lincoln condusse alla secessione degli Stati schiavisti del Sud e poi alla Guerra di Secessione, il conflitto più sanguinoso nella storia degli Stati Uniti: è un precedente utile a ricordare che le conseguenze della polarizzazione politica a volte possono essere terrificanti.
Più di recente, un’altra elezione che segnò un cambio di rotta di vastissime proporzioni per gli Stati Uniti avvenne nel 1980 con la vittoria di Ronald Reagan. Dopo la seconda guerra mondiale, presidenti repubblicani come Eisenhower e Nixon avevano tentato di contenere, ma non di smantellare, il grosso della legislazione sociale introdotta ai tempi del New Deal, come il sistema previdenziale pubblico e le tutele legali per i sindacati. La retorica di Reagan lasciava presagire politiche di destra più aggressive.
Reagan, essendo stato in precedenza un attore, veniva spesso trattato come un outsider della politica, nonostante fosse stato due volte governatore della California. Il suo atteggiamento gioviale, la sua preparazione approssimativa, la sua tendenza a parlare di aneddoti più che di politiche concrete lo facevano apparire a molti giornalisti come un peso piuma, non adatto a una carica come quella di presidente.
Per un lungo periodo, durante la campagna del 1980 contro Jimmy Carter, questo atteggiamento convenzionale resse, nonostante la crisi degli ostaggi in Iran e i problemi dell’economia. Fu solo dopo l’unico dibattito di quell’anno tra i due candidati, una settimana prima del voto, che Reagan passò in testa e riportò una vittoria decisiva.
La spinta in favore dei repubblicani di quell’ultima settimana fu sufficiente a eleggere Reagan e a conquistare 12 seggi in Senato, sostituendo una maggioranza democratica con una repubblicana. Il fatto che questo vecchio attore hollywoodiano di serie B fosse riuscito non solo a vincere, ma anche a conquistare la camera alta segnò un’importante svolta a destra nella politica americana.
La sfida di quest’anno ha evidenziato una divergenza enorme fra i sostenitori di tutti i candidati importanti e ha presentato alla nazione i due candidati più impopolari da quando esistono i sondaggi di opinione. Nel dibattito politico attuale non esiste una questione profonda e sentita com’era il dibattito sulla schiavitù ai tempi di Lincoln, ma ci sono molti temi – l’immigrazione, la tolleranza religiosa (o la mancanza di tolleranza religiosa), le discriminazioni razziali e cose del genere – che segnalano divisioni enormi all’interno dell’opinione pubblica americana.
I repubblicani avranno il controllo della Casa Bianca, del Senato e della Camera dei rappresentanti. E ben presto toccherà a Trump cercare di riempire il posto vacante in una Corte suprema divisa esattamente a metà. Almeno per i prossimi due anni, il nuovo presidente potrebbe avere praticamente mano libera a Washington.
Lo shock della vittoria di Trump non ha fatto che evidenziare la profondità delle divisioni attuali. Lo shock passerà e il 20 gennaio il nuovo presidente entrerà in carica. La sua campagna elettorale è stata inusitatamente avara di particolari su quali siano i suoi programmi, a parte i proclami che qualunque cosa avrebbe fatto sarebbe stata «grande». Ma quando entrerà in carica, le sue proposte dovranno tradursi in leggi o atti amministrativi. E allora vedremo come reagiranno gli esponenti più importanti di Camera e Senato (di entrambi i partiti). A quel punto forse sarà lo stesso presidente Trump ad avere qualche sorpresa.
E tutti noi altri.
( Traduzione di Fabio Galimberti)
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IL CAPITALISMO SECONDO DONALD 

MARIANA MAZZUCATO Rep 20 11 2016
TRUMP ha vinto perché si è presentato, senza alcuna vergogna, come il paladino dei diseredati. Più dei 16 rivali repubblicani che si è lasciato dietro, e più della candidata democratica che ha sconfitto, ha guidato la carica di quelli che sentivano di essere stati lasciati indietro dalla globalizzazione. Ha incanalato e attizzato la rabbia incipiente, ha infiammato le divisioni razziali e sfruttato una percezione di bruciante ingiustizia verso un sistema “truccato” a sfavore della gente comune. È stato il sedicente vincitore che sa come si gestisce il sistema, l’uomo forte che solo può riuscire a rimetterlo in carreggiata. Per Trump, come per i fautori della Brexit, il nemico era l’esterno.
IMESSICANI, i cinesi (il più grande “furto” nella storia umana), i musulmani, perfino gli alleati della Nato. I temi economici e la sicurezza si mescolavano fra loro: è tempo di mettere i vagoni in cerchio, l’America e gli americani vengono per primi. Trump ha vinto perché ha offerto una narrazione plausibile, alle orecchie di molti, dei fallimenti della politica economica americana che ha lasciato indietro così tante persone, fallimenti che risalgono a trent’anni prima del tracollo economico del 2008.
È stato efficace quando ha parlato delle conseguenze di un’economia malata, ma la sua diagnosi non potrebbe essere più sbagliata. Ha vinto gettando la colpa su forze esterne, commerci internazionali e immigrazione. La verità va cercata molto più vicino a casa: sono le azioni delle aziende americane, come la sua, la ragione di fondo dell’incapacità dell’economia di garantire un tenore di vita crescente agli americani comuni. Hanno fatto soldi estraendo valore, non creandolo. E dopo la crisi del 2008 il problema non ha fatto che aggravarsi.
La rivoluzione del valore per l’azionista negli anni Ottanta ha prodotto un modello di governo di impresa che dà la priorità agli utili trimestrali rispetto agli investimenti in capacità produttiva. Le aziende spendono sempre più spesso i loro profitti, attualmente a livelli record, per il riacquisto di azioni proprie, per spingere in alto la quotazione del titolo azionario, le stock options e le retribuzioni dei manager. Tutto questo ha portato a un’economia finanziarizzata, che molte delle politiche di Trump, come l’abbassamento dell’aliquota sui redditi societari, non faranno che aggravare.
Fino agli anni Ottanta i salari tenevano il passo della produttività, ma dopo non più, e i sindacati si sono indeboliti. Quando i salari non sono più riusciti a tenere il passo del costo della vita, per coprire l’ammanco è cresciuto l’indebitamento personale. Questo aumento dell’indebitamento personale ha dato vita a nuove tipologie di strumenti finanziari che succhiano via dal sistema la linfa vitale, portando a un’economia sempre più finanziarizzata. La crescita dell’intermediazione finanziaria in percentuale del Pil sopravanza la crescita del resto dell’economia.
La globalizzazione del capitale (in contrasto con quella del lavoro) implica che quando la crescita stenta il capitale può andarsene altrove. Il comportamento di Trump — creare imprese, lasciarle fallire, evitare di pagare i fornitori, usare la normativa sui fallimenti per eludere le tasse per decenni e poi creare un’altra impresa da qualche altra parte — è il simbolo perfetto di questa forma di capitalismo improntata alla spoliazione delle attività.
Al cuore del problema c’è la violazione del contratto non scritto tra capitale e lavoro (il senso di una condivisione degli obiettivi e dei benefici tra i lavoratori americani e i loro datori di lavoro) e l’incapacità, a essa collegata, di aiutare i lavoratori americani ad adattarsi ai cambiamenti strutturali e tecnologici. Non sono i robot il nemico.
Il ragionamento che doveva essere fatto nel 2008 non è mai arrivato. Non si è fatto abbastanza per riformare il modello di capitalismo che è all’origine, di per sé, dell’ascesa di Trump. Possiamo soltanto sperare che questa elezione finalmente apra gli occhi ai suoi avversari, facendo capire perché c’è bisogno di idee nuove.
Perché non è questa l’unica strada. Per Trump il ruolo dello Stato si limita al protezionismo e al finanziamento di cose fondamentali come le infrastrutture, ma quello di cui c’è bisogno è uno Stato molto più attivo, in grado di affrontare i problemi della società attraverso investimenti in innovazione, per stimolare gli investimenti privati e dare una direzione alla crescita.
Abbiamo bisogno di un deciso cambio di rotta in favore di una crescita trainata dagli investimenti, che sostituisca l’attuale modello trainato dai consumi e alimentato dal credito, che mette ancora più pressione sui più deboli. Combattere la disuguaglianza dovrebbe essere un obiettivo centrale della politica economica, per ragioni economiche che sono rilevanti quanto le ragioni sociali. Le aziende devono tornare a essere in sintonia con la società, dobbiamo instillare in loro un senso del dovere più ampio, che ricompensi la creazione di valore più che l’estrazione di valore. In altri Paesi, come la Germania e i Paesi scandinavi, esiste una forma più partecipativa di stakeholder capitalism, che prevede un ruolo per i lavoratori nei consigli di amministrazione delle imprese.
Il trumpismo probabilmente è un’espressione politica esclusivamente americana, ma le disfunzioni del capitalismo che hanno favorito la sua emersione non sono una prerogativa degli Stati Uniti. Le soluzioni specifiche possono differire, ma le crepe dei modelli di capitalismo europei sono in buona parte le stesse. Ora più che mai l’Europa deve trovare il suo linguaggio e le sue politiche, se vogliamo risolvere la crisi politica, sociale ed economica su questa sponda dell’Atlantico.
Traduzione di Fabio Galimberti
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