giovedì 17 novembre 2016

Matteo, il Giovane Disperato



I 1000 giorni di Renzi

Il “rottamatore” ha scalato l’Italia e scosso il Palazzo ma molti obiettivi, su tutti la ripresa, sono rimasti lontani Domani il traguardo simboloGOFFREDO DE MARCHIS Rep
storytelling, riforme contro promesse. Se è il politico «giovane, bello, carismatico, innovatore» elogiato da Obama sul prato della Casa Bianca il 18 ottobre o se assomiglia al suo aereo, il contestato Air Force Renzi, jumbo vistoso e in grado di attraversare gli oceani senza scalo che però, un anno e mezzo dopo il salatissimo
leasing, non vola, bloccato a terra da misteriosi problemi (a proposito, i veri motivi dello stop sono il ritardo nell’allestimento della camera da letto presidenziale e la pista troppo corta, per un bestione simile, dell’aeroporto di Firenze).
I mille giorni sono una strana unità di misura. Una cifra tonda, certo, che è legata soprattutto al titolo del famoso libro di Arthur Schlensiger Jr sull’esperienza, interrotta tragicamente, di John Fitzgerald Kennedy. L’inizio dell’avventura renziana al governo ha molto in comune con quella presidenza: l’età (JFK diventa presidente a 43 anni, Renzi a 39), la nuova frontiera, mitologico slogan di rottura, e la fiducia, asso nella manica che porta il Pd di Renzi al 41 per cento delle Europee. Cosa è rimasto, dopo questo tempo, di quelle armi vincenti?
Oscar Farinetti, padrone di Eataly, interprete genuino della rottamazione, ha messo in guardia i renziani dal palco della Leopolda, dieci giorni fa: «Dobbiamo tornare a essere simpatici. Dobbiamo chiedere umilmente fiducia perché è il motore che fa girare tutto». Dario Franceschini, politico navigato, oggi alleato del premier domani chissà, offre invece la chiave del successo di Renzi: «Non esiste, in Italia, un altro come lui. Jobs Act: uno di noi si sarebbe fermato davanti al veto dei sindacati, lui no. Matrimoni gay: un altro avrebbe piegato la testa per non scontentare la Chiesa, lui no. E potrei continuare». Come dire: il leader c’è, non rompe solo le regole dell’immagine, ma anche quelle che tengono l’Italia inchiodata ai suoi vizi da 20 anni.
Tutto comincia con l’ingresso a Palazzo Chigi a bordo di una Smart, guidata dal deputato Pd Ernesto Carbone. «La mia scorta è la gente», dice Renzi per significare il cambiamento. È il 22 febbraio 2014, diventa presidente del Consiglio. Ha fatto tutto alla velocità della luce. L’8 dicembre conquista la segreteria del Partito democratico, a gennaio stringe il patto del Nazareno con Berlusconi per riformare la Costituzione e la legge elettorale, a febbraio scrive su Twitter a Letta “Enricostaisereno”, qualche giorno dopo gli soffia il posto e sempre su Twitter, dallo studio di Napolitano dove presenta la lista dei ministri, scherza rivolto ai giornalisti in attesa: «Arrivo, arrivo…». Leader futurista, un baleno che esce dal quadro. Forma un esecutivo composta per metà da donne (ma adesso tre hanno lasciato e sono state sostituite da uomini); vive l’emozione delle prime slide a Palazzo Chigi; promette, spericolato, una riforma al mese mostrando il calendario e 1000 asili nido in mille giorni. Vara il bonus degli 80 euro e sull’onda di una vera luna di miele col Paese a maggio prende il 40,8 per cento alle elezioni europee.
Molte riforme le porta in banchina. Il nuovo mercato del lavoro, senza articolo 18, crea 655 mila posti lavoro (fonte Istat). Fa approvare l’Italicum, combatte e incassa la riforma costituzionale che ora viene sottoposta a referendum. Entro dicembre inaugura la Salerno- Reggio Calabria senza cantieri, ma perde la scommessa con Vespa sui rimborsi dei debi- ti della pubblica amministrazione. Assume Diego Piacentini, vicepresidente di Amazon, per l’agenda digitale. Sulle coppie gay compie un piccolo miracolo. Rompe, ricuce, mette la fiducia, toglie la stepchild adoption e alla fine l’Italia ha i matrimoni gay, ribattezzati unioni civili solo a uso burocratico. Abbassa Ires, Irap, toglie l’Imu, ma non realizza la riforma complessiva del fisco più volte annunciata. Il nuovo assetto della giustizia è fermo in Parlamento, ormai da mesi. L’economia cresce molto poco, però torna un timido segno più. Litiga con l’Unione europea e non solo durante questa campagna referendaria. Chiede la fine dell’austerità e un impegno comune sui migranti. Lotta, protesta, attacca. E intanto l’Italia continua a salvare vite umane nel Mediterraneo. Con orgoglio. Da agosto è chiamato ad affrontare il terremoto di Marche, Lazio e Umbria. Lo fa senza proclami, affidandosi ai sindaci e alla Protezione civile, ma non rinuncia allo slogan di Casa Italia.
Per paradosso, uno dei grandi successi del suo esecutivo viene ottenuto seguendo la linea della prudenza anziché quella dell’arrembaggio. Nell’Europa minacciata dal terrorismo, all’indomani della strage del Bataclan, il premier dosa le parole, non dichiara guerra a nessuno, semmai precisa: «Dobbiamo spendere un euro per la sicurezza e un euro per la cultura». Nel nostro Paese non ci sono attentati. E quando Renzi reclama un ruolo guida per l’Itala in Libia, in realtà sottotraccia fa finta di niente. Per cui invece dei 5000 militari chiesti dagli Usa, ne mandiamo un centinaio a difendere il fragile governo di Tripoli. Una scelta che finora si è rivelata saggia.
Il 5 marzo 2014, quasi mille giorni fa, una scolaresca di Siracusa lo accoglie cantando una canzoncina. S’intitola “Clap and Jump per Renzi”: «Facciamo un salto/battiam le mani/Ti salutiamo tutti insieme/Presidente Renzi… Dei nostri sogni/delle speranze che ti affidiamo con fiducia oggi a ritmo di blues». Apoteosi dell’imbarazzo e della popolarità allo stesso tempo. Oggi il premier ammette, come Farinetti, di non essere simpatico, di avere una fetta del Paese contro. «Meglio arroganti che simpatici senza combinare nulla», dichiarava surfando sull’onda del 41 per cento. Ha smesso di dirlo, forse di pensarlo.
Confessa anche qualche errore: la Buona scuola credeva fosse una pagina radiosa invece ha provocato solo guai e voti perduti. La Rai del suo amico Campo Dall’Orto doveva rappresentare una svolta, al contrario annaspa tra flop e critiche. Deve tenere insieme il potere e la forza della novità, della rottura. Qualcuno fa notare che non rischia più l’osso del collo se sotto ha una rete di protezione bella fitta: Sergio Marchionne, la Confindustria, i grandi banchieri. Succede, quando si governa da oltre due anni e mezzo. «E’ l’unico leader », sentenzia Silvio Berlusconi che di uomini se ne intende. Se sarà in grado di volare, lo sapremo il 4 dicembre.
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Per il premier una sorpresa amara Bonus e Equitalia non portano consensi
Sondaggi immobili in vista del referendum nonostante le molteplici iniziative Svolta contro Bruxelles “nemica” in una battaglia che vuol essere popolare Fabio Martini Busiarda 17 11 2016
L’Europa «cattiva», tra tante rughe, ha mostrato il suo volto buono: ha inaspettatamente promosso le spese eccezionali per terremoto e migranti. Ma il presidente del Consiglio ha continuato a tenere il punto. Come se non fosse accaduto. Perché da due giorni Bruxelles è stata «promossa» a nemico stabile. Quanto durerà nessun lo sa, ma si tratta di una novità nella politica europea dell’Italia e soprattutto è una svolta nella strategia comunicativa di Matteo Renzi.
Impegnato nella battaglia della vita, quella del referendum costituzionale voluto dal governo. Dopo due anni e mezzo di ottimismo a getto quotidiano, il presidente del Consiglio ha deciso di riconvertire almeno una parte del suo messaggio positivo in chiave rivendicativa. Antagonista. Contro un nemico: l’Europa egoista e burocratica. Certo, già lo aveva fatto nel passato, con accenti di verità e con scossoni salutari, vista la progressiva eclissi della dottrina dell’austerità. Ma stavolta il duello con Bruxelles è diverso perchè nelle settimane scorse si è silenziosamente consumato quello a palazzo Chigi qualcuno ha ribattezzato “l’ottobre nero”. Matteo Renzi vive di adrenalina e non usa espressioni così pessimistiche, eppure ha assistito con un crescendo di «sorpresa» ad un fenomeno dai tratti quasi misteriosi, che si è stratificato nelle ultime settimane. Più Renzi spingeva l’acceleratore di provvedimenti gratificanti per milioni di cittadini e più i sondaggi restavano fermi. Le pensioni e le quattordicesime a più di due milioni di pensionati? L’'effetto sui sondaggi non è stato apprezzabile. La riduzione dei balzelli di Equitalia? L’effetto sui sondaggi, se c’è stato, non ha avuto un effetto evidente. La riduzione del canone Rai per milioni di italiani? I bonus? Lo spostamento del dibattito referendario dal plebiscito al merito? Gli effetti, se ci sono stati, non risultano quantificabili. Per non parlare dell’ accoglienza regale tributata a Renzi alla Casa Bianca. Un “ottobre nero” ma anche un novembre che a metà mese non ha aperto spiragli: ieri sera, Renzi è stato aggiornato sui sondaggi più attendibili e per il momento il buon vantaggio del No (tra 4 e 8 punti, secondo gli istituti) resta invariato, anche se ancora “scalabile”.
Dopo due mesi di campagna elettorale è come se l’emittente dei messaggi si fosse opacizzata, è come se l’efficacia della narrazione renziana e del suo artefice avessero perso mordente e credibilità. La causa è una “overdose” da ottimismo esasperato? O una diffusa corrente di «antipatia» verso Renzi, come ipotizzato da un amico come Oscar Farinetti? In attesa di risposte concrete dalle urne del referendum, per provare ad invertire la rotta, due giorni fa Renzi ha maturato la decisione - covata per settimane - di convertire una parte dei messaggi positivi in chiave rivendicativa. Contro un nemico: l’Europa egoista e burocratica. E d’altra parte nella “narrazione” renziana i nemici hanno sempre avuto un ruolo da protagonisti. Renzi ha usato per la prima volta l’espressione «gufi» il 12 marzo 2014, quando era presidente del Consiglio da appena 19 giorni, era saldissimo e nessuno lo insidiava. Ora tocca di nuovo all’Europa incarnare il ruolo di capro espiatorio.
Il “numero” di due giorni fa sul (futuribile) veto al bilancio comunitario dimostra che il presidente del Consiglio ne vuole fare un cavallo di battaglia nel rush finale della campagna referendaria. Come conferma la (non) reazione di Renzi alla decisione di ieri della Commissione europea che ha promosso le spese eccezionali per terremoto e migranti, compreso il via libera per le scuole tante volte evocate dal capo del governo come prova della cattiva volontà degli euroburocrati. Dunque, l’Europa “cattiva” ha mostrato il suo volto buono, ma Renzi non ha “ringraziato”, lasciando a Padoan il compito di compiacersi pubblicamente.
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Berlusconi ha visto Trump in settembre a New York
L’incontro fra i due leader quando l’ex premier era in America per accertamenti medici. Gli interessi del tycoon in Italia  Paolo Mastrolilli Busiarda
Silvio Berlusconi finora non ha confermato, ma fonti ben informate sostengono che ha incontrato Donald Trump quando, alla fine di settembre, è venuto a New York per accertamenti medici. I temi toccati non sono noti, ma è probabile che abbiano svariato dalla politica agli affari.
Dopo la vittoria di Trump, La Stampa aveva scritto che Berlusconi lo aveva incontrato tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre, a margine delle visite fatte al Presbyterian Hospital per verificare le condizioni del suo cuore. All’epoca Donald era impegnato nella fase finale della campagna elettorale, ma aveva tenuto la sua base a New York, dove rientrava praticamente ogni sera alla fine delle giornate dedicate ai comizi. Sul piano logistico, quindi, non era impossibile organizzare un appuntamento. I sondaggi, poi, non sembravano molto favorevoli, ed è lecito supporre che il candidato repubblicano tenesse a mente anche le sue prospettive imprenditoriali future, se non fosse riuscito a conquistare la Casa Bianca. Da questo punto di vista, un contatto con Berlusconi poteva tornare utile sotto diversi aspetti. Allora, infatti, circolavano voci insistenti che Trump, insieme al genero Jared Kushner, stava considerando la possibilità di lanciare una propria televisione, costruendola sull’esperienza fatta quando conduceva i reality show e sulla popolarità politica guadagnata durante la campagna presidenziale. I suoi figli Donald junior ed Eric, poi, non nascondevano l’interesse a espandere le attività immobiliari e alberghiere della famiglia all’Italia, ad esempio sulla costiera amalfitana o in Sardegna, dove da bambini erano venuti spesso in vacanza. Poi ovviamente c’era la volontà politica di conoscersi, nella prospettiva invece di un successo nelle presidenziali, che avrebbe trasformato Silvio in una sponda utile in Europa. Del resto era stato lo stesso Donald a dire che aveva stima dell’ex premier italiano, prima di questa occasione di vederlo.
Dopo la vittoria del candidato repubblicano, parlando con il «Corriere della Sera», Berlusconi aveva detto che «alcune analogie sono evidenti, anche se la mia storia di imprenditore è molto diversa da quella di Trump, che non ho mai avuto occasione di conoscere». Non era però la risposta a una domanda diretta sull’eventuale incontro avvenuto a New York durante la visita di ottobre, e quindi si poteva interpretare come un riferimento alle frequentazioni non avvenute durante l’attività imprenditoriale e politica, oppure il desiderio di mantenere la riservatezza.
Ora fonti ben informate a cavallo tra l’Italia e gli Stati Uniti confermano invece che il colloquio sarebbe avvenuto, proprio in quei giorni. Secondo alcuni, anche più di una conversazione.
I temi discussi non sono noti, ma è possibile supporre che abbiano toccato tanto la politica, quanto gli affari. Dopo la vittoria di Trump, però, il primo aspetto prende il sopravvento, anche per il rinnovato impegno in questi giorni di Berlusconi sulla scena nazionale.
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“Da Renzi eccesso di polemiche Sbagliato mettere in discussione la nostra appartenenza all’Europa”
“Con il veto siamo in posizione di forza, ma i pugni sul tavolo servono a poco. Il premier ha ragione sulla scarsa solidarietà”ANDREA BONANNI Rep
A ROMA E BRUXELLES
Romano Prodi è stato presidente del Consiglio in Italia e ha guidato la Commissione europea
Presidente Prodi, la Commissione mette riserve sul bilancio italiano.
E L’Italia mette riserve sul bilancio Ue. Che ne pensa?
«Mi sembra evidente che ci sia una contrattazione in corso. Con la minaccia di veto, l’Italia si colloca in una posizione di forza in attesa di una valutazione definitiva di Bruxelles sul bilancio italiano ».
Romano Prodi è in partenza per la Cina. Da anni, ormai, i cinesi gli chiedono di spiegare l’Europa. Forse, ogni tanto, qualche spiegazione in più farebbe bene anche agli europei.
Non crede che la polemica di Matteo Renzi strizzi l’occhio anche all’opinione pubblica italiana?
«Certo, la posizione del governo ha una valenza esterna e una valenza interna. Forse si pensa che criticare l’Europa faccia piacere agli elettori. Può anche essere giusto. Ma, se si sposano queste critiche con la scomparsa della bandiera europea nelle apparizioni pubbliche di Renzi, la polemica rischia di prendere un significato equivoco. Diventa una questione di appartenenza. E mettere in dubbio la nostra appartenenza all’Europa è sbagliato. Detto questo, credo che la posizione del governo italiano sia in questo momento più tattica che strategica ».
Fino a che punto si possono sommare posizioni tattiche di critica all’Europa senza che finiscano per diventare una posizione strategica?
«Temo che un eccesso di polemica ci possa precludere alleanze che sono indispensabili per raggiungere i nostri obiettivi di fondo. La somma dei brontolii, alla fine ti mette nel banco dei brontoloni. D’altra parte, trovo che Renzi abbia ragione quando lamenta una mancanza di solidarietà europea che francamente mi ha sorpreso».
In che senso?
«Su insistenza della Germania, abbiamo chiuso la porta ai flussi di rifugiati provenienti dalla Siria. Ma la porta ai flussi in arrivo dalla Libia resta sempre aperta. Mi chiedo anche perché le navi della solidarietà europea che raccolgono i naufraghi nel Mediterraneo finiscano sempre per portarli tutti in Italia. Strana solidarietà».
Allora è giusto battersi, come dice di fare Renzi, per un’Europa diversa?
«Chiedere un’Europa diversa da quella attuale è sacrosanto. Ma per perseguire questo obiettivo occorrono alleanze e programmi. I pugni sul tavolo sono solo uno strumento tattico, non strategico ».
Ma Renzi fa bene a picchiarli?
«Diciamo che trovo il modo un po’ inusuale. Non vorrei che, come succede tra i bambini, l’eccesso di mugugni finisca per emarginarci e per alienarci da chi ritiene l’Europa il proprio punto di riferimento. Se ci facciamo assimilare al gruppo di coloro che considerano Bruxelles solo come una controparte negoziale facciamo un errore strategico ».
Lei che è uno dei padri del Partito Democratico, sul fronte della politica interna dove mette la linea rossa nella polemica con l’Europa?
«La linea rossa la metto sulla bandiera. Cioè sulla questione di appartenenza, di identità. Per i democratici l’Europa è l’unica prospettiva del nostro futuro e la sola possibilità di salvare il Paese. Mettere in discussione queste certezze suscita riflessioni ».
Ma dicono che criticare l’Europa porti consensi...
«Cercare consensi nella palude anti-europea è un errore. Se deve scegliere un modello anti-europeo, la gente vota per l’originale, non per la brutta copia».
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La campagna doppia di Berlusconi per il No e per il premier “È l’unico leader”
Confalonieri: “Le stesse qualità di Silvio”. Così l’ex premier rilancia un feeling nato nel 2005SEBASTIANO MESSINA Rep
Come un anziano monarca senza figli a cui lasciare il regno, Silvio Berlusconi – che di figli ne ha cinque, più nove nipoti: ma un partito non si può mettere nel testamento – confessa malinconicamente a Rtl 102,5 di non aver ancora trovato il suo erede politico. Poi rivela che aveva «puntato molto su qualcuno che è passato dall’altra parte» (Angelino Alfano) e il giorno dopo aver staccato la spina al quasi-delfino Stefano Parisi si toglie il cappello, a sorpresa, davanti al presidente del Consiglio e segretario del Pd: «Nella politica di leader vero c’è solo Matteo Renzi».
Ma come, proprio Renzi, l’alleato di ferro del “patto del Nazareno” che non volle accettare il suo veto su Mattarella, e da allora è diventato il suo principale avversario? Ebbene sì, l’unico bravo è lui, ammette l’ex Cavaliere, che addirittura lo difende sulla contestata lettera per il Sì agli italiani all’estero («Aveva tutto il diritto di spedirla»), spiazzando persino i suoi fedelissimi a 18 giorni dal voto sul referendum. Anche se il leader di Forza Italia non ha affatto cambiato idea su quella legge che prima approvò e poi rinnegò, e dunque conferma il suo No a una riforma costituzionale che secondo lui «è pericolosa per la democrazia e apre a derive autoritarie».
Che Berlusconi la pensi davvero così lo conferma però anche l’uomo che lo conosce meglio di chiunque altro, Fedele Confalonieri, che da Genova spiega: «Renzi è un ragazzo di 40 anni che ha le qualità di Berlusconi, per tanti aspetti. Non ha quelle dell’imprenditore, ma un pezzetto di storia simile a Berlusconi l’ha fatta…». E del resto, tutti ricordano quello che diceva il leader di Forza Italia prima della rottura sull’elezione di Sergio Mattarella al Quirinale, sulla quale il premier non accettò il veto di Arcore: «Non lo considero un avversario fino in fondo. Renzi lo avrei preso nel mio partito, potrebbe stare in Forza Italia, perché tra l’altro non è comunista».
Già, non è comunista, non viene dal Pci-Pds-Ds, e questo intrigò l’ex Cavaliere sin dal primo incontro, undici anni fa, quel 30 marzo 2005 che portò l’allora premier del centrodestra a Firenze, per la fondazione di uno dei tanti movimenti satelliti destinati a durare lo spazio d’un mattino. Toccava a “Italia di Nuovo”, frutto dell’entusiasmo soccorritore dell’ex commissario della Croce Rossa Maurizio Scelli. Quando gli riferirono che il Palasport, prenotato per il battesimo, era quasi deserto, Berlusconi si accampò a palazzo Medici Riccardi, sede della prefettura ma anche della Provincia. Così il trentenne Renzi, che presiedeva l’ente, salì le scale e lo andò a trovare, “per cortesia istituzionale”. Quello che si dissero non si sa, però è nota la frase con cui Berlusconi congedò il suo ospite: «Ma come fa uno bravo come lei a stare con i comunisti? ».
Quello fu l’inizio. Poi cinque anni dopo ci fu l’incontro di Arcore, dove Renzi – nel frattempo eletto sindaco di Firenze - andò a pranzo dal premier, suscitando un’ondata di proteste nel Pd. E fu quella l’occasione in cui si disse che Berlusconi aveva offerto al giovane toscano nientemeno che il suo partito («Tu sei come me, possiamo essere soci»). Per difendersi dalle accuse e dai sospetti, Renzi dovette spiegare che lui aveva giurato di fare bene il sindaco e dunque per Firenze sarebbe andato anche tutti i giorni ad Arcore, e dovette pure smentire quell’offerta: «Non mi ha detto che gli somiglio».
La terza puntata è stata il “patto del Nazareno”, e quella volta – era il 18 gennaio 2014 - fu Berlusconi a salire le scale e a mettere piede per la prima volta nella sede del Pd, dove forse cercò ancora l’odore dei comunisti e però strinse con il successore di Bersani un accordo sulle riforme che sembrava di ferro, e resistette anche agli scontri più aspri quando le riforme arrivarono nelle aule parlamentari. Ma quell’intesa tra avversari non piacque a molti, nel Pd, e Massimo D’Alema teorizzò l’esistenza di due avversari gemelli: «Berlusconi si è talmente innamorato di Renzi che lo ha scelto come suo erede. A questo punto l’alternativa è finita. E tra Matteo e Berlusconi non so di chi fidarmi».
L’intesa è sopravvissuta alla nascita del governo Renzi («Siamo all’opposizione, ma abbiamo un nostro ministro» disse Berlusconi ai suoi), ma non all’elezione del successore di Napolitano: quando il premier ignorò il «no» dell’ex Cavaliere sul nome di Mattarella, il patto fu rotto. Così da quel giorno Forza Italia votò contro la riforma costituzionale e contro l’Italicum, le stesse leggi a cui aveva detto sì. E contro le quali oggi fa la campagna per il «No» al referendum: un po’ spiazzata, oggi, dal suo presidente che riconosce in Renzi «il solo vero leader» che ci sia sulla piazza.
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