martedì 22 novembre 2016

O la borsa o la vita, o votate Sì o facciamo salire lo spread e quant'altro

Corriere della Sera

La grande finanza catastrofista: «Se vince il No Italia fuori dall’euro» 
Financial Times e Wall Street Journal. Il quotidiano inglese: «Sconfitta del Sì è vittoria del populismo, sulla scia della Brexit e di Trump». Il giornale Usa ipotizza un crollo degli indici europei nel caso di un governo dei Cinquestelle. E a mercati chiusi si aggiunge anche Goldman Sachs
Antonio Sciotto Manifesto 22.11.2016, 23:59 
A meno di due settimane dal referendum costituzionale a infiammarsi sono gli ambienti della grande finanza: non ancora le borse, ma scendono in campo due «bibbie» del capitalismo al di qua e al di là dell’Atlantico, il Financial Times e il Wall Street Journal. Entrambi i quotidiani, con toni diversi, auspicano la vittoria del Sì e disegnano scenari negativi in caso che a prevalere fosse il No. Allarme ripetuto a mercati ormai chiusi anche dalla banca d’affari Usa Goldman Sachs. 
Nelle pagine interne del giornale inglese, il condirettore Wolfgang Munchau vaticina addirittura la possibilità che l’Italia lasci l’euro se dovesse vincere il No. Questo perché, spiega, il nostro Paese si metterebbe sulla stessa scia dei populismi che hanno già vinto in Gran Bretagna e negli Usa con la Brexit e l’elezione di Donald Trump a presidente. 
Scenario che diventerebbe ancor più catastrofico nel 2017, in caso che Marie Le Pen riuscisse a conquistare l’Eliseo: «la signora Le Pen – scrive Munchau – ha promesso un referendum sul futuro della Francia nella Ue. Se questo dovesse portare alla “Frexit” (analogo della Brexit, ndr), l’Unione europea sarebbe finita il giorno dopo e così l’euro». 
Ma prima delle presidenziali francesi c’è appunto il 4 dicembre italiano, e il Financial Times vede nell’appuntamento italiano il problema più urgente: la previsione più concreta per Munchau «resta non un collasso della Ue o dell’euro ma un’uscita di uno o più Paesi, verosimilmente l’Italia, ma non la Francia». Il nostro Paese è infatti quello che ha subito più danni dalla moneta unica: «Da quando l’Italia nel 1999 è entrata nell’euro la sua produttività totale è stata di circa il 5%, mentre Germania e Francia hanno superato il 10%», spiega Munchau, e inoltre i tre principali partiti di opposizione al governo Renzi, e cioè Cinquestelle, Forza Italia e Lega, sono tutti a favore, seppur in modo diverso, dell’uscita dall’euro. 
Il Wall Street Journal illustra i suoi scenari post referendum addirittura in prima pagina: dopo la Brexit e la vittoria di Trump, se alle consultazioni italiane prevalesse il No si avrebbe un immediato indebolimento dell’euro e un crollo dei titoli bancari italiani. Successivamente, in caso di caduta del governo Renzi, per assicurare la stabilità e non spaventare i mercati sarebbe auspicabile «un governo tecnico». Ben diverso sarebbe lo scenario, secondo il quotidiano Usa, se invece a Palazzo Chigi arrivassero il Cinquestelle. 
«Sono un partito antiestablishment – spiega il Wsj riferendosi all’M5S – Puntano a rinegoziare il debito italiano e a indire un referendum sull’euro, destabilizzando tutto il sud Europa». Nel caso che arrivassero al governo, secondo il Wsj – che cita a sostegno uno studio di Deutsche Bank – potrebbero «far crollare del 20% i principali indici europei». 
Incertezze ribadite da Goldman Sachs, secondo la quale il referendum italiano costituisce «un rischio materiale per le previsioni di crescita». Nel suo outlook sull’Europa, la banca d’affari statunitense afferma che «una vittoria del No ostacolerebbe gli sforzi per ricapitalizzare le banche italiane più deboli, un processo che è già stato con ogni probabilità posticipato al 2017». In Italia la crescita comunque «è rimasta costante nonostante l’aumentata incertezza con l’approssimarsi del referendum di dicembre», con la previsione che prosegua «a un tasso di circa lo 0,8% annuo» sia nel 2017 sia nel 2018. 
Da parte del governo si cerca di smorzare l’allarme lanciato dai quotidiani finanziari, probabilmente anche per non subire l’«abbraccio fatale» da quegli ambienti dell’establishment che nelle ultime elezioni (dalla Brexit a Trump appunto) non hanno portato fortuna agli «endorsati»: per il ministro della Cultura Dario Franceschini, gli scenari ipotizzati dal Financial Times sono «una cosa totalmente esagerata e non fondata». Arturo Scotto (Si) parla di «terrorismo per il Sì» e chiede una posizione netta da parte del governo. Per il Comitato del No «si indicano possibili affari per gli speculatori».



Confindustria in campo “Addio investimenti se fermiamo la riforma” 
Per il presidente Boccia “l’incertezza è un macigno”. “Jobs act utile ma la precarietà è ancora troppo estesa”

MASSIMO GIANNINI Rep 21 11 2016
FERMARE “l’Internazionale populista”. Nella Trumposfera in cui siamo inopinatamente piombati, l’imperativo categorico risuona forte e chiaro. Dopo l’America, la minaccia “aliena” incomberà sull’Italia, dove l’ordalia referendaria su Renzi apre la prospettiva che prevalga “l’accozzaglia del no”.
LA FORMULA del premier suona irrispettosa della verità e della società. Ma in fondo non dispiace al degasperiano “Quarto Partito”, quello degli imprenditori, che rilancia una discesa in campo molto discussa: «Nei giorni scorsi - ragiona il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia - ho visto il leader degli industriali tedeschi che mi ha chiesto: “Come possiamo fermare i populismi in Europa?”. Il tema è cruciale. Per questo siamo ancora più determinati nel sostegno alla riforma costituzionale».
Se Banca d’Italia constata, Confindustria milita: «E’ normale: siamo un corpo intermedio che vuole contribuire a cambiare il Paese, in termini di maggiore competitività per le imprese. Solo il 30% degli italiani sa che l’Italia è il secondo paese industriale d’Europa dopo la Germania. E potremmo essere i primi. Ma per questo serve stabilità. Le imprese devono poter contare su un assetto istituzionale e normativo semplice e certo, nel medio periodo, altrimenti la macchina degli investimenti non riparte. Poi è decisivo rivedere il Titolo V e ristabilire un equilibrio virtuoso tra centro e territori. Queste posizioni fanno parte della tradizione riformista di Confindustria: il 23 giugno il nostro Consiglio Generale le ha approvate all’unanimità». Resta un fatto: il “voto” dei mercati, come quello delle élite finanziarie, è diventato un’arma impropria. Boccia nega: «La vittoria del No sarebbe un segnale che l’Italia non vuole cambiare, perchè tutto rimarrebbe com’è: non possiamo permettercelo».
La “svolta politica” di Confindustria produce maldipancia. C’è una “fronda” interna pronta a uscire allo scoperto dopo il 4 dicembre: «Questa è una leggenda, siamo molto più compatti di quello che raccontano. Confindustria è e resta rigorosamente a-politica e a-governativa. Detto questo, non è facile far capire a tutti perché vogliamo passare dalla difesa degli interessi a una dimensione più generale della rappresentanza. Ma è un passaggio necessario... ». Il sospetto di una forma impropria di collateralismo con il governo c’è. Nel luglio scorso Confindustria ha previsto il peggio: se non passa la riforma il Pil cala dell’1,7% e gli investimenti del 12,1%.
Un’Apocalisse. Fondata su evidenze scientifiche, o tarata su esigenze politiche? «Era un momento diverso. Il referendum era previsto in ottobre, proprio all’inizio della sessione di bilancio, e il premier minacciava di dimettersi in caso di sconfitta del Sì. Questo avrebbe voluto dire incertezza sulla legge di bilancio e sulla flessibilità Ue. In altre parole, grande instabilità, con forte impatto sullo spread...». In ogni caso il sostegno al referendum è stato “ripagato” da una legge di bilancio molto generosa con le imprese. Boccia ammette: «Il governo ha messo in campo una serie di “stimoli” importanti. Il piano Industria 4.0 è positivo non perché aiuta Confindustria, ma perché aiuta il Paese a fare un salto verso la modernizzazione. Lo stesso ragionamento vale per la detassazione del salario di produttività. Se il governo avvia una politica industriale che ci porta “dai settori ai fattori” non fa un favore a noi, ma all’Italia».
Anche il Jobs Act non sfugge alla chiave di lettura dello “scambio”. Senza la decontribuzione se la
(costata 20 miliardi) i 650 mila nuovi posti di lavoro non ci sarebbero mai stati. «Ma anche il Jobs Act non è “un favore alle imprese”. Il bilancio è positivo anche per i lavoratori. Certo, ha funzionato il combinato disposto con la decontribuzione. Ora gli obiettivi per andare avanti sono due. Il primo è rendere davvero convenienti le assunzioni a tempo indeterminato, con un serio abbattimento del cuneo fiscale. Il secondo è combattere davvero la precarietà: se vivi da lavoratore “somministrato” non hai futuro, non puoi costruirti una famiglia».
Il “fantasma dell’instabilità”, agitato da Confindustria, sembra un alibi che giustifica il crollo degli investimenti (meno 25% dal 2007): «Per noi un recupero di “passione imprenditoriale” è necessario - ammette Boccia - dobbiamo agire secondo il pessimismo delle previsioni e l’ottimismo delle aspettative. Ma il clima di incertezza che regna nel Paese è un macigno sulle scelte degli imprenditori. Simon Peres diceva che “l’attesa della guerra è peggio della guerra”... ».
La sensazione è che la guerra sia iniziata da un pezzo. E noi, con una produzione industriale collassata del 25%, la stiamo perdendo. «Abbiamo un 20% di medie imprese che vanno molto bene, scambiano salari con produttività, hanno alta innovazione di processo e di prodotto, alta intensita di capitale e alta proiezione sui mercati esteri. Poi abbiamo un 20% di imprese che non ce la fanno, operano in settori maturi o ad alto valore aggiunto, ma non hanno innovato e non reggono la competizione globale. E poi c’è un 60% di imprese che stanno in mezzo al guado». Ora la sfida è «come si fa a traghettare quel 60% in mezzo al guado verso il 20% che sta sull’altra sponda, e non verso l’altro 20% che sta affondando». Per Confindustria Renzi «ci sta provando ». Per un’altra metà del Paese, pronta a scrivere No sulla scheda, non ci sta riuscendo. Chiunque vinca, dopo il 4 dicembre sarà un miracolo rimette insieme queste due metà.
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Referendum, il freddo aiutino di Napolitano
L'ex presidente della Repubblica, lord protettore della riforma, va in tv: «Toni aberranti, ma non buttiamo il lavoro. Il mio Sì è nel merito, non ai motivi del premier. Lo giudicheremo nel 2018». E Renzi intanto cerca gli elettori di M5S e Berlusconi via chat: «Vi sono antipatico? Vi capisco. Ma il treno non ripassa»
Andrea Fabozzi Manifesto 22.11.2016, 23:59

«Se volete una classe politica aggrappata alla poltrona prendetevela», litigava con i suoi follower il presidente del Consiglio, mentre il presidente emerito della Repubblica si recava negli studi Rai per registrare la puntata di ieri sera di Porta a Porta. «L’obiettivo della riforma costituzionale non è tagliare le poltrone, questa sul referendum è diventata una sfida largamente aberrante», ha detto Giorgio Napolitano a Bruno Vespa. Ma anche lui naturalmente voterà Sì al referendum, un annuncio televisivo assai scontato.
«Voterò Sì in coerenza con tutte le posizioni che ho preso», ha detto giustamente l’ex presidente. È stato infatti lui, dal Quirinale, il principale sostenitore della riforma costituzionale (e Renzi gliel’ha intestata più volte: «Porta il nome di Napolitano»). Lo è stato in verità anche della nuova legge elettorale, quella che da alcuni mesi chiede di modificare in ragione di un «nuovo contesto politico», in realtà non diverso da quello che c’era quando l’Italicum fu approvato con la fiducia.


La riforma costituzionale invece convince ancora pienamente Napolitano. Quello che lo differenzia da Renzi – verso il quale si percepisce una freddezza crescente – sono le motivazioni. «L’obiettivo non è tagliare il numero dei parlamentari, ma avere un senato che rappresenti i territori e sia più snello». E per chiarezza: «Il senato composta da sindaci e consiglieri regionali è utile alla democrazia».
Se due antichi compagni che sono ancora oggi interlocutori frequenti di Napolitano, Emanuele Macaluso e Alfredo Reichlin, hanno deciso di non sostenere la riforma, l’ex presidente malgrado tutte le amarezze per la campagna elettorale «aberrante» non torna indietro e non farà mancare il suo Sì.
Eppure Napolitano non ha accolto l’invito di Renzi a presiedere il comitato del Sì. E in passato ha chiarito che «la riforma non porta il nome mio né di nessun altro, è stata fatta dal parlamento». Però si è speso troppo, almeno dal 2013 a oggi, per fermarsi all’ultimo miglio.


Napolitano è stato il lord protettore della riforma, intervenendo a ogni passaggio stretto per dare ragione al governo e torto ai «frenatori». Un’espressione che lui stesso non si preoccupò di evitare, così come non evitò «zavorra» o «paralisi», nel momento in cui sentiva di dover proteggere Renzi dalla minoranza Pd. I toni «aberranti» di oggi, in effetti, non sono proprio di oggi.
Renzi parlava di «palude» da prosciugare e di «poltrone» da tagliare già due anni fa, con Napolitano al Quirinale, e al suo fianco. Anche l’annuncio al quale si fa risalire la «personalizzazione» del referendum – «se non passa la riforma lascio la politica» – il presidente del Consiglio lo ha fatto la prima volta nel 2014. E il primo attacco alla «casta» Renzi lo ha fatto in parlamento nel discorso della fiducia, poco dopo che Napolitano gli aveva dato l’incarico.
Adesso l’ex presidente della Repubblica – che nel nuovo senato continuerà a sedere conservando com’è giusto (ma solo lui, con i senatori a vita) anche l’indennità – non fa nulla per nascondere il suo fastidio verso i toni renziani. «L’obiettivo della riforma non è tagliare le poltrone – insiste con Vespa – non condivido quelle motivazioni. Ma al referendum non giudichiamo Renzi. L’occasione l’avremo alle prossime elezioni fissate per il 2018».
Per quanto gelido, è proprio il tipo di appoggio che in questo momento è più utile a Renzi, che teme un voto di protesta anti governo. E così, anche se il suo stile è assai diverso, il presidente del Consiglio rispondendo ai cittadini che gli scrivono durante la diretta facebook dice in fondo la stessa cosa. «Vi sono antipatico? Vi capisco. Ma al referendum votate pensando ai vostri figli, perché questa occasione è un treno che non ripassa». Napolitano è fuori dalla chat, ma è dentro la stessa narrazione: «Dopo tre anni di lavoro che facciamo? Buttiamo tutto al vento?», chiede retoricamente a Vespa.


Per questo voterà Sì, anche se «la riforma non è che faccia miracoli, ma passi in avanti». E invita a votare sì rivolgendosi agli elettori di centrodestra, proprio come fa Renzi in questi giorni: «Nel contenuto molti punti di questa riforma sono simili a quelle precedenti, compreso quella di Berlusconi».
Il presidente emerito pizzica anche le corde della paura: «I rischi di crisi finanziaria ci sono sempre e in questa fase possono anche accrescersi per conseguenza di eventi internazionali che conosciamo. Non vorremmo vedere lo spread che cresce». Cresceva già nel 2011, quando Napolitano inventò il governo tecnico. Cinque anni dopo Monti e passato, resta lo spread. E il referendum.






Nell’Unione il brivido del referendum “C’è un rischio-Italia per l’Eurozona” 
Analisti e mercati temono quattro scenari post-voto perché comportano instabilità 

Marco Bresolin  Busiarda 22 11 2016
Che risveglio ci aspetta il prossimo 5 dicembre? Se lo chiede l’Europa. Quella delle istituzioni, della finanza e delle cancellerie, che da settimane si interroga sugli scenari post referendum italiano. Dalle urne possono uscire solo due risultati, ma gli scenari possibili almeno quattro. E basta farsi un giro tra analisti, politologi e osservatori per capire che ogni ipotesi nasconde insidie e suscita preoccupazioni. Come dire: comunque vada, non sarà un successo.
Si va dai timori di poco superiori a quelli per la situazione attuale (l’Italia continua ad essere un osservato speciale) a scenari più catastrofistici, come quello dipinto ieri sul Financial Times da un articolo di Wolfgang Münchau, che in Italia ha dato un elemento in più di dibattito ai due fronti contrapposti. Per l’opinionista, una vittoria del No darebbe inizio a una «crisi della zona euro» e nel nostro Paese potrebbe verificarsi «una sequenza di eventi che metterebbe in dubbio l’appartenenza italiana alla zona euro».
Il ragionamento è un po’ più complesso della facile sintesi «Se vince il No, l’Italia esce dall’euro», ma il tenore dell’articolo mette in mostra una certa preoccupazione che aleggia negli ambienti finanziari. Anche il Wall Street Journal ieri ha dato conto del fatto che sono bastati gli ultimi sondaggi (con il No in vantaggio) per «innervosire gli investitori». Goldman Sachs, nel suo Outlook sull’Europa, afferma che per l’Italia c’è «un rischio materiale per le previsioni di crescita» e che la vittoria del No «ostacolerebbe gli sforzi per ricapitalizzare le banche italiane più deboli». 
Primo scenario
Se dovesse vincere il No, negli occhi degli osservatori ci sono almeno tre ipotesi teoriche sul campo. Renzi si dimette e viene formato un nuovo governo, Renzi rimane nonostante la sconfitta (o ritorna con nuovo incarico), oppure si scivola nel voto anticipato. Un governo-traghettatore verso il voto del 2018? «Sarà molto importante capire se questo governo continuerà sulla strada delle riforme iniziate da Renzi – spiega Guntram Wolff, direttore del think tank di Bruxelles Bruegel -. La crescita italiana deve essere sostenuta e c’è ancora molto lavoro da fare».
Secondo scenario
E se invece Renzi dovesse rimanere in sella nonostante la sconfitta? Anche in questo caso non mancano le preoccupazioni. Nei palazzi dell’Ue sono convinti che «comunque Renzi è garanzia di stabilità». Lo dice, dietro anonimato, una fonte della Commissione, dove però nessuno vuole esprimere giudizi «ufficiali» per evitare accuse di «intromissione». «Ma per Bruxelles sarebbe un brutto colpo – ragiona Pablo Rodriguez, corrispondente dalle istituzioni europee del quotidiano spagnolo El Mundo -. Prima di tutto perché sarebbe il quarto referendum in un anno in cui la gente vota anche contro l’Europa. Poi ci sono le incognite sul possibile cambio di atteggiamento di Renzi. Con una sconfitta reindirizzerebbe la sua politica in una chiave meno europeista, per parlare all’elettorato di Lega e Cinque Stelle».
Terzo scenario
E se dopo la vittoria del No si andasse presto al voto? In pochi ci credono, perché i «rischi» dovuti alle «minacce» di un’avanzata populista sono troppo forti. «La vittoria delle opposizioni – prevede Mario Telò, docente all’Università Libre di Bruxelles e alla Luiss di Roma – verrebbe condizionata da posizioni estremiste e anti-euro, con effetti disastrosi per la credibilità politica ed economica italiana. Uno scenario “weimariano” da 1932-‘33».
Quarto scenario
E se vincesse il sì? Non tutti si aspettano rose e fiori, anzi. Per Karel Lannoo, Ceo del Centro per gli Studi Politici Europei di Bruxelles, «non bisogna farsi illusioni. Perché Renzi avrà davanti a sé una sfilza di problemi da risolvere. Penso al settore bancario, oppure ai conti pubblici, con i livelli alti di deficit e debito». Interessante il punto di vista di Tobias Piller, storico corrispondente in Italia della tedesca Frankfurter Allgemeine Zeitung. «Vincendo il referendum – spiega – Renzi pretenderà di prendere la guida dell’Europa. Ma l’atteggiamento del premier, che vuole una revisione dei trattati e spinge per non inserirci il Fiscal Compact, rischia di avere effetti opposti in Germania. Da noi alimenterebbe il populismo, visto che un partito come l’Afd è nato proprio sull’onda delle critiche a Italia e Grecia».
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Per chi votala paura

ALBERTO D’ARGENIO Rep
ROMA. «La paura - recita il Dizionario di psicologia - è un’emozione primaria di difesa, nasce da un pericolo reale o presunto. Può essere prodotta da un ricordo o dalla fantasia». Ma la paura dei mercati e lo spettro dello spread in vista del referendum del 4 dicembre saranno percepiti dagli italiani come un pericolo reale o come un rischio immaginario? E soprattutto, favoriranno il Sì o il no? Per gli addetti ai lavori lo spauracchio di mercati e titoli di Stato non ha più la presa di una volta, non viene percepito - a torto o a ragione - come una minaccia concreta. Tanto più dopo che la vittoria di Trump non ha provocato il crollo di Wall Street e la Brexit non ha spinto nel baratro il Regno Unito.
La sequenza degli allarmi degli ultimi giorni però è stata impressionante. Si può partire dallo spread, il differenziale Btp-Bund che calcola il rischio Paese: da fine estate è salito di una sessantina di punti (ieri si è assestato a quota 178). E poi, le grande banche internazionali hanno lanciato l’allarme instabilità nel caso di bocciatura della riforma Boschi. Monito condiviso da Bankitalia - organo super partes - che ha parlato di forte aumento della volatilità sui mercati in coincidenza con il voto. Si è spinta oltre Confindustria - associazione questa che prende posizioni politiche - per la quale il No porterebbe a una vera tempesta sull’Italia. Il rischio instabilità è stato alla base anche degli endorsement delle Cancellerie straniere a Renzi e al Sì: da Angela Merkel a Barack Obama fino all’Unione europea, tutti tifano per la vittoria del premier e della sua riforma.
Ieri la carica è arrivata anche dai grandi media internazionali, da due delle testate guida della comunità finanziaria globale. Per il
Financial Times
- la firma è quella pesante di Wolfgang Munchau - la vittoria del No spingerebbe l’Italia fuori dall’euro. Il
Wall Street Journal dal canto suo si “limita” a parlare di investitori che «si preparano al tumulto » in vista del 4 dicembre.
Nel governo intanto sono cauti, la materia scotta. Da un lato Renzi ha parlato di «ovvietà». Lo spread, rileva, «aumenta se c’è incertezza: non è una minaccia, ma una constatazione». «E’ un fatto normale», l’ha definito invece il ministro Padoan. «Ma non è questione di allarmi delle élite o di complotti», ha aggiunto riferendosi al normale nervosismo dettato dall’incertezza.
Eppure sembra che la banale constatazione di Renzi e Padoan soccomba di fronte a quella parola che lo stesso ministro ha ritenuto di dover citare semplicemente per neutralizzarla: complotto. Già, perché gli italiani sembrano invece orientati a pensarla così, che la paura sia la carta ingannevole giocata dall’establishment e dai poteri forti per tirare la volata al governo e favorire il Sì.
Il ricordo più recente di grande paura collettiva è proprio quello dello spread alle stelle (570 punti base) che nel 2011 ha portato alle dimissioni di Berlusconi e all’arrivo di Monti. Allora l’operazione fu sostenuta dall’opinione pubblica terrorizzata dal rischio default. Ma in 5 anni molto è cambiato. Prima la retorica di Forza Italia (copiryght Brunetta) che ha trasformato il rischio fallimento sovrano in un complotto per abbattere l’ex Cavaliere. Poi il Movimento 5 Stelle che con una mano di vernice ha cancellato le differenze tra fatti e complotti, tra rischi reali e giochi dei poteri forti.
E così si arriva all’analisi dei sondaggisti, per i quali la paura dello spread quanto meno non sposta di un millimetro il risultato delle urne. «Gli elettori in questo periodo votano contro il governo, a prescindere da chi lo guidi, perché sono alla ricerca di un generico cambiamento», spiega Nicola Piepoli. Concorda Nando Pagnoncelli, per il quale «le opinioni non si spostano» semplicemente perché gli italiani agli allarmi «non ci credono». Il politologo Alessandro Campi, direttore della Rivista di politica, va oltre e profetizza: «Nella migliore delle ipotesi questi allarmi sono neutri, non spostano voti. Nella peggiore sono controproducenti. Di fronte a un elettorato sfiduciato e prevenuto le fonti che lanciano gli allarmi sono identificate con l’establishment e quindi automaticamente squalificate». Oltretutto i toni sempre più radicali dei populisti sterilizzano, rendono le tesi tutte uguali e anestetizzano le paure. La spiega in modo efficace lo stesso Renato Brunetta, tra i politici più attivi sul fronte del No: «Se parlano J.P. Morgan, Goldman Sachs, Financial Times e magari Marchionne, la gente si incazza e vota contro». Più cauto il politologo Roberto D’Alimonte, che l’ irritazione degli italiani per gli allarmi la vede, ma valuta che alla fine «indispettiti e intimoriti si bilanceranno».
Che l’argomento paura di questi tempi sia scivoloso lo sanno anche nel Partito democratico, tanto che il responsabile per l’Economia Filippo Taddei ci va cauto: «E’ evidente che ci sono conseguenze per l’economia dal voto referendario, ma gli italiani non votano per la paura del No bensì per le buone ragioni del Sì». Il ministro Franceschini bolla la previsione di Financial Times come «infondata». La parola definitiva in favore del complotto viene però da Stefano Parisi. Per l’uomo che si propone di riunire i moderati quella di Financial Times «è una stupidaggine che dicono i giornalisti perché il no dell’Italia è democratico e libero». Chiude il cerchio il senatore azzurro Lucio Malan per il quale «la strategia del terrore messa in campo dai sostenitori del Sì fa dire a Ft che se vince il No l’Italia esce dall’Unione ». E come mandante delle Cassandre identifica proprio Renzi. Ecco servito il complotto.
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“Sì nonostante Renzi” Da Santoro a Lerner il partito del meno peggio 
Non amano il premier, ma ora temono l’effetto Trump “Così corriamo il rischio di vedere i dilettanti al potere”

TOMMASO CIRIACO Rep
ROMA. C’è chi dice Sì, nonostante Matteo Renzi. È il partito della riforma “turandosi il naso”, di quelli che il premier non va bene ma gli effetti del No sono pure peggio. «Vedo la bocciatura del referendum – ha dichiarato Gad Lerner – come una tappa di avvicinamento a un governo cinquestelle che non auguro all’Italia. I dilettanti al potere, come dice Grillo, mi preoccupano». La molla non è solo lo spettro di un governo della Casaleggio associati, o comunque non per tutti. C’è l’effetto Trump, la sopravvivenza del bicameralismo perfetto, il terrore dello spread, l’horror vacui delle riforme, la chimera della stabilità. Tutte buone ragioni, in ogni caso, che inducono Michele Santoro e Gianni Cuperlo, Vittorio Feltri, Stefania Sandrelli e parecchi altri a stampare una mega X sul Sì.
Che clamore quando Santoro si è iscritto al club dei “nonostante”. Mai tenero con il premier, il giornalista ha sorpreso tutti schierandosi con il restyling della Costituzione: «La riforma poteva essere più condivisa? Certo. Scritta meglio? Certo. Ma se vince il No i diritti di noi cittadini si rafforzeranno? La democrazia sarà più forte? Vi prego, non rispondete con un’altra domanda. O col solito vaffanculo ». Ecco un altro cruccio di questo piccolo esercito: perché giocare con la tenuta del governo, quando si balla sull’orlo del precipizio?
Nessuno (o quasi) di questi sostenitori del Sì può considerarsi fan del premier. Lo era in origine Briatore, ma rivendicando sempre un dna orgogliosamente berlusconiano. Oggi la sua diserzione dal fronte del No la spiega così: «Io non ho paura del diavolo. Non temo i comunisti perché non credo mangino i bambini. E Renzi non mi sembra il prototipo del comunista ». Neanche Stefania Sandrelli promuove a pieni voti il premier, ma aiuta comunque il comitato pro riforma: «Cerchiamo di fidarci del meno peggio. Il referendum è una occasione che non dobbiamo perdere».
Di destra o di sinistra cambia poco, sempre di Sì sofferti si tratta. Soffertissimo quello di Cuperlo, che ha strappato allo scadere l’impegno di modificare l’Italicum e non si è accodato al resto della minoranza dem. A scanso di equivoci, però, continua a duellare con il leader: «Lavorerò per un’alternativa politica e culturale al renzismo». E che dire di Arturo Parisi? L’ideatore dell’Ulivo sceglierà la riforma “nonostante” il premier. Esattamente come il governatore della Toscana Enrico Rossi, pronto in ogni caso a sfidare il segretario al congresso: «Voterò Sì, malgrado Renzi. Il contenuto è avere una Camera che fa la maggior parte delle leggi e un Senato rappresentante dei territori». Sempre sul fianco progressista si espone Giuliano Pisapia, bocciando il No da lidi certamente non renziani: «La democrazia non è in pericolo. Quello di avere governi stabili è un bisogno reale».
Merito e timori, vale tutto da queste parti. Feltri bacia la riforma dopo decenni di berlusconismo e un presente con sfumature verdiniane. «Avrei preferito la totale abolizione del Senato - precisa - però è sempre meglio averne uno ridotto piuttosto che un bicameralismo perfetto». Da Venezia, poi, un altro amico del Cavaliere come il sindaco Luigi Brugnaro sceglie il Sì. La ragione? La palude del riformismo: «Dirò sì, anche se sono d’accordo con Salvini e Brunetta sul fatto che la riforma ha aspetti che non vanno. Bisogna fare. E se vince il No ci vorranno almeno altri sei anni per un’altra riforma».
Alla fine sempre al destino della sinistra si torna. Ai suoi tormenti e alle sue contraddizioni: «Se davvero Bersani pensa che Renzi stia alterando il dna del Pd - ragiona il regista Paolo Virzì - allora perché dice che può restare al suo posto anche se perde? Dichiari che il No serve a cacciarlo. Non so se sottoscriverei, ma lo capirei». Anche il “nonostante” a volte vacilla.
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IL RISCHIO DI UN VOTO DETTATO DAL RANCORE
ALBERTO MELLONI Rep 22 11 2016
 IL REFERENDUM costituzionale cade in un momento storico nel quale una catena di episodi ci ricorda che è sparita la cultura politica del lungo e pacifico dopoguerra europeo. Quella cultura in cui i corpi elettorali, davanti al rischio di veder crollare equilibri sistemici costati sangue resistente, avevano imparato a prendersi la responsabilità di scegliere o il bene o il male minore: il voto aveva dunque una sua sacralità, esplorabile da sondaggi che non misuravano l’umore dei consumatori di politica, ma il posizionarsi di pezzi di società.
Oggi vediamo tutti che non è più così. In tutto l’Occidente l’elettore delega il proprio voto alle emozioni. L’irreparabile, come in un gioco di realtà virtuale, viene esplorato. Nel confessionale di Twitter ci si pente della fornicazione elettorale del giorno prima, incuranti delle conseguenze. Il rancore puro per ceti dirigenti mediocri sposta voti e delegittima gli esiti. La disintermediazione politica con cui i capi volevano parlare con “la gente”, espone i leader a feedback a cui non sanno far fronte e trasforma i decisionisti in indecisionisti.
Su scala nazionale a questo si aggiunge il fatto che unire (unire la società, figurarsi i partiti...) è percepito come un disvalore. L’utopia di un bipolarismo italiano nata alla fine del secolo XX era stata quella di raccogliere da un lato le sinistre socialiste e cattoliche e dall’altro i liberali conservatori e cattolici, portatori nelle appartenenze comuni di un comune senso dello Stato: non ne resta nulla. Sciolti i poli, restano iceberg e collisioni opache.
Se non si colloca il referendum in questo contesto non si capiscono le ragioni e il pericolo d’una campagna elettorale disastrosa: dove mezza Italia colta e dotta dipinge una piccola riforma, cucinata nel tegamino d’una maggioranza parlamentare esile, come l’anticamera dell’autoritarismo da cui ci dovrebbe difendere un no che entusiasma l’estrema destra; e l’altra mezz’Italia la descrive come il lasciapassare per un futuro apocatastico, al quale la sinistra ha contribuito con #moltihashtag e #pocheidee.
Renzi non è il solo ad aver voluto una campagna così: se ne è accollato la responsabilità, s’è battuto (poco) il petto e ha ricominciato. Anche perché il referendum lo porta in una posizione che nel breve periodo è win-win: un successo del sì gli consentirà di intestarsi una vittoria regalatagli dallo zelo altrui; una vittoria del no aprirà un regolamento di conti dentro il Pd che il leader gestirà dalla comoda posizione della vittima su cui si perpetra un atto che ricorda il “Prodicidio” del 1998.
Sulla media gittata, però, i due esiti hanno implicazioni diverse. La prevalenza del Sì apre un periodo delicatissimo, ancorato alla stabilità del governo che potrebbe permettere di gestire, in Italia e in Europa, errori vecchi e nuovi. La vittoria del No scoperchia invece il vaso di Pandora della instabilità italiana, con riverberi drammatici sulle elezioni in Francia e Germania, e la incrementata irrilevanza dell’Europa rispetto a un mondo ridisegnato dalla troika Putin-Trump-Xi.
E con una conseguenza per l’Italia non sufficientemente considerata: relativa all’articolo 138, che in un certo senso è il vero oggetto del referendum del 4 dicembre. Se il 138 dimostrerà ancora questa volta — in presenza di una riformina che rimedia i danni del titolo V (Lorenzin e Alfano ne hanno fatto vedere in corpore vili le conseguenze sul sistema sanitario nazionale e sono impressionanti) e impone al Senato una metamorfosi auspicata da La Pira dal 1948 — se dimostrerà, dicevo, di non funzionare le destre palesi e occulte avranno guadagnato l’insperato. In un futuro più o meno lontano i grillini — che sono un partito di destra, con contenuti di destra e un destino di destra — insieme a tutte le destre, da quelle qualunquiste a quelle nazionaliste, saranno libere di invocare in tempi favorevoli una costituente con tanto di piani di rinascita nazionale e sponde impensate interne ed esterne.
Questo argumentum potrebbe trasformare una piccola quota di No indispettiti in Sì non necessariamente entusiastici del wording della riforma: una quota capace di fare la differenza. Che Renzi possa usare male quei Sì, sarebbe un male: ma un male minore.
Per spiegarlo al Paese bisognerebbe che entrambi gli ultimi due statisti europei residenti in questo paese — Giorgio Napolitano e Romano Prodi — se ne dessero pena, perdonando a Renzi molte cose. Napolitano l’ha fatto: ha sopportato la sordità intermittente del governo ai suoi richiami, la indecente gazzarra ai suoi danni in Senato, e l’ipercinetismo di chi cerca di intestarsi un passaggio riformatore di cui è il solo titolare politico. Prodi, che ha subìto pianificati tradimenti e insolenze insopportabili col silenzio a sonagli che tutti conoscono, non si è pronunciato e non è detto che lo farà.
Intanto la campagna continua e disgrega un Paese fragile, i sondaggisti leggono l’oroscopo e le irrazionalità fanno la punta alle matite del 4 dicembre.
L’autore è uno storico e firmatario dell’appello di studiosi per “ Un pacato sì”
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“Qui la sinistra è finta” Tra la rabbia operaia che spinge Monfalcone in mano alla Lega 
Manodopera straniera, posti perduti e redditi abbassati: così la roccaforte rossa cede dopo 25 anni

GIAMPAOLO VISETTI Rep 21 11 2016
MONFALCONE. «Siamo stanchi, abbandonati. Il cambiamento c’è, ma in peggio. La rottamazione c’è stata, ma i nuovi sono peggiori dei vecchi. Il Pd ora mangia con i padroni, non ha tempo per parlare con i lavoratori. E noi siamo poveri». E’ ancora buio, tira la bora, tre gradi sopra zero. La massa degli operai Fincantieri preme ai cancelli nel quartiere storico di Panzano. I «bisiachi», a costruire le grandi navi, sono rimasti in pochi. Erano cinquemila, non arrivano a settecento. La mano d’opera, di appalto in subappalto, arriva da lontano: Bangladesh, India, Europa dell’Est, meridione d’Italia. Il cantiere resta la «mamma»: prima dell’alba migliaia di auto, di corriere e di tir fanno tremare le casette inizio Novecento. Chi arriva in bicicletta viene fermato dai caporali che offrono contratti più lunghi e anticipi sulla paga. Anche uno straniero, da 600 euro, può superare i mille al mese. Alle finestre sono appesi manifesti: «Panzano libero», «Basta Tir», «Stop Bangla». Lo tsunami che in Friuli Venezia Giulia scuote il centrosinistra di Debora Serracchiani e Matteo Renzi, nasce qui. Monfalcone era la roccaforte rossa del Nordest: punte del 75%, sinistra al potere da un quarto di secolo. Mai un sindaco di destra. Domenica 6 novembre, poche ore prima che Donald Trump si prendesse la Casa Bianca, Anna Maria Cisint ha più discretamente consegnato anche la “Danzica d’Italia” alla destra e alla Lega. Silvia Altran, ex sindaca Pd, al ballottaggio è crollata al 37,5%. Per il Pd locale della vicesegretaria nazionale Serracchiani e del presidente dei deputati Ettore Rosato, pure renziano, un 2016 da incubo. In luglio hanno perso Trieste, Pordenone e il resto dell’Isontino. Ora lo spettro del tracollo e della destra si allunga sul referendum del 4 dicembre e sulle regionali 2018. «Di questa finta sinistra – dice Carlo Visintin, da trent’anni operaio Fincantieri – non ci fidiamo più. A Roma vara il Jobs Act e consegna i lavoratori al precariato e ai boss dei voucher. A Trieste ignora gli anziani e taglia la sanità. A Monfalcone accetta una centrale a carbone e ubbidisce a Fincantieri, rinunciando a difendere le vittime dell’amianto ». A Pierluigi Bersani la frana politica nel Nordest non è sfuggita. «Una sberla storica – ha detto – non ci dormo la notte». Agli operai e ai vecchi di Panzano gli equilibri dentro il Pd e gli scenari aperti dalle urne non interessano. Qui conta solo la vita e la realtà è che farcela è ogni giorno più difficile, quasi sempre più umiliante. «Umanamente – dice Tiziana Colautti, 47 anni, impiegata – siamo al limite. Monfalcone viene venduta agli stranieri, i nostri figli per sopravvivere devono andare via, ognuno è solo. Il nostro problema è mettere un piatto sulla tavola: il centrosinistra litiga sulle tasse per Airbnb, per non irritare i ricchi che affittano i patrimoni immobiliari. A questo punto meglio provare chi promette di difenderci». La parola d’ordine è negare l’impatto della xenofobia, ma la paura di un’invasione straniera è pari all’indignazione contro la sudditanza delle istituzioni pubbliche rispetto alle imprese formalmente private, da Fincantieri alla centrale elettrica di «A2A». In piazza della Repubblica le radici della rivolta sono sotto il sole. Prima del cambio turno in cantiere, gruppi di immigrati si contendono gli ingaggi di un subappalto, 3 euro all’ora e sacco a pelo in dieci in una stanza. Sulle panchine gli anziani piangono gli amici uccisi dal mesotelioma e i nipoti ancora intossicati dal carbone. «L’ex sindaca Pd – dice l’operaio Biagio Boscarol – ha transato con Fincantieri per 140 mila euro, un insulto ai caduti sul lavoro di tutta Italia. Lo Stato è il primo azionista, come l’ente pubblico che governa la centrale a carbone. Così nel cantiere è proprio lo Stato a sfruttare gli immigrati che rubano il lavoro ai residenti. Se il centrosinistra ignora la povera gente e liquida la solidarietà, la sua esistenza è inutile». Per Matteo Salvini, alla vigilia del ballottaggio, in centro è accorsa la folla del selfie. Assenti i leader Pd e 5 Stelle. «Non ci siamo accorti – dice Marco Rossi, segretario provinciale del Partito democratico – che le divisioni interne producono disorientamento e fanno marcire i problemi. Il riformismo dell’Ulivo accendeva la speranza, la sua brutta copia liberista e centralista moltiplica l’indifferenza ». Sotto accusa però sono proprio i vertici del partito, rei di affannarsi solo quando, come con la riforma elettorale, ci sono in palio le poltrone. Per il resto, ciechi. Umberto Pacor, tecnico di 25 anni, mantiene la figlia neonata con i turni di notte, lavorando in straordinario domenica e festività. «Ci riempiono di gente che non c’entra – dice - e regalano le imprese a oligarchi, emiri e mandarini dell’Oriente. Non ascoltano i giovani, facendoci passare per sfaticati. Forse anche noi abbiamo bisogno di qualcuno con il coraggio di dire, se non “prima gli italiani”, almeno prima le persone». In via Marconi è di nuovo notte. I lavoratori con il casco in testa corrono a timbrare. Dopo una vita a sinistra, a Monfalcone per disperazione hanno votato la destra. In Friuli Venezia Giulia e nel Nordest per l’Italia si annuncia il prossimo terremoto: difficile che fra due settimane cambino idea e votino Sì al referendum.
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L’ELOGIO DELLA MEDIAZIONE 

ILVO DIAMANTI Rep 21 11 2016
NON è da oggi che, non solo in Italia, si accentuano le spinte verso un presidenzialismo di fatto. Verso una democrazia immediata, più-che-diretta, che rimpiazza ogni mediazione rappresentativa con i media. Ne ho scritto altre volte in passato. E non solo io. Ma oggi, in Italia, questa tendenza si è accelerata.
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FRA meno di due settimane si voterà a un referendum, per decidere — anzitutto ma non solo — di ridimensionare i poteri del Senato. E, dunque, il bicameralismo paritario. Per rendere i processi decisionali più rapidi. Più diretti. Più immediati. Il referendum stesso è un metodo di democrazia immediata. Che affida la scelta e la decisione al “popolo sovrano”. Ma la posta in palio di questo referendum va ben oltre la riforma costituzionale, peraltro, importante. Chiama in causa, in modo diretto, anzi, immediato, il premier, Matteo Renzi. Il quale, per primo, ha attribuito al referendum una finalità “politica” e “personale”. Annunciando che, nel caso non fosse stato approvato dal voto popolare, si sarebbe dimesso. Così, per citare Gianfranco Pasquino, il referendum si è trasformato in un plebiscito. In un’investitura o, al contrario, una dis-investitura. Diretta. Anzi im-mediata. Questa “piega” è divenuta esplicita nelle ultime settimane. Perché, al di là di tutto e di tutti, il confronto pone, ormai, di fronte il Capo e il Popolo sovrano. Al quale Renzi si è rivolto. Saltando ogni mediazione. Così sarà difficile, in caso di approvazione, mettere in discussione i suoi poteri. La sua legittimità. Riconosciuta dal Popolo sovrano. Direttamente. Così, nei prossimi giorni, il premier si rivolgerà direttamente ai cittadini. Inviando ad ogni famiglia un opuscolo che spiegherà le ragioni del Sì. Al tempo stesso, Renzi ha denunciato «l’accozzaglia di tutti contro una sola persona». Lui. Solo. Di fronte ai nemici che operano contro di lui e contro la riforma.
Al tempo stesso, Renzi ribadisce che, se il referendum non venisse approvato, il governo seguirebbe il destino del premier. Cioè, le dimissioni. Ripeto e metto in fila cose note. A tutti. Perché espresse e comunicate pubblicamente. Tuttavia, non mi interessa tanto entrare nei contenuti del dibattito sul referendum. Ma, piuttosto, ragionare sulle dinamiche del rapporto fra società e politica che emergono in questa fase. In particolare, sulla rapida riduzione delle distanze fra autorità e cittadini. Insieme alla personalizzazione della politica e delle istituzioni. Oggi, infatti, ma non solo da oggi, il governo e i partiti sono personalizzati, in modo sempre più estremo. In Italia in particolare, il Pd, partito di maggioranza e di governo, appare iper-personalizzato. Direi quasi personale, com’era Forza Italia. Anche se Renzi ha “conquistato” democraticamente la guida del partito, attraverso le primarie. Tuttavia, anch’egli ha centralizzato decisioni e poteri. Si è circondato da una cerchia di persone fedeli e amiche. Ha, di fatto, rimpiazzato i congressi con la convention “personale” alla Leopolda. La stazione di Firenze vicino a casa. Sua. Per questo ho ri-definito il Pd: PdR. Partito di Renzi. D’altronde, Renzi interpreta in modo esemplare il tempo della “democrazia im-mediata”. Oppure, per citare Nadia Urbinati, “in diretta”. Certo, come Berlusconi, sa comunicare efficacemente attraverso i media tradizionali. Per prima la televisione. Ma, più e meglio di altri, utilizza i social media. Twitter e Facebook. I canali della “comunicazione im-mediata”. Che bypassano ogni “mediazione”. E mettono in relazione diretta, anzi, im-mediata, il Capo con il suo popolo. Non è un caso e non è per caso che il principale soggetto politico di opposizione sia il M5S. Fondato e guidato da Beppe Grillo, ispirato da Gianroberto Casaleggio. Il M5S ha utilizzato la rete come una nuova Agorà. Dove i cittadini possono deliberare direttamente sulle questioni di maggiore interesse pubblico. Come nell’Atene di Pericle. Il M5S: un soggetto e un progetto di democrazia diretta. Meglio: im-mediata. Senza mediazioni. Anzi: contro ogni mediazione e ogni mediatore. E, dunque, contro i “media” e i giornalisti. Visto che al tempo del digitale ogni cittadino può e dovrebbe discutere e decidere sulle questioni di interesse comune. Nell’Agorà digitale.
I canali e gli attori tradizionali della mediazione, d’altronde, si sono rarefatti. I partiti per primi, sempre più personalizzati e abbandonati dagli iscritti. Intorno a noi vediamo leader senza partiti e partiti senza società e senza territorio. Così i leader si rivolgono direttamente ai cittadini. Senza mediazioni. D’altronde, le mediazioni sono sempre più difficili da proporre e da imporre. Perché i cittadini appaiono, a loro volta, più soli. Visto che non solo i partiti, ma anche le associazioni tradizionali si stanno indebolendo. Il sindacato, le organizzazioni di rappresentanza degli interessi: hanno perduto la loro base sociale. E, insieme, la fiducia dei cittadini. Ormai, meno del 20% delle persone, in Italia, esprime fiducia nei sindacati. Mentre, fra le istituzioni, mantengono un buon grado di credibilità solo le Forze dell’ordine, il presidente della Repubblica. E Papa Francesco. Sintomi e segni della diffusa domanda di sicurezza. E di “fede”. In qualcuno. In qualcosa.
Per questa ragione, in questi tempi di democrazia im-mediata, attraversati e interpretati da uomini soli al comando, chiamati a decidere subito e senza mediazioni, in rete o attraverso i referendum popolari, mi sento un po’ a disagio. D’altronde, Evgenij Morozov ha insegnato a diffidare della visione ottimista di internet, (non sempre) canale di promozione democratica. E ha mostrato il “lato oscuro della rete”.
Così a volte provo un po’ di nostalgia. Dei (buoni) partiti. Capaci di rappresentare la società. Capaci di indicare percorsi futuri, perché hanno un passato, una storia. E ammetto la mia preferenza per la democrazia rappresentativa. Per la “buona” mediazione, realizzata da “buoni” mediatori.
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la finanza non complotta contro di noi 
Mario Deaglio  Busiarda 22 11 2016
Dimenticate l’«effetto Trump»: la finanza internazionale sembra aver concesso una tregua al prossimo Presidente degli Stati Uniti e, per il momento almeno, apprezza il dollaro forte. Dimenticate anche l’«effetto Brexit», in quanto la sterlina ha avuto l’attesa caduta del 10-15 per cento, e non ci si attendono altri sconvolgimenti nei prossimi mesi.
È l’Italia che, negli ultimi giorni, è tornata a far paura ai mercati finanziari internazionali. La Borsa italiana è tra le ultime della classe, in primo luogo perché non si riescono a risolvere le difficoltà di bilancio di alcune banche (una «fetta» comunque limitata del mondo italiano del credito) e soprattutto perché il referendum del 4 dicembre è considerato all’estero un rischio alla stabilità politica e a una politica economica credibile. 
Per conseguenza, il temutissimo «spread» è tornato a salire, avvicinandosi ai 190 punti, un valore che speravamo di avere archiviato per sempre. E 
Wolfgang Muenchau, un battagliero e spesso catastrofista vicedirettore del «Financial Times», ha scritto che una vittoria dei «No» aprirebbe la strada a una rapida disintegrazione dell’Ue a seguito dell’uscita dell’Italia dall’euro e in presenza di risultati elettorali in Francia e Germania che premiassero le destre nazionaliste e anti-europee.
Perché i mercati finanziari se la prendono proprio con l’Italia? Non è il caso di scomodare l’idea di un «complotto» della finanza internazionale contro di noi, non ce n’è bisogno: l’Italia ha un debito pubblico sufficientemente grande da causare una tempesta mondiale in caso di importanti perdite di valore, o di anomalie nella sua gestione. Questo debito continua, sia pure lentamente, a salire, mentre la produttività dell’economia italiana rimane quasi ferma. 
Ce n’è abbastanza per mitigare gli entusiasmi dei grandi investitori. Ci penalizza anche il confronto con la Spagna, un Paese rimasto per dieci mesi senza governo - nonostante due elezioni politiche in un anno - nel quale le spinte autonomiste e secessioniste sono molto più forti che in Italia. Eppure lo «spread» spagnolo è nettamente più basso di quello italiano e la produzione spagnola è ripartita alla grande. Questa differenza si spiega perché la Spagna ha finalmente un governo, sia pure di minoranza, mentre l’Italia potrebbe essere sul punto di non averne più uno se al referendum ci fosse una vittoria del «No». In Spagna l’economia ha ripreso a muoversi, in Italia la ripresa pare spesso sul punto di fermarsi.
Nei dossier degli uffici studi delle grandi organizzazioni finanziarie alla voce «Italia» sono sicuramente archiviate con meticolosa cura le dichiarazioni, spesso incaute, di vari esponenti politici che in passato si sono espressi a favore dell’uscita dell’Italia dall’euro e persino del non pagamento dei debiti. Non aspettiamoci, quindi, che le nostre emissioni di titoli pubblici (la media è di quasi un miliardo di euro al giorno, solo per rimborsare i titoli in scadenza) trovino acquirenti entusiasti: come minimo, richiedono un interesse maggiore.
Si ha sovente l’impressione che, nell’attuale dibattito tra i fautori del «Sì» e del «No» alla consultazione del 4 dicembre, i meriti dell’una e dell’altra posizione vengano trattati in maniera distaccata, come se si trattasse di un’esercitazione accademica e ci dimenticassimo degli «effetti collaterali» che questa decisione comporta, tra cui, appunto, le conseguenze finanziarie. Gli elettori devono rendersi conto che, anche se il catastrofista Muenchau ha sperabilmente torto, il «Sì» e il «No» non sono «neutrali» per quanto riguarda la continuazione (e la sperabile accelerazione) della ripresa e l’atteggiamento che l’Europa avrà verso di noi. Nel decidere se andare a votare, e su come votare una volta entrati nel seggio, questi elementi debbono essere necessariamente tenuti in conto. 
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La frontiera del Nord-Ovest 

Luigi La Spina  Busiarda 22 11 2016
È soprattutto sul fronte del Nord Ovest che si sta concentrando la battaglia del referendum. Gli stati maggiori delle truppe del «Sì» e del «No», infatti, hanno individuato nella regione ai confini occidentali dell’Italia quella dove il verdetto è più incerto e, quindi, forse più determinante per la sorte della riforma costituzionale. 
Ecco perchè, nell’ultimo infuocato scorcio della campagna di propaganda, stiamo assistendo a una inusuale corsa verso questo territorio dei principali protagonisti dello scontro referendario.
Al di là delle discutibili profezie dei sondaggisti, la capitale dell’area subalpina, Torino, è diventata , in effetti, il termometro più attendibile e rivelatore della febbre di mutamento che sta sconvolgendo la geografia politico-sociale della nazione. Il segnale più clamoroso è partito dall’esito imprevisto delle recenti votazioni per il sindaco, quando Chiara Appendino, il volto sorridente del grillismo, ha battuto l’ultimo blasonato erede della storica tradizione di sinistra della città, Piero Fassino. Cadeva, così, sotto l’assalto della voglia del cambiamento, anche quella roccaforte che, per oltre vent’anni, aveva resistito alle lusinghe del berlusconismo imperante e alle ubriacature delle ampolle padane di Bossi, fino al punto di essere battezzata con il suggestivo e un po’ beffardo soprannome di «villaggio di Asterix».
L’eco del sorprendente verdetto elettorale di giugno a Torino, ben più significativo della scontata vittoria di Raggi a Roma, colpì l’opinione pubblica e la classe dirigente nazionale con la forza della rivelazione di una verità ormai palese ma imbarazzante, come annunciò il grido del «re è nudo» nella favola di Andersen: la scomparsa, nel luogo più simbolico, la città di Gramsci e di Togliatti, di quegli antichi legami ideologici e politici che avevano caratterizzato la storia d’Italia per quasi un secolo. Una specie di «liberi tutti» che non solo apriva le porte della contendibilità elettorale in tutti i territori del Paese, ma dimostrava una tale mobilità del voto dei cittadini da confermare come fosse grave il declino dei partiti, della loro forza di persuasione politica e di controllo clientelare.
Se anche una storica egemonia, una lunga permanenza di potere che si era consolidata in un sistema pervasivo di classe dirigente ristretta ma efficiente, se anche un largamente condiviso giudizio di buona amministrazione si erano dovuti arrendere al nuovismo impersonato da una giovane donna, del tutto sconosciuta alla gran parte degli elettori, voleva dire che erano crollati persino i muri più solidi dell’architettura politica nazionale. 
Un cambiamento sotterraneo e inarrestabile che aveva sconvolto tradizioni familiari e interessi di classe che parevano inscalfibili, proclamato, non a caso, proprio da una Torino nuova, trasformata nel suo volto urbanistico tradizionale e nell’immagine che ne avevano gli italiani. Con un legame significativo tra quel mutamento della struttura economico-sociale della città e l’annuncio di una inedita fase pure della vita politica della nazione. Paradossalmente, si potrebbe ammettere la conferma, pur nella più grave sconfitta, di una antica concezione filosofica marxiana.
Il Nord Ovest, così, a partire dalla sua capitale, è improvvisamente diventato terreno di caccia libero da qualsiasi riserva, ma anche osservatorio più interessante per capire, e forse indirizzare, le dinamiche politiche dei prossimi anni, in quella stagione che promette, o minaccia, grandi sconvolgimenti della nostra democrazia, almeno in quelle forme e in quelle regole che finora abbiamo conosciuto. Ma non si capisce se l’arrivo in frotte dei politici nostrani nell’Occidente d’Italia sia segno di consapevolezza della profondità di tale cambiamento o il disperato tentativo di tamponarne gli effetti. 
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