Nell’Unione il brivido del referendum “C’è un rischio-Italia per l’Eurozona”
Analisti e mercati temono quattro scenari post-voto perché comportano instabilità
Marco Bresolin Busiarda 22 11 2016
Che risveglio ci aspetta il prossimo 5 dicembre? Se lo chiede l’Europa. Quella delle istituzioni, della finanza e delle cancellerie, che da settimane si interroga sugli scenari post referendum italiano. Dalle urne possono uscire solo due risultati, ma gli scenari possibili almeno quattro. E basta farsi un giro tra analisti, politologi e osservatori per capire che ogni ipotesi nasconde insidie e suscita preoccupazioni. Come dire: comunque vada, non sarà un successo.
Si va dai timori di poco superiori a quelli per la situazione attuale (l’Italia continua ad essere un osservato speciale) a scenari più catastrofistici, come quello dipinto ieri sul Financial Times da un articolo di Wolfgang Münchau, che in Italia ha dato un elemento in più di dibattito ai due fronti contrapposti. Per l’opinionista, una vittoria del No darebbe inizio a una «crisi della zona euro» e nel nostro Paese potrebbe verificarsi «una sequenza di eventi che metterebbe in dubbio l’appartenenza italiana alla zona euro».
Il ragionamento è un po’ più complesso della facile sintesi «Se vince il No, l’Italia esce dall’euro», ma il tenore dell’articolo mette in mostra una certa preoccupazione che aleggia negli ambienti finanziari. Anche il Wall Street Journal ieri ha dato conto del fatto che sono bastati gli ultimi sondaggi (con il No in vantaggio) per «innervosire gli investitori». Goldman Sachs, nel suo Outlook sull’Europa, afferma che per l’Italia c’è «un rischio materiale per le previsioni di crescita» e che la vittoria del No «ostacolerebbe gli sforzi per ricapitalizzare le banche italiane più deboli».
Primo scenario
Se dovesse vincere il No, negli occhi degli osservatori ci sono almeno tre ipotesi teoriche sul campo. Renzi si dimette e viene formato un nuovo governo, Renzi rimane nonostante la sconfitta (o ritorna con nuovo incarico), oppure si scivola nel voto anticipato. Un governo-traghettatore verso il voto del 2018? «Sarà molto importante capire se questo governo continuerà sulla strada delle riforme iniziate da Renzi – spiega Guntram Wolff, direttore del think tank di Bruxelles Bruegel -. La crescita italiana deve essere sostenuta e c’è ancora molto lavoro da fare».
Secondo scenario
E se invece Renzi dovesse rimanere in sella nonostante la sconfitta? Anche in questo caso non mancano le preoccupazioni. Nei palazzi dell’Ue sono convinti che «comunque Renzi è garanzia di stabilità». Lo dice, dietro anonimato, una fonte della Commissione, dove però nessuno vuole esprimere giudizi «ufficiali» per evitare accuse di «intromissione». «Ma per Bruxelles sarebbe un brutto colpo – ragiona Pablo Rodriguez, corrispondente dalle istituzioni europee del quotidiano spagnolo El Mundo -. Prima di tutto perché sarebbe il quarto referendum in un anno in cui la gente vota anche contro l’Europa. Poi ci sono le incognite sul possibile cambio di atteggiamento di Renzi. Con una sconfitta reindirizzerebbe la sua politica in una chiave meno europeista, per parlare all’elettorato di Lega e Cinque Stelle».
Terzo scenario
E se dopo la vittoria del No si andasse presto al voto? In pochi ci credono, perché i «rischi» dovuti alle «minacce» di un’avanzata populista sono troppo forti. «La vittoria delle opposizioni – prevede Mario Telò, docente all’Università Libre di Bruxelles e alla Luiss di Roma – verrebbe condizionata da posizioni estremiste e anti-euro, con effetti disastrosi per la credibilità politica ed economica italiana. Uno scenario “weimariano” da 1932-‘33».
Quarto scenario
E se vincesse il sì? Non tutti si aspettano rose e fiori, anzi. Per Karel Lannoo, Ceo del Centro per gli Studi Politici Europei di Bruxelles, «non bisogna farsi illusioni. Perché Renzi avrà davanti a sé una sfilza di problemi da risolvere. Penso al settore bancario, oppure ai conti pubblici, con i livelli alti di deficit e debito». Interessante il punto di vista di Tobias Piller, storico corrispondente in Italia della tedesca Frankfurter Allgemeine Zeitung. «Vincendo il referendum – spiega – Renzi pretenderà di prendere la guida dell’Europa. Ma l’atteggiamento del premier, che vuole una revisione dei trattati e spinge per non inserirci il Fiscal Compact, rischia di avere effetti opposti in Germania. Da noi alimenterebbe il populismo, visto che un partito come l’Afd è nato proprio sull’onda delle critiche a Italia e Grecia».
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Per chi votala paura
ALBERTO D’ARGENIO Rep
ROMA. «La paura - recita il Dizionario di psicologia - è un’emozione primaria di difesa, nasce da un pericolo reale o presunto. Può essere prodotta da un ricordo o dalla fantasia». Ma la paura dei mercati e lo spettro dello spread in vista del referendum del 4 dicembre saranno percepiti dagli italiani come un pericolo reale o come un rischio immaginario? E soprattutto, favoriranno il Sì o il no? Per gli addetti ai lavori lo spauracchio di mercati e titoli di Stato non ha più la presa di una volta, non viene percepito - a torto o a ragione - come una minaccia concreta. Tanto più dopo che la vittoria di Trump non ha provocato il crollo di Wall Street e la Brexit non ha spinto nel baratro il Regno Unito.
La sequenza degli allarmi degli ultimi giorni però è stata impressionante. Si può partire dallo spread, il differenziale Btp-Bund che calcola il rischio Paese: da fine estate è salito di una sessantina di punti (ieri si è assestato a quota 178). E poi, le grande banche internazionali hanno lanciato l’allarme instabilità nel caso di bocciatura della riforma Boschi. Monito condiviso da Bankitalia - organo super partes - che ha parlato di forte aumento della volatilità sui mercati in coincidenza con il voto. Si è spinta oltre Confindustria - associazione questa che prende posizioni politiche - per la quale il No porterebbe a una vera tempesta sull’Italia. Il rischio instabilità è stato alla base anche degli endorsement delle Cancellerie straniere a Renzi e al Sì: da Angela Merkel a Barack Obama fino all’Unione europea, tutti tifano per la vittoria del premier e della sua riforma.
Ieri la carica è arrivata anche dai grandi media internazionali, da due delle testate guida della comunità finanziaria globale. Per il
Financial Times
- la firma è quella pesante di Wolfgang Munchau - la vittoria del No spingerebbe l’Italia fuori dall’euro. Il
Wall Street Journal dal canto suo si “limita” a parlare di investitori che «si preparano al tumulto » in vista del 4 dicembre.
Nel governo intanto sono cauti, la materia scotta. Da un lato Renzi ha parlato di «ovvietà». Lo spread, rileva, «aumenta se c’è incertezza: non è una minaccia, ma una constatazione». «E’ un fatto normale», l’ha definito invece il ministro Padoan. «Ma non è questione di allarmi delle élite o di complotti», ha aggiunto riferendosi al normale nervosismo dettato dall’incertezza.
Eppure sembra che la banale constatazione di Renzi e Padoan soccomba di fronte a quella parola che lo stesso ministro ha ritenuto di dover citare semplicemente per neutralizzarla: complotto. Già, perché gli italiani sembrano invece orientati a pensarla così, che la paura sia la carta ingannevole giocata dall’establishment e dai poteri forti per tirare la volata al governo e favorire il Sì.
Il ricordo più recente di grande paura collettiva è proprio quello dello spread alle stelle (570 punti base) che nel 2011 ha portato alle dimissioni di Berlusconi e all’arrivo di Monti. Allora l’operazione fu sostenuta dall’opinione pubblica terrorizzata dal rischio default. Ma in 5 anni molto è cambiato. Prima la retorica di Forza Italia (copiryght Brunetta) che ha trasformato il rischio fallimento sovrano in un complotto per abbattere l’ex Cavaliere. Poi il Movimento 5 Stelle che con una mano di vernice ha cancellato le differenze tra fatti e complotti, tra rischi reali e giochi dei poteri forti.
E così si arriva all’analisi dei sondaggisti, per i quali la paura dello spread quanto meno non sposta di un millimetro il risultato delle urne. «Gli elettori in questo periodo votano contro il governo, a prescindere da chi lo guidi, perché sono alla ricerca di un generico cambiamento», spiega Nicola Piepoli. Concorda Nando Pagnoncelli, per il quale «le opinioni non si spostano» semplicemente perché gli italiani agli allarmi «non ci credono». Il politologo Alessandro Campi, direttore della Rivista di politica, va oltre e profetizza: «Nella migliore delle ipotesi questi allarmi sono neutri, non spostano voti. Nella peggiore sono controproducenti. Di fronte a un elettorato sfiduciato e prevenuto le fonti che lanciano gli allarmi sono identificate con l’establishment e quindi automaticamente squalificate». Oltretutto i toni sempre più radicali dei populisti sterilizzano, rendono le tesi tutte uguali e anestetizzano le paure. La spiega in modo efficace lo stesso Renato Brunetta, tra i politici più attivi sul fronte del No: «Se parlano J.P. Morgan, Goldman Sachs, Financial Times e magari Marchionne, la gente si incazza e vota contro». Più cauto il politologo Roberto D’Alimonte, che l’ irritazione degli italiani per gli allarmi la vede, ma valuta che alla fine «indispettiti e intimoriti si bilanceranno».
Che l’argomento paura di questi tempi sia scivoloso lo sanno anche nel Partito democratico, tanto che il responsabile per l’Economia Filippo Taddei ci va cauto: «E’ evidente che ci sono conseguenze per l’economia dal voto referendario, ma gli italiani non votano per la paura del No bensì per le buone ragioni del Sì». Il ministro Franceschini bolla la previsione di Financial Times come «infondata». La parola definitiva in favore del complotto viene però da Stefano Parisi. Per l’uomo che si propone di riunire i moderati quella di Financial Times «è una stupidaggine che dicono i giornalisti perché il no dell’Italia è democratico e libero». Chiude il cerchio il senatore azzurro Lucio Malan per il quale «la strategia del terrore messa in campo dai sostenitori del Sì fa dire a Ft che se vince il No l’Italia esce dall’Unione ». E come mandante delle Cassandre identifica proprio Renzi. Ecco servito il complotto.
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“Sì nonostante Renzi” Da Santoro a Lerner il partito del meno peggio
Non amano il premier, ma ora temono l’effetto Trump “Così corriamo il rischio di vedere i dilettanti al potere”
TOMMASO CIRIACO Rep
ROMA. C’è chi dice Sì, nonostante Matteo Renzi. È il partito della riforma “turandosi il naso”, di quelli che il premier non va bene ma gli effetti del No sono pure peggio. «Vedo la bocciatura del referendum – ha dichiarato Gad Lerner – come una tappa di avvicinamento a un governo cinquestelle che non auguro all’Italia. I dilettanti al potere, come dice Grillo, mi preoccupano». La molla non è solo lo spettro di un governo della Casaleggio associati, o comunque non per tutti. C’è l’effetto Trump, la sopravvivenza del bicameralismo perfetto, il terrore dello spread, l’horror vacui delle riforme, la chimera della stabilità. Tutte buone ragioni, in ogni caso, che inducono Michele Santoro e Gianni Cuperlo, Vittorio Feltri, Stefania Sandrelli e parecchi altri a stampare una mega X sul Sì.
Che clamore quando Santoro si è iscritto al club dei “nonostante”. Mai tenero con il premier, il giornalista ha sorpreso tutti schierandosi con il restyling della Costituzione: «La riforma poteva essere più condivisa? Certo. Scritta meglio? Certo. Ma se vince il No i diritti di noi cittadini si rafforzeranno? La democrazia sarà più forte? Vi prego, non rispondete con un’altra domanda. O col solito vaffanculo ». Ecco un altro cruccio di questo piccolo esercito: perché giocare con la tenuta del governo, quando si balla sull’orlo del precipizio?
Nessuno (o quasi) di questi sostenitori del Sì può considerarsi fan del premier. Lo era in origine Briatore, ma rivendicando sempre un dna orgogliosamente berlusconiano. Oggi la sua diserzione dal fronte del No la spiega così: «Io non ho paura del diavolo. Non temo i comunisti perché non credo mangino i bambini. E Renzi non mi sembra il prototipo del comunista ». Neanche Stefania Sandrelli promuove a pieni voti il premier, ma aiuta comunque il comitato pro riforma: «Cerchiamo di fidarci del meno peggio. Il referendum è una occasione che non dobbiamo perdere».
Di destra o di sinistra cambia poco, sempre di Sì sofferti si tratta. Soffertissimo quello di Cuperlo, che ha strappato allo scadere l’impegno di modificare l’Italicum e non si è accodato al resto della minoranza dem. A scanso di equivoci, però, continua a duellare con il leader: «Lavorerò per un’alternativa politica e culturale al renzismo». E che dire di Arturo Parisi? L’ideatore dell’Ulivo sceglierà la riforma “nonostante” il premier. Esattamente come il governatore della Toscana Enrico Rossi, pronto in ogni caso a sfidare il segretario al congresso: «Voterò Sì, malgrado Renzi. Il contenuto è avere una Camera che fa la maggior parte delle leggi e un Senato rappresentante dei territori». Sempre sul fianco progressista si espone Giuliano Pisapia, bocciando il No da lidi certamente non renziani: «La democrazia non è in pericolo. Quello di avere governi stabili è un bisogno reale».
Merito e timori, vale tutto da queste parti. Feltri bacia la riforma dopo decenni di berlusconismo e un presente con sfumature verdiniane. «Avrei preferito la totale abolizione del Senato - precisa - però è sempre meglio averne uno ridotto piuttosto che un bicameralismo perfetto». Da Venezia, poi, un altro amico del Cavaliere come il sindaco Luigi Brugnaro sceglie il Sì. La ragione? La palude del riformismo: «Dirò sì, anche se sono d’accordo con Salvini e Brunetta sul fatto che la riforma ha aspetti che non vanno. Bisogna fare. E se vince il No ci vorranno almeno altri sei anni per un’altra riforma».
Alla fine sempre al destino della sinistra si torna. Ai suoi tormenti e alle sue contraddizioni: «Se davvero Bersani pensa che Renzi stia alterando il dna del Pd - ragiona il regista Paolo Virzì - allora perché dice che può restare al suo posto anche se perde? Dichiari che il No serve a cacciarlo. Non so se sottoscriverei, ma lo capirei». Anche il “nonostante” a volte vacilla.
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IL RISCHIO DI UN VOTO DETTATO DAL RANCORE
IL REFERENDUM costituzionale cade in un momento storico nel quale una catena di episodi ci ricorda che è sparita la cultura politica del lungo e pacifico dopoguerra europeo. Quella cultura in cui i corpi elettorali, davanti al rischio di veder crollare equilibri sistemici costati sangue resistente, avevano imparato a prendersi la responsabilità di scegliere o il bene o il male minore: il voto aveva dunque una sua sacralità, esplorabile da sondaggi che non misuravano l’umore dei consumatori di politica, ma il posizionarsi di pezzi di società.
Oggi vediamo tutti che non è più così. In tutto l’Occidente l’elettore delega il proprio voto alle emozioni. L’irreparabile, come in un gioco di realtà virtuale, viene esplorato. Nel confessionale di Twitter ci si pente della fornicazione elettorale del giorno prima, incuranti delle conseguenze. Il rancore puro per ceti dirigenti mediocri sposta voti e delegittima gli esiti. La disintermediazione politica con cui i capi volevano parlare con “la gente”, espone i leader a feedback a cui non sanno far fronte e trasforma i decisionisti in indecisionisti.
Su scala nazionale a questo si aggiunge il fatto che unire (unire la società, figurarsi i partiti...) è percepito come un disvalore. L’utopia di un bipolarismo italiano nata alla fine del secolo XX era stata quella di raccogliere da un lato le sinistre socialiste e cattoliche e dall’altro i liberali conservatori e cattolici, portatori nelle appartenenze comuni di un comune senso dello Stato: non ne resta nulla. Sciolti i poli, restano iceberg e collisioni opache.
Se non si colloca il referendum in questo contesto non si capiscono le ragioni e il pericolo d’una campagna elettorale disastrosa: dove mezza Italia colta e dotta dipinge una piccola riforma, cucinata nel tegamino d’una maggioranza parlamentare esile, come l’anticamera dell’autoritarismo da cui ci dovrebbe difendere un no che entusiasma l’estrema destra; e l’altra mezz’Italia la descrive come il lasciapassare per un futuro apocatastico, al quale la sinistra ha contribuito con #moltihashtag e #pocheidee.
Renzi non è il solo ad aver voluto una campagna così: se ne è accollato la responsabilità, s’è battuto (poco) il petto e ha ricominciato. Anche perché il referendum lo porta in una posizione che nel breve periodo è win-win: un successo del sì gli consentirà di intestarsi una vittoria regalatagli dallo zelo altrui; una vittoria del no aprirà un regolamento di conti dentro il Pd che il leader gestirà dalla comoda posizione della vittima su cui si perpetra un atto che ricorda il “Prodicidio” del 1998.
Sulla media gittata, però, i due esiti hanno implicazioni diverse. La prevalenza del Sì apre un periodo delicatissimo, ancorato alla stabilità del governo che potrebbe permettere di gestire, in Italia e in Europa, errori vecchi e nuovi. La vittoria del No scoperchia invece il vaso di Pandora della instabilità italiana, con riverberi drammatici sulle elezioni in Francia e Germania, e la incrementata irrilevanza dell’Europa rispetto a un mondo ridisegnato dalla troika Putin-Trump-Xi.
E con una conseguenza per l’Italia non sufficientemente considerata: relativa all’articolo 138, che in un certo senso è il vero oggetto del referendum del 4 dicembre. Se il 138 dimostrerà ancora questa volta — in presenza di una riformina che rimedia i danni del titolo V (Lorenzin e Alfano ne hanno fatto vedere in corpore vili le conseguenze sul sistema sanitario nazionale e sono impressionanti) e impone al Senato una metamorfosi auspicata da La Pira dal 1948 — se dimostrerà, dicevo, di non funzionare le destre palesi e occulte avranno guadagnato l’insperato. In un futuro più o meno lontano i grillini — che sono un partito di destra, con contenuti di destra e un destino di destra — insieme a tutte le destre, da quelle qualunquiste a quelle nazionaliste, saranno libere di invocare in tempi favorevoli una costituente con tanto di piani di rinascita nazionale e sponde impensate interne ed esterne.
Questo argumentum potrebbe trasformare una piccola quota di No indispettiti in Sì non necessariamente entusiastici del wording della riforma: una quota capace di fare la differenza. Che Renzi possa usare male quei Sì, sarebbe un male: ma un male minore.
Per spiegarlo al Paese bisognerebbe che entrambi gli ultimi due statisti europei residenti in questo paese — Giorgio Napolitano e Romano Prodi — se ne dessero pena, perdonando a Renzi molte cose. Napolitano l’ha fatto: ha sopportato la sordità intermittente del governo ai suoi richiami, la indecente gazzarra ai suoi danni in Senato, e l’ipercinetismo di chi cerca di intestarsi un passaggio riformatore di cui è il solo titolare politico. Prodi, che ha subìto pianificati tradimenti e insolenze insopportabili col silenzio a sonagli che tutti conoscono, non si è pronunciato e non è detto che lo farà.
Intanto la campagna continua e disgrega un Paese fragile, i sondaggisti leggono l’oroscopo e le irrazionalità fanno la punta alle matite del 4 dicembre.
L’autore è uno storico e firmatario dell’appello di studiosi per “ Un pacato sì”
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