giovedì 10 novembre 2016

Paura, eh?




Gli Usa visti dal Pd: “Poca sinistra”. “No, troppa” 

LEZIONI AMERICANE. BERSANI: LA MUCCA BUSSA ALLA PORTA. BONACCINI: QUELLI CHE VOGLIONO SPOSTARE L’ASSE POI SI SVEGLIANO CON TRUMP

Rep
ROMA.
La sinistra si sveglia nell’incubo Trump. E scoppiano le polemiche sul populismo che avanza, i “distinguo”, i tanti “io l’avevo detto” e il Vaffa dietro la porta. Soprattutto un ping pong sulle ragioni della sconfitta democratica negli Usa e sulla lezione che consegna all’Italia in vista del referendum costituzionale. Come la sinistra può arginare i populismi? Ci vuole più sinistra o meno sinistra?
Pierluigi Bersani, l’ex segretario del Pd, in rotta di collisione con Renzi e ormai in campagna per il No al referendum, si sfoga ricorrendo a una delle sue metafore: «Da tempo ho detto che la mucca è in corridoio e ora bussa pure alla porta ma nessuno la vuole vedere». Rincara: «Ripeto “attenti”, ma ormai dicono che il mio è un problema psicanalitico e meno male che non mi bollano come un caso psichiatrico». Quindi l’affondo: «Se andiamo a braccetto con l’establishment , la gente ci volta le spalle, e avremo delle brutte sorprese». In pratica, ci vuole più sinistra. «Io avrei votato Sanders...In Italia ci vuole una sinistra larga», sempre Bersani.
Scontro nel Pd su un tweet di Stefano Bonaccini, il governatore dell’Emilia Romagna, che a risultato Usa appena diffuso, commenta: «Per quelli che spostiamo l’asse più a sinistra... poi si svegliano con Trump». Reagisce Enzo Lattuca, deputato bersaniano: «E chi sarebbe che ha spostato l’assea sinistra? La Clinton?».
Ma è proprio un appello a ricostruire un campo di sinistra ad essere rilanciato da Nicola Fratoianni, coordinatore di Sinistra italiana. Si rivolge a Bersani: «Svegliamoci prima che sia troppo tardi. La Clinton era la candidata sbagliata...». Ma la sveglia che per Fratoianni è una sinistra alternativa al Pd e schierata per il No al referendum, è tutt’altra cosa per Massimo Zedda, il sindaco di Cagliari, anche lui vendoliano.
«Per arginare i populismi la sinistra deve evitare di frammentarsi e anche di essere sempre contro»: riflette Zedda. L’onda Trump quale avrà un effetto sul referendum? «Stiamo parlando di cose diverse, ma certo la sinistra sta facendo molti errori frammentandosi». Ragiona Zedda che sul referendum non si pronuncia: «Se mi esprimessi per il No negherei il lavoro che sto facendo per la città metropolitana, ma se dicessi Sì nasconderei le mie tante perplessità... i quesiti del referendum andavano spacchettati». Compatti i dem solo contro «la strumentalizzazione dei 5Stelle».. ( g. c.)
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I rebus di Renzi 
I timori per il referendum: “Speriamo che i sondaggisti sbaglino anche qui”
Arriva l’onda dagli States “Forse era meglio Sanders vince chi porta il nuovo”

TOMMASO CIRIACO Rep
ROMA. «Sono stato l’unico tra noi a sostenere Hillary, giusto? Chi di voi era con Sanders alzi la mano. Ecco, solo Delrio e la Madia: gli unici ad aver veramente capito». Palazzo Chigi, consiglio dei ministri lampo. Matteo Renzi ha le occhiaie. Deve fare i conti con una notte insonne e una batosta geopolitica innegabile. Eppure, prova a sdrammatizzare: «Ragazzi, ora avremo Berlusconi che giustamente andrà da Trump e dirà: “Mi hanno massacrato, ma tu sei come me”. In effetti, questa è la sua definitiva riabilitazione...». Il premier scherza, ma deve fare i conti con un sentiero tutto in salita. Dopo aver puntato molto sul rapporto con Barack Obama e la continuità dell’amministrazione democratica, si ritrova al potere il tycoon. Un bel problema, a quattro settimane dal referendum. Che il leader prova a superare con questa lettura: «Anche in Italia - come negli Usa la sfida è su chi incarna il cambiamento, così come è toccato a Trump rispetto a Clinton. E noi possiamo farcela».
A dire il vero tira una brezzolina gelida, nel quartier generale renziano. Né bastano le battute, come quella di Maria Elena Boschi in consiglio dei ministri, a risollevare il morale. «Magari - sorride - ci ritroviamo Flavio Briatore come ambasciatore... ». La notte del leader è stata insonne. Incollato alla tv fino all’alba, ha mollato solo dopo l’ultimo Stato scrutinato. Poi, dopo un breve break, ha iniziato a ragionare sul futuro. La prima mossa è stata quella di contattare l’ambasciatore italiano oltreoceano, Armando Varricchio. Il premier sa che il diplomatico si è “affacciato” durante la convention di investitura del candidato repubblicano, e proverà a sfruttare questo canale per favorire un primo contatto con il nuovo alleato. Nel frattempo si congratula con il vincitore: «Siamo di fronte a un fatto inedito - fa sapere - collaboreremo, l’amicizia resta forte. E penso che il presidente Donald Trump sarà diverso dal candidato Trump».
I nodi, però, restano tutti. «Adesso abbiamo un problema – ammette sconsolato il renziano Davide Ermini - perché puntavamo tanto sulla Casa Bianca per sostenere la nostra politica sull’immigrazione e sulla flessibilità in Europa. E adesso?». Adesso bisognerà ricucire, consapevoli che proprio sull’altare del feeling con il presidente uscente Renzi ha sacrificato anche il filo diretto con Angela Merkel. «E comunque - si difende a sera sui social - è meschino polemizzare sull’invito che ho ricevuto da Obama ed è provinciale immaginare che aver sostenuto Clinton abbia danneggiato l’Italia ».
Dubbi legittimi, comunque, che toccherà al capo del governo spazzare via. Ma il vero scoglio resta la politica interna. Il referendum incombe, il colpo è stato durissimo e al leader serve un’impresa per risollevare il morale delle truppe. Ecco come: «Non c’è relazione con il voto Usa. I leader del fronte del No come Berlusconi e D’Alema non possono incarnare il cambiamento. E lo stesso vale per Grillo, basta guardare come amministrano i suoi sindaci». Qualcuno, a dire il vero, spera che il colpo di frusta possa rimotivare gli indecisi e condurli nelle braccia del Sì. «Speriamo che i sondaggisti continuino a sbagliare», ironizza il premier. Di certo, l’effetto Trump è ancora tutto da valutare: «L’elettorato italiano sarà spaventato da Trump?», si domanda Alessandra Ghisleri di Euromedia Research.
Si vedrà. Per sicurezza, intanto, al ministero dell’Economia si monitora l’attualità con una certa apprensione. Il terremoto pare aver già influito sull’umore degli italiani, peggiorando le performance dei consumi. E adesso a via XX settembre si studia con attenzione ogni oscillazione dei mercati, per comprendere l’effetto delle Presidenziali e in vista del voto del 4 dicembre.
Dovesse andare male, il presidente del Consiglio è già pronto ad affrontare anche lo scenario di una crisi, perché non è disposto a restare a Palazzo Chigi per farsi “rosolare” dai suoi nemici. Una via d’uscita prova un po’ a sorpresa a offrirgliela Silvio Berlusconi, attraverso il suo braccio destro Gianni Letta. «Tra Clinton e Trump è stata una sfida con tanto veleno - ha ragionato l’ex sottosegretario due sere fa, nel bel mezzo della maratona elettorale organizzata dall’ambasciatore Usa - così come per il nostro referendum. Ma anche da noi il 5 dicembre si deve andare oltre, aprendo una fase di coesione nazionale». A buon intenditor, poche parole.
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Renzi: “Trump ha rappresentato il cambiamento rispetto ai Clinton Ma il referendum è altra storia” 

“Tra 15 giorni sarà tutto passato. E i sondaggi sbagliano” 
Carlo Bertini Fabio Martini Busiarda
Il 9 novembre 2016 è una di quelle giornate dalle conseguenze incalcolabili per tanti, anche per Matteo Renzi, eppure per diverse ore il presidente del Consiglio ha provato ad ostentare un aplomb anglosassone. A caldo ha espresso nei confronti di Donald Trump parole di augurio dal tono soft e politicamente corretto: «Mi congratulo e gli auguro buon lavoro, convinto che l’amicizia resti forte e solida». Ha incontrato i sindaci per il Sì. E in serata Renzi si è messo dietro al computer per la consueta “mitragliata” di battute e pensieri del “Matteorisponde”, negando che ci possa essere «un collegamento» tra voto in Usa e referendum. 
A palazzo Chigi lo sanno: una volta digerito l’effetto-Trump, il 4 dicembre gli occhi del mondo si poseranno sull’Austria (dove è prevista la ripetizione delle elezioni presidenziali), ma soprattutto sull’Italia e sul suo referendum: per capire se l’onda anti-establishment che ha trascinato Donald Trump possa tracimare anche in Europa. 
La prossima vittima del “populismo globalizzato” sarà proprio Matteo Renzi? «Non ci credo. Tra due settimane sarà tutto passato e io sono certo che nell’ultimo miglio recuperiamo i 3 punti di svantaggio» e «se c’è un elemento positivo dalla campagna referendaria è che in questo 2016 i sondaggi non ne azzeccano una e spero che questo trend sia confermato», ha confidato ieri il presidente del Consiglio, chiacchierando con alcuni deputati del Pd alla buvette di Montecitorio. Unica ammissione: «Trump ha rappresentato il cambiamento rispetto ai Clinton…». 
Per Renzi l’enigma dei prossimi giorni resta inalterato: Donald Trump sarà il “mostro” che farà tornare verso il Sì” elettori progressisti disamorati da Renzi ma impauriti? Oppure la vittoria di Trump incoraggerà verso il No gli elettori disincantati, ma ancora incerti sul da farsi? 
Il professor Arturo Parisi, “ideologo” del bipolarismo, della stagione dell’Ulivo e che ha insegnato negli Stati Uniti, dice a “La Stampa”: «La migliore definizione dell’elezione di Trump è quella del regista americano Michael Moore: “il più grande vaffanculo della Storia”. Una definizione della quale giustamente Grillo ha rivendicato il “copyright” qualche ora dopo. Una definizione colorita e tuttavia esatta, espressione di un sentimento più che strumento di un progetto.
La stessa risposta che tutti i Trump in tutti i Paesi dell’Occidente vanno offrendo alle masse del ceto medio che sperimenta una “mobilità sociale discendente”. Conseguenze sul referendum? Lo stesso evento che incoraggia alcuni ad allungare il passo, può spingere altri a invertire la direzione di marcia quando il rischio si rivela imminente». 
Come dire: l’elezione di Trump potrebbe provocare reset e choc al momento imprevedibili. Così come imprevedibile sarà l’atteggiamento della amministrazione Trump nei confronti dell’Italia di Matteo Renzi, se sarà ancora lui il premier. 
Nell’entourage di Trump non è sfuggita - e non è per niente piaciuta - l’accoglienza regale riservata da Obama a Renzi. Il primo segnale sarà rappresentato dalla scelta del nome dell’ambasciatore in Italia: un test per capire se Roma subirà o meno un “downgrading”, un declassamento. 
BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI


Donald da invotabile a nuovo eroe i convertiti italiani del giorno dopo IL CASO. 5STELLE E FORZISTI SALTANO SUL CARRO DEL VINCITORE DOPO MESI DI IRONIE E SFOGGIO DI NEUTRALITÀCONCETTO VECCHIO Rep
ROMA. «Mi suiciderei piuttosto che votare uno di quei due!».
«Chi scelgo tra Trump e Clinton? Esiste un’altra candidata che mi affascina: Jill Stein, la candidata dei Verdi. C’è altro oltre a Trump e Clinton».
«Trump? Forse è meno peggio della Clinton, però se è quello che esprimono oggi gli Stati Uniti non è una cosa straordinaria ».
La prima frase l’ha detta Manlio Di Stefano, il capo degli affari esteri del M5S; la seconda l’influente membro del direttorio Alessandro Di Battista; la terza il fondatore Beppe Grillo. Prima del voto, si capisce. Dopo mesi di profilo basso e prudentissime dissimulazioni («il M5S ha sempre seguito la non ingerenza esterna», precisò la linea Di Battista in tv a
Politics),
i grillini, di fronte alla valanga di The Donald, ora suonano a tutto volume la fanfara del trumpismo. Grillo paragona l’8 novembre al Vaffa Day; la deputata Ruocco chiede le dimissioni della Boschi per avere tifato per la Clinton; l’esperto di riforme Toninelli benedice «la rivolta di un popolo contro Wall Street», mentre Di Battista, con inusitato aplomb istituzionale, si è affrettato a dire di non avere fatto endorsement «per rispetto». L’entusiasmo deborda a tal punto che Grillo chiama il nuovo inquilino della Casa Bianca “Pannocchia”: praticamente un amicone con cui scolarsi una birra al pub.
Improntata alla più rigorosa neutralità era anche la linea dei berlusconiani, ad eccezione della triade Antonio Razzi, Giovanni Toti e Daniela Santanché (con l’aggiunta di Briatore che definì Trump «una delle persone più democratiche che io conosca »). Il candidato repubblicano in questi mesi è stato spesso visto come il Silvio d’America, l’outsider che sbaraglia l’establishment di Washington, eppure Berlusconi ha sempre mantenuto le distanze liquidandò Trump come «un incrocio tra Grillo e Salvini».
L’ordine di scuderia quindi era farsi notare il meno possibile. Però, siccome a un certo punto il Cavaliere fece filtrare la sua ventennale amicizia con Hillary e Bill, ai primi di marzo Renato Brunetta confessò: «Piuttosto voterei Clinton». Il capogruppo al Senato, Paolo Romani, disse a Tommaso Labate del Corriere della Sera: «Uno come Trump non lo voterei per nulla al mondo». Maurizio Gasparri la mise sull’estetica: «Trump mi crolla sui capelli, quel riporto lo rende inaffidabile. Sembra creato dalla Clinton per far vincere lei, comunque preferisco occuparmi di politica, non di folklore». Tranquilli: a risultato acquisito Gasparri ha mitragliato una dozzina di tweet giubilanti. Si andava da “grande dolore per la sconfitta Clinton”, seguita da ventitré faccine sorridenti a «i perdenti rosicano, imbecilli!». Brunetta ha esultato come un ultrà in curva: «Ha vinto la democrazia e hanno perso i poteri forti, gli stessi che sostengono Renzi». Persino l’educato Romani non si è trattenuto più: «Il sogno americano ha vinto ancora». L’ex ministro Quagliariello li ha bollati come «i trumpisti del giorno dopo».
Salire sul carro del vincitore, al pari della dietrologia e del complottismo è del resto una tipica malattia italiana, come ebbe già a notare Flaiano. Non appena un leader mostra di assurgere a una carica presidenziale si sgomita per entrare a corte. Fu così col carro della Repubblica dopo il fascismo; col carro di Craxi dopo il congresso del Midas; non parliamo poi del carro stipato all’inverosimile di Berlusconi negli anni d’oro della Seconda Repubblica. Non si trovava un posto libero nemmeno su quello dell’attuale premier, quando dopo la vittoria alle primarie del 2013 larga parte della dirigenza bersaniana e lettiana si scoprì felicemente renziana. Un atteggiamento che non risparmia nessuno, come sanno anche quegli esponenti della sinistra italiana che tempo fa furono accusati di salire finanche «sul carro di Tsipras».
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LA NUOVA INCOGNITA SULLA STRADA DI RENZI STEFANO FOLLI Rep
COME è logico, non esiste un nesso diretto fra l’elezione di Trump in America e il nostro referendum costituzionale del 4 dicembre. Sulla carta le probabilità — e le difficoltà — di Renzi restano le stesse di due giorni fa: riguardano le incertezze di una campagna fin qui poco fortunata e i dubbi sulla sovraesposizione del presidente del Consiglio.
In realtà, è opinione diffusa che le notizie dagli Stati Uniti avranno un riflesso inevitabile nell’opinione pubblica. In quali termini, peraltro, non è ancora chiaro. I fautori del “No” ritengono di trarre vantaggio dalla scossa destabilizzante che si propaga dall’altra sponda dell’Atlantico. Vi leggono non a torto una condanna degli “establishment” nazionali e giudicano che la campana per Renzi suonerà proprio nel giorno del referendum. Non tengono conto del fatto che il passaggio referendario non equivale “tout court” a un’elezione generale. Può essere usato come un surrogato da chi vuole assestare un colpo al governo e al premier, ma esiste una fascia di elettorato che vorrà invece esprimersi sulla riforma della Costituzione e non accetterà di farsi coinvolgere in una resa dei conti.
C’è anche un secondo punto di vista. Quello di chi ritiene che proprio l’enorme sorpresa americana (salutata con enfasi da Grillo e Salvini, pur rivali fra loro) potrebbe indurre a una maggiore prudenza. Si fa notare che il risultato del referendum sulla Brexit, in giugno, ebbe come corollario un arretramento di Podemos nelle elezioni in Spagna, tre giorni dopo. Non ci fu quindi l’effetto marea, ma il suo contrario: l’elettorato spagnolo ebbe timore di alimentare la rincorsa populista e con il suo voto fissò il primo tassello per la soluzione della crisi quattro mesi dopo. In sostanza, è troppo presto per stabilire se Renzi ha oggi maggiori o minori probabilità di perdere il referendum. Quel che è certo, il quadro generale è cambiato e non in meglio per le classi dirigenti europee. In fondo, sono passate solo poche settimane dalla cena di gala offerta da Obama a Washington all’amico italiano. Era una serata costruita con abilità per rinsaldare l’immagine del presidente del Consiglio. Pochi giorni prima era stato reso noto che un po’ meno di duecento militari italiani sarebbero partiti per le Repubbliche baltiche: una missione multilaterale della Nato volta a premere su Putin.
La scommessa renziana aveva un senso: rafforzare il suo profilo di alleato speciale collocandosi fra l’uscente Obama e la subentrante Hillary Clinton. Non a caso il governo di Roma si presentava come il più esplicito sostenitore della candidata democratica: al punto di essere pubblicamente citato, unico caso, dalla stessa Clinton in funzione anti-Trump. Sarebbe riduttivo spiegare questa strategia con le esigenze referendarie. La questione, s’intende, è tutt’altro che secondaria. Tanto è vero che Obama aveva dichiarato il suo sostegno al “Sì” come fattore di stabilità e rinnovamento, aggiungendo tuttavia un consiglio al partner italiano: dovrà rimanere al suo posto, sempre in nome della stabilità, anche in caso di sconfitta nelle urne.
In ogni caso l’obiettivo di Renzi era più ambizioso. Consisteva nell’utilizzare l’amicizia del duo Obama-Clinton per consolidarsi sul piano interno, ma anche per diventare più credibile nella polemica contro la Commissione europea. Tutto si tiene. L’Europa non accetta i conti pubblici italiani e il negoziato si presenta difficile. Renzi apre allora un contenzioso usando termini forti e ovviamente non arretrando quando Juncker risponde con una frase di troppo. Lo scontro è utile in termini elettorali in vista del fatidico 4 dicembre, ma si suppone che dal giorno dopo il ministro Padoan lavorerà per ricomporre il dissidio. È un sentiero stretto, ma Renzi è abituato a muoversi in modo spregiudicato. Resta il fatto che aprire un conflitto con l’Europa è rischioso. Ecco perché diventa prezioso il ruolo — o almeno l’apparenza — di alleato privilegiato degli Stati Uniti che Renzi ha avuto cura di coltivare. Obama gli ha offerto il migliore argomento nell’incontro di Washington: ha condiviso la linea anti-austerità che l’Italia propugna contro la Commissione e soprattutto contro la Germania di Angela Merkel. E la cornice americana è quello che serve al premier italiano per non essere esposto su due fronti.
Ma adesso la scena è mutata. Trump rappresenta un’incognita per tutti i paesi europei e anche per l’Italia. Il rapporto con lui è tutto da costruire e l’aver ostentato l’appoggio a Hillary Clinton non aiuta. All’improvviso la stessa polemica con l’Unione sembra superata dagli eventi. Con un presidente isolazionista alla Casa Bianca la priorità dei paesi europei è ritrovare una solidarietà fra loro e rilanciare il processo d’integrazione, a cominciare dalla difesa. Qui l’Italia può prendere un’iniziativa non solo mediatica. Purché la sua credibilità non sia smarrita.
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