giovedì 17 novembre 2016

"Post-truth" populista: il bue manipolatore di professione sui grandi giornali nazionali diventa nuovorealista e dice cornuto allo scecco che trolleggia su facebook



Quattro articoli sui tre principali quotidiani nazionali - Gionni Riotta sulla Busiarda, il Crociato Liberale Battista sul Principale Quotidiano della Borghesia Nazionale, Franceschini e Salmon sulla Repubblica di Renzolandia - commentano la scelta degli Oxford Dictionaries di indicare "Post-Truth" come parola dell'anno e deprecano il trionfo in chiave populista e gentista del motto di Nietzsche secondo cui “non ci sono fatti ma solo interpretazioni”.

Proprio loro, i principali responsabili della manipolazione industriale del consenso nell'epoca postmoderna - quelli delle fialette di Colin Powell, o dei cani di Kim Jong Un che si sono mangiati lo zio, o del Signor Spread, o dell'Italia che con Renzi supera la Germania, per rimanere ad alcune tra le bufale più recenti... - si lamentano del potere di mistificazione del web. E invocano criteri di verità e rigore scientifico.

La realtà è che temono di perdere il mestiere di funzionari dell'ideologia, nel momento in cui quest'ultima, avendo l'egemonia borghese occupato ogni angolo della sfera pubblica, è ormai in grado di produrre se stessa in maniera pressoché casuale [SGA].



Battista


I fatti non contano più È l’epoca della “post verità”
L’Oxford Dictionary ha eletto parola dell’anno “post truth” La gente è più influenzabile dalle emozioni che dalla realtà 

Gianni Riotta Busiarda 17 11 2016
Una delle più struggenti storie della storica campagna elettorale americana del 2016 resta la profezia del musicista Kurt Cobain, nel 1993, un anno prima di suicidarsi: «Alla fine la mia generazione sorprenderà tutti. Sappiamo che i due partiti giocano insieme al centro e, quando matureremo, eleggeremo finalmente un uomo libero. Non sarei per nulla sorpreso se fosse un uomo d’affari, incorruttibile, che si dia davvero da fare per la gente. Un tipo alla Donald Trump, e non datemi del pazzo…».
Peccato che la citazione del leader dei Nirvana, che ha fatto il giro dei social media, Twitter, Facebook, Google, sia inventata, forse in Russia, forse in America, da trolls che inquinano di menzogne i paesi democratici. Bene ha fatto dunque ieri l’Oxford Dictionary a dichiarare «Parola dell’anno 2016», «Post truth» la post verità, diffidenza per le opinioni diffuse e credulità per bugie condivise da siti a noi cari. La battaglia Trump-Clinton ha vissuto di post verità, dall’attore Denzel Washington paladino di Trump, alla bambina di 12 anni che accusa il neo presidente di stupro. Falsità che milioni di cittadini amano tuttavia credere.
Aristotele aveva legato «verità» e «realtà», facendo dire secoli dopo al logico Alfred Tarski che «La frase “La neve è bianca” è vera se, e solo se, la neve è bianca». Questa è nozione di verità che impariamo da bambini, ma la crisi dell’autorità nel secondo Novecento, mettendo in discussione politica, famiglia, tradizioni, cultura, religione, ha frantumato la fede nel nesso Verità-Realtà, dapprima con un salutare moto critico, poi sprofondando nel nichilismo. Il filosofo Carlo Sini sintetizza la sindrome con una battuta macabra «La verità è la tomba dei filosofi…la Signora è decisamente invecchiata».
Quando l’insegnamento del filosofo Derrida si diffonde ovunque, la «signora Verità» si consuma in bolsa «narrativa», che ciascuno piega a suo gusto. Ma i filosofi, non è purtroppo la prima volta, non avevano previsto che quando la mattanza della verità lascia le sofisticate torri accademiche per investire il web, le «menzogne», o false notizie, avrebbero impestato, come un’epidemia, il dibattito. Già nel 2014 il World Economic Forum denunciava i falsi online «uno dei pericoli del nostro tempo», studiosi come Farida Vis e Walter Quattrociocchi catalogavano casi gravi di menzogne diventate «vere», ma intanto il virus della bugia veniva militarizzato da stati e nuclei terroristici. Oggi il presidente cinese Xi Jinping, in un messaggio alla Conferenza internazionale sul web di Wuzhen, ricorda la necessità del controllo statale sulla rete, contro i falsi: medicina drastica da società autoritarie, non da democrazia. Così da Mosca Putin scatena seminatori di zizzania digitale, da un laboratorio di San Pietroburgo, 50 di via Savushkina, e giovani macedoni spacciano falsi online in America, mano d’opera a basso costo. Secondo le rivelazioni su «La Stampa» di ieri, a firma Jacopo Iacoboni, metodi di post verità politica sarebbero in uso anche tra i 5 Stelle, e del resto al fondatore Casaleggio veniva fatto dire «Ciò che è virale è vero», massima forse apocrifa ma calzante.
Ciascuno di noi crede ai propri «fatti», su vaccini, calcio, clima, politica, e l’algoritmo dei social ci respinge tra i nostri simili. Ora il fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg, cerca di difendersi assicurando che «il 99% di quello che gira da noi è vero, il falso solo l’1%» e dichiara di non volersi fare lui «arbitro del vero». Purtroppo l’ex collaboratore Garcia Martinez lo smentisce dicendo che i funzionari provano a vendere pubblicità politica agendo giusto da «arbitri del vero». Quel 99 a 1 che a Zuckerberg sembra innocuo è letale, perché non sappiamo «dove» si nasconda, e quindi finiamo con il dubitare dell’insieme. «Ex falso sequitur quodlibet», dal falso deriva ogni cosa in modo indifferente: la massima medievale anticipa l’era della post verità, un solo 1% di falso basta a rendere incredibile il 99% di vero.
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“Beatrice Di Maio? Anche da noi architetture di propaganda sul web” 
Quattrociocchi, esperto di dati: il maestro mondiale è Putin 
Jacopo Iacoboni Busiarda 17 11 2016
«È come nella Russia di Putin, o nell’America della campagna Trump: diventa centrale la cognitive inoculation, meccanismi di inoculazione delle credenze, specialmente false credenze, o false notizie. Ma l’ingegneria ha un peso decisivo. Non mi sorprende che accada anche nel web italiano». Walter Quattrociocchi ha appena scritto un libro, «Misinformation» (assieme a Antonella Vicini. Guida alla società dell’informazione e della credulità), che studia come falsa informazione, propaganda e black propaganda, e non di rado calunnie, diffamazioni seriali e veri e propri reati, stanno inquinando pesantemente lo spazio pubblico. Anche nelle democrazie. Quattrociocchi è ricercatore all’Imt di Lucca, coordina il Laboratorio di Computational science; l’abbiamo interpellato come esperto terzo, non avendo lui avuto alcun ruolo nelle analisi che abbiamo citato ieri.
Che ne pensa?
«Lo scenario è quello. Naturalmente non parlo degli aspetti giudiziari, né identifico la centrale. Ma è evidente che è in atto in Italia, direi, una clusterizzazione fortissima della discussione in Facebook, che non si configura come casuale».
Può spiegare meglio cosa significa?
«Che, ancor più della connettività in sé, si stanno creando gruppi di discussione molto aggregati, molto densi, compatti e che si autorinforzano, molto interconnessi, che si aggregano in parte spontaneamente, per il meccanismo di confirmation bias, in parte ingegneristicamente. È un fenomeno molto pericoloso in sé, e molto studiato all’estero. Mi fanno arrabbiare quelli che dicono che in fondo i social sono piazze che potenziano ciò che è sempre esistito. No. Questa cosa, così, non è mai esistita prima».
Può fare alcuni esempi di “clusterizzazione ingegneristica”? Il primo che le viene in mente.
«Direi che queste tecniche sono usatissime da Vladimir Putin, in Russia. I maestri sono loro. Tecniche studiate, documentate. Da questo punto di vista è interessante vedere il tipo di legami col web politico italiano. Noi, come Laboratorio di Computationl Science, abbiamo quasi finito di scrivere un proposal per un progetto internazionale di analisi sistematica del web russo».
E il presidente eletto Donald Trump? Ha ingegnerizzato molto la disinformazione, o si è solo giovato di una situazione in parte anche spontanea del web in lingua inglese, spesso fuori dai confini Usa, in paesi dove è più facile e redditizio monetizzare il traffico, anche dalla viralizzazone dei falsi?
«È vero che c’è stato questo spontaneismo, mi viene in mente il piccolo paesino della Macedonia dove sono nati cento dei siti pro Trump tra i più cliccati della campagna, e totalmente virali e accettati in Facebook. Ma bisogna capire che Trump ha ingegnerizzato in modo pesante. L’hannno detto loro stessi. Il suo ingegnere Covernich è un genio, da questo punto di vista. Hanno preso una narrativa, l’hanno sostituita con un’altra senza minimamente porsi il problema della falsità, e hanno scoperchiato la pentola».
Come si viralizza un falso o una calunnia?
«Dei cluster ho detto. Fondamentali sono le echo chambers. le camere di risonanze, pagine in cui attivisti e troll rullano i tamburi, che possono essere molto manipolate, e profilate. E attrarre comunità anche in base a un engagement spontaneo, ma se non si capisce - come non capiscono molti “internettiani" - che è l’architettura che plasma, siamo fuori strada, in una situazione pericolosa».
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Oxford: “Siamo nell’era della menzogna” 

IL CASO. GLI ESPERTI DEL DIZIONARIO PIÙ FAMOSO DEL MONDO SCELGONO “POST-TRUTH” COME PAROLA DELL’ANNO

ENRICO FRANCESCHINI Rep
Si può dire in tanti modi: i fatti non contano più, la menzogna e la diceria hanno rimpiazzato la verità, la gente crede alle frottole. “Post- truth”, post-verità, riassume il concetto ed è diventata la «parola internazionale dell’anno». L’ha scelta l’Oxford Dictionary, bibbia e punto di riferimento della lingua anglosassone (e non solo), definendola come «l’aggettivo che descrive una situazione in cui i fatti obiettivi sono meno influenti sull’opinione pubblica rispetto agli appelli emotivi e alle convinzioni personali».
E’ il termine che in un certo senso ha deciso le due elezioni cruciali degli ultimi dodici mesi: il referendum britannico sulla Brexit e le presidenziali americane. Ma incarna un fenomeno ancora più ampio, va dalla politica alla società, dal pubblico al privato, dall’Occidente ai paesi emergenti. Domina il web, in particolare i social network, come sottolinea il
mea culpa
in questi giorni di Facebook e Twitter, ma dilaga anche su altri media, la tv, i talk-show radiofonici, i giornali, nelle battute che si ascoltano al bar, sul bus, in ufficio.
Il suo uso, affermano gli esperti del dizionario di Oxford, è aumentato del 2000% nel 2016 rispetto all’anno precedente, trainato da eventi come il referendum della Gran Bretagna per uscire dall’Unione Europea e la corsa alla Casa Bianca, nei quali i dati di fatto sono stati sommersi da una propaganda priva di riferimenti reali e in cui, ha osservato qualcuno, il cuore (o meglio la pancia) ha surclassato il cervello.
La scelta della parola dell’anno, da parte della “madre di tutti i dizionari” (la prima edizione risale al 1857), mira a riflettere sull’evoluzione del linguaggio. Qualche volta la parola selezionata dalla versione inglese e da quella americana del dizionario divergono, ma quest’anno ha prevalso “post-verità” in entrambi i casi. C’erano altri contendenti per il titolo, fra cui “alt-right”, diminutivo di “alternative right” (gruppo ideologico di destra estremamente reazionario e conservatore) e “brexiteer”, brexitiano o brexitiere. Ma “post-truth” ha superato tutti, come sottolineano fra l’altro una recente copertina dell’Economist dedicata al tema e un’infinità di articoli che lo analizzano e denunciano su giornali di mezzo mondo. «Non mi sorprenderei se diventasse una delle parole che caratterizzano il nostro tempo», commenta Casper Grathwohl, presidente dell’Oxford Dictionary.
Secondo i ricercatori, la parola fu usata per la prima volta nel ‘92 in un saggio del commediografo serbo- americano Steve Tesich per il settimanale The Nation, ma allora era intesa come ”dopo che è emersa la verità”, non nel senso attuale di “indifferenza alla verità”. Il termine segnala anche, osserva il dizionario, la crescente diffusione di espressioni con il prefisso “post” seguito da trattino. Peccato che a seguirlo, in questo 2016 di incredibili sorprese politiche, sia la “verità”, intesa come qualcosa di cui si può fare a meno.
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“POST-VERITÀ”, LA PAROLA DELL’ERA TRUMP 
CHRISTIAN SALMON Rep
IL SUDDITO ideale del regno totalitario », scriveva Hannah Arendt, «non è il nazista convinto né il comunista convinto, ma l’uomo per cui la distinzione tra fatti e finzione, e la distinzione tra vero e falso, non esistono più». È un’eccellente definizione di Donald Trump, che il 9 novembre è diventato il 45° presidente degli Stati Uniti. Mai un politico aveva cancellato a tal punto la frontiera tra vero e falso, tra realtà e finzione. Per Trump è la capacità di produrre adesione, di sedurre, di ingannare che conferisce validità alla parola pubblica.
È L’AUDITEL che decide tra il vero e il falso, tra ciò che è reale e ciò che è fittizio. «Ha mentito in modo strategico», ha dichiarato Tony Schwartz, il ghost writer di Trump. «Non gli procurava nessuno scrupolo di coscienza». Per quanto i media si sforzassero di opporre la verifica dei fatti alle sue menzogne, la Realpolitik alle sue fantasticherie isolazioniste, la morale alle sue molteplici scivolate sessiste e razziste, la Trumposfera agiva come un buco nero che assorbe le critiche e i richiami all’ordine. I mezzi di informazione possono trattarlo da fascista, da neofascista, possono compararlo allo stesso Hitler, «la gente se ne frega», replica lui arrogante. Che è l’atteggiamento tipico dei fascisti.
Certo, possiamo dare la colpa alla credulità degli elettori o alla complicità dei canali all- news — Fox News, Msbnc e Cnn — che grazie a Trump hanno ottenuto dei record di ascolto e degli introiti pubblicitari stimati in diversi miliardi di dollari. Ma come spezzare la spirale che lega le provocazioni di Trump ai record di ascolto delle televisioni, e questi record al consenso elettorale? Le spiegazioni non mancano. Negli Stati Uniti è stato addirittura coniato un neologismo per designare questa nuova era di menzogna politica, la “politica del post- verità”. L’incontro dei movimenti populisti e dei social network avrebbe creato un nuovo contesto e un nuovo regime di verità caratterizzato dall’apparizione di bolle informative indipendenti le une dalle altre, torri di informazione immuni ai checks and balances tradizionali che facevano da arbitri nello spazio pubblico. Gli individui ormai possono scegliere la loro fonte di informazione in funzione delle proprie opinioni e dei propri pregiudizi, in una sorta di inviolabilità ideologica che è anche una forma di autismo informativo. Questo può spiegare una forma di frammentazione delle opinioni pubbliche, ma non l’isterizzazione del dibattito pubblico che abbiamo constatato nel corso di questa campagna.
In un articolo del New York Times pubblicato qualche giorno prima delle elezioni presidenziali del 2004, Ron Suskind, dal 1993 al 2000 editorialista del
Wall Street Journal e dopo il 2000 autore di diverse inchieste sulla comunicazione della Casa Bianca, rivelò il tenore di una conversazione che aveva avuto nell’estate del 2002 con un consigliere di George W. Bush.
Questi, scontento di un articolo che Suskind aveva appena pubblicato sulla rivista Esquire a proposito dell’ex direttrice della comunicazione di Bush, Karen Hughes, lo aggredì inaspettatamente: «Mi disse che le persone come me facevano parte “di quella che chiamiamo la comunità della realtà [ reality- based community]: voi credete che le soluzioni emergano dalla vostra giudiziosa analisi della realtà osservabile”. Io assentii e mormorai qualcosa sui principi dell’illuminismo e l’empirismo. Lui mi interruppe: “Non è più così che funziona realmente il mondo. Noi siamo un impero adesso e quando agiamo creiamo la nostra realtà. E mentre voi studiate questa realtà, giudiziosamente come piace a voi, noi agiamo di nuovo e creiamo altre realtà nuove. Noi siamo gli attori della storia. E a voi, a tutti voi, non resta altro che studiare quello che noi facciamo”».
Queste frasi, pronunciate da un responsabile politico americano di alto livello (forse Karl Rove) pochi mesi prima della guerra in Iraq, non sono soltanto ciniche, degne di un Machiavelli mediologo, ma sembrano provenire da un palcoscenico teatrale più che da un ufficio della Casa Bianca. Perché non pongono soltanto un problema politico o diplomatico, ma ostentano una nuova concezione dei rapporti tra la politica e la realtà: i dirigenti della prima potenza mondiale si allontanano non soltanto dalla Realpolitik ma anche dal semplice realismo, per diventare creatori della loro realtà, rivendicando quella che potremmo definire una Realpolitik della finzione.
L’articolo di Suskind fece sensazione. Gli editorialisti e i blogger si impadronirono dell’espressione reality- based community, che si diffuse sul web.
«Nel corso degli ultimi tre anni », spiegava Jay Rosen, professore di giornalismo all’Università di New York, «anzi dall’inizio dell’avventura in Iraq, gli americani hanno assistito a clamorosi insuccessi dei servizi di intelligence, tracolli spettacolari nella stampa, un fallimento eclatante dei dispositivi pubblici di controllo delle azioni del Governo. Parlando di “sconfitta dell’empirismo”, Suskind ha messo il dito sull’essenza di questo processo, che consiste nel limitare la ricerca dei fatti, l’inchiesta sul campo».
Ron Suskind osservava che queste pratiche costituivano una rottura con una «lunga e venerabile tradizione» della stampa indipendente e del giornalismo di inchiesta. Denunciava una campagna «potente e diversificata, coordinata a livello nazionale», che mirava a screditare la stampa. A un giornalista che gli domandava se ritenesse che questi attacchi mirassero a eliminare il giornalismo di inchiesta, Suskind, rispondeva: «Assolutamente sì! È proprio questo l’obiettivo, la scomparsa della comunità dei giornalisti onesti in America, che siano repubblicani o democratici, o membri dei grandi giornali. Così non ci rimarrà più nient’altro che una cultura e un dibattito pubblico fondati sull’affermazione invece che sulla verità, sulle opinioni invece che sui fatti».
Roosevelt fu il primo presidente a utilizzare la radio per comunicare con gli americani. Kennedy inaugurò l’era della televisione. Quando Roosevelt faceva un discorso alla radio, «la gente aveva il tempo necessario per riflettere, poteva combinare l’emozione e i fatti», spiega il neuroscienziato António Damásio. «Oggi, con internet e la televisione via cavo che diffondono informazioni 24 ore su 24, sei immerso in un contesto in cui non hai più il tempo di riflettere». In società ipermediatizzate, percorse da flussi di informazioni continui, la capacità di strutturare una visione politica non con argomenti razionali ma raccontando delle storie, è diventata la chiave della conquista e dell’esercizio del potere.
L’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti è il punto culminante di questa evoluzione. Con lui, è l’universo dei reality che entra alla Casa Bianca. Più che di costruire la realtà si tratta di produrre un reality show permanente. Il reality show trumpista è un telecarnevale in cui va in scena senza posa il capovolgimento dell’alto e del basso, del nobile e del triviale, del raffinato e del volgare, il rifiuto delle norme e delle gerarchie costituite, la rabbia contro le élite. Trump è una figura del trash del lusso che trionfa sotto i segni del volgare, dello scatologico e della derisione. «Ho messo il rossetto a un maiale», secondo le parole del suo ghost- writer Tony Schwartz. Ai bianchi declassati, che hanno rappresentato il cuore del suo elettorato, propone una rivincita simbolica, la restaurazione di una superiorità bianca scossa dall’avanzata delle minoranze in una società sempre più multiculturale, specchio dei media e degli intellettuali. È contro questo specchio che Trump ha incanalato la rabbia verso le élite, gettando discredito sugli uni e ridando credito agli altri al prezzo di menzogne di ogni genere. È questo bisogno di rappresentazione che Donald Trump è riuscito a captare e trasformare in capitale politico. «Io assecondo le fantasie della gente. La gente vuole credere che una certa cosa sia la più grande, la più eccezionale, la più spettacolare. Io la chiamo iperbole reale. È una forma innocente di esagerazione e una forma efficacissima di promozione ». Dalla sua autobiografia “Trump: l’arte di fare affari”.
L’autore è scrittore e membro del Centre de Recherches sur les Arts et le Langage, CNRS Tra i suoi saggi “ La politica nell’era dello storytelling”, Fazi Editore Traduzione di Fabio Galimberti
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Bufale, veleni e falsi profili ecco l’arsenale parallelo della propaganda web
IL CASO LOTTI-M5S E L’IMPORTAZIONE DEI MODELLI SFRUTTATI PURE DA TRUMP
GIULIANO SANTORO rep
ROMA. Una storia di insulti online, profili Internet eterodiretti e cricche di mestatori. Una storia di quelle che ormai da anni caratterizza le campagne politiche in rete, è oggetto di un fascicolo giudiziario. La notizia che il sottosegretario alla presidenza del consiglio Luca Lotti ha denunciato alla Procura di Firenze una utente Twitter, Beatrice Di Maio - dietro la quale potrebbe nascondersi non una persona fisica ma una “centrale” di propaganda a 5 stelle - ha riacceso l’attenzione sul web come terreno di scontro di eserciti non convenzionali.
Se negli anni scorsi le elezioni erano state influenzate dal modello Facebook, coi sostenitori dei diversi schieramenti che si incontravano scambiandosi contenuti, o dallo stile Twitter, e quindi era possibile interagire direttamente coi candidati come mai era accaduto prima, il voto che ha incoronato Donald Trump negli Stati Uniti insegna che la campagna elettorale non è caratterizzata da una particolare piattaforma ma dal contenuto virale, vero o falso che sia, e dalla sua capacità di diffondersi e irrompere nella realtà. Ecco perché, dicono i grafici che vengono dall’America, i fake sui social media hanno sorpassato le notizie tradizionali. E Mike Cernovich, animatore del sito alt-right «Danger and Play» può dire al New Yorker: «Su Twitter noi possiamo controllare la narrazione».
E in Italia? Gianroberto Casaleggio, negli anni in cui la sua creatura M5S muoveva i suoi primi passi, la metteva così: si tratta di tirare la volata al «sentimento collettivo» (esatto, sentimento: questa storia si nutre di paura, di rabbia a volte di entusiasmo, di sicuro emozioni più che fattori razionali). L’obiettivo è costruire e incanalare a fini politici l’emozione connettiva. «Online il 90 per cento dei contenuti è creato dal 10 per cento degli utenti - diceva Casaleggio - Queste persone sono gli influencer».
Antonio Casilli insegna Digital Humanities al Paris Institute of Technology e coordina diversi progetti di ricerca internazionali sui social media. Per cominciare, gli abbiamo sottoposto la Twitter analytics di Beatrice Di Maio. «Non bisogna farsi suggestionare da tecnicismi – spiega Casilli – Al di là dei contenuti, qui vedo soltanto un gruppo di utenti che si aggrega attorno a un ‘hub’, che è semplicemente un nodo che ha più connessioni con altri nodi della rete. Può impressionare qualche profano, ma è così che funziona, sia nella vita normale che sui social network». Ciò non toglie che nel contesto polarizzato del dibattito online una battuta ficcante, una vignetta azzeccata o una bufala ben studiata hanno lo stesso effetto di una scintilla in un campo di erba secca: basta una fiammella a incendiare la prateria.
Lo sanno i grillini, ma lo sanno anche i sostenitori di Matteo Renzi, che ha affidatola sua campagna a Jim Messina, noto per la capacità di spremere consensi dai «big data». Lo stesso Renzi, ha cercato la disintermediazione attraverso i caminetti 2.0 di «Matteo Risponde » e ha affidato ai suoi divulgatori in rete la missione di diffondere il messaggio che il Sì al referendum fosse la vera scelta anti- establishment. Anche alla Casaleggio Associati possono contare sull’effetto traino dei loro uomini più in vista. Basti pensare ai due golden boy Alessandro Di Battista (la cui pagina Facebook raccoglie un 1 milione 264 mila like) e Luigi Di Maio (che «piace» a 953 mila persone). La propaganda 2.0 all’italiana viene dopo quella dell’era di Berlusconi, per questo i post e le dirette richiamano esplicitamente al linguaggio neotelevisivo. Gli interventi in aula vengono concepiti come clip video in una location suggestiva, a uso e consumo dei clic su YouTube (ma anche Matteo Renzi approfittò di un suo intervento alla Camera per salutare «gli amici a casa»). Si dirà che una cosa non esclude l’altra: accanto ai big serve ancora il lavoro di base, serve che qualcuno faccia il lavoro sporco, di retroguardia, che gli attacchi più personali possano essere diffusi senza impegno. Lo scopo, rivelano nel loro «Supernova» i transfughi della comunicazione grillina Nicola Biondo e Marco Canestrari, è abbassare il livello del dibattito. Gli slogan in campagna elettorale, che promettano il taglio dei costi della politica come fanno gli animatori della campagna per il Sì o che paventino rischi per la democrazia come fanno i sostenitori del No, sono fatti proprio per adagiarsi sulle opinioni correnti.
È la vittoria del troll, del provocatore digitale? «In questo momento negli Stati Uniti si dice troll invece di dire fascista – dice ancora Casilli - Ma nel caso dei suprematisti bianchi preferirei si usasse la giusta definizione, senza girarci attorno. Da noi in Italia, quando diciamo troll pensiamo a una specie di manipolatore occulto prezzolato. Perché il troll è sempre l’altro da sé. Meglio concentrarsi sui contenuti che sull’etichetta».

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